ARTHEMISIA, le mostre d’autunno – Trieste, Museo Revoltella, I MACCHIAIOLI

Vincenzo Cabianca
Acquaiole della Spezia, 1864
Olio su tela, 60×127 cm
Collezione privata
Courtesy Butterfly
Institute Fine Art,
Galleria d’arte, Lugano

I MACCHIAIOLI
Trieste, Museo Revoltella
19 novembre 2022 – 10 aprile 2023

Col termine “Macchiaioli” si definisce il gruppo di artisti italiani più importante dell’Ottocento.
Spiriti indipendenti e ribelli che abbandonano le scene storiche e mitologiche del neoclassicismo e del romanticismo per aprirsi a una pittura realista e immediata, senza disegni preparatori, dipingendo per l’appunto “a macchie” dense e colorate la vita quotidiana, con brevi pennellate che rendono molto più veritieri i soggetti. I contorni nei loro dipinti sono sfumati nel tentativo di riprodurre la realtà così come appare a un colpo d’occhio.

Attivi negli anni ’50 e ’60, i Macchiaioli – i cui principali esponenti sono Telemaco Signorini, Giovanni Fattori e Silvestro Lega – si ritrovavano al Caffè Michelangelo di Firenze per discutere e confrontarsi sulla pittura “moderna”, e mostrano in pubblico le loro opere per la prima volta all’Esposizione Nazionale del 1861, ricevendo critiche sprezzanti (“macchiaioli” è il termine dispregiativo con cui vengono definiti nel 1862 dal giornale conservatore e cattolico “Nuova Europa”).

Come tutti gli artisti che segnano un cambiamento, non vengono compresi subito, ma nel Novecento vengono rivalutatati ed oggi sono considerati i precursori dell’Impressionismo, occupando un posto sempre più importante nella storia dell’arte europea.

I principali protagonisti del movimento furono, oltre i citati Signorini, Fattori e Lega, anche Giuseppe Abbati, Cristiano Banti, Odoardo Borrani, Vito d’Ancona, Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi e vari altri.

Attraverso un corpus di oltre 80 opere altamente significative del movimento, la mostra I Macchiaioli, che si svolgerà nella splendida cornice del Museo Revoltella di Trieste dal 19 novembre 2022 al 16 aprile 2023, racconta l’intera esperienza artistica dei Macchiaioli, a partire dal 1855.
Prodotta da Arthemisia e curata da Tiziano Panconi, la mostra è un’importante occasione per riscoprire i capolavori dell’arte dell’Ottocento italiano, fra dipinti celebri e opere mai esposte prima, provenienti dalle più prestigiose collezioni private italiane ed europee.

Opere dai contenuti innovativi per l’epoca che vertono sulla potenza espressiva della luce, che rappresentano la punta di diamante di ricchissime raccolte di grandi mecenati di quel tempo, personaggi di straordinario interesse, accomunati dalla passione per la pittura, imprenditori e uomini d’affari innamorati della bellezza, senza i quali oggi non avremmo potuto ammirare questi capolavori.

Al Museo Revoltella, si potranno ammirare opere quali Bambino a Riomaggiore (1894-95) e Solferino (1859) di Telemaco SignoriniMamma con bambino(1866-67) di Silvestro LegaFanteria italiana e Tramonto in Maremma(1900-05) di Giovanni Fattori e Bambino al sole(1869) di Giuseppe De Nittis accanto a Signore al pianoforte (1869) di Giovanni Boldini.

In occasione della mostra, si potrà visitare con un unico biglietto d’ingresso lo stupendo Museo Revoltella, Galleria d’arte moderna di Trieste che vanta una prestigiosa collezione: a partire dal ricchissimo lascito dell’omonimo barone Pasquale Revoltella – che ne fece la sua dimora fino al 1869 – per giungere alle più recenti acquisizioni con opere di grandi artisti come Fattori, De Nittis, Sironi, Carrà, De Chirico, Fontana, Pomodoro, Hayez e molti altri importanti esponenti dell’arte moderna e contemporanea.

La mostra, promossa e organizzata dal Comune di Trieste – Assessorato alle politiche della cultura e del turismo, con il supporto di Trieste Convention and Visitors Bureau PromoTurismo FVG, è prodotta da Arthemisia ed è curata da Tiziano Panconi.
Sostenuta da Generali Valore Cultura, la mostra vede come special partnerRicola ed è consigliata da Sky Arte.
Catalogo edito da Skira.


Info e prenotazioni
www.arthemisia.it

Ufficio StampaArthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

07- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – L’eremita

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

L’eremita

Nino era un ragazzo dispettoso – così avevo sempre creduto – ma ora mi accorgevo che i suoi dispetti non erano capricci, o almeno non piú dei miei. Cominciavo a capire che quella casa non era per lui quello che era per me. Il corridoio che la traversava tutta, dalla porta d’ingresso all’uscio sull’orto – riempiendola di verde e di luce per chi vi entrava – era per lui una promessa di libertà, un richiamo all’aperto; per me il semplice sfondo di un’amarezza indurita. C’erano stanze – una stanza – sempre chiuse e se quando mia cognata per riordinare le apriva Nino vi ficcava il naso, provavo una fitta ribellione perché capivo che a lui le tendine, il comò, la toeletta, sarebbero rimasti in mente soltanto come un bello e strano scenario da fantasticarci.

Dopo la morte di mia moglie non credevo che sarei più riuscito a vivere in quella casa. Invece c’ero tornato, con Nino, nel forte del luglio, e i primi giorni Nino non smise di rimpiangere il mare da cui provenivamo. C’era stato quell’anno per la prima volta nella sua vita, e non gli aveva fatto troppo bene: come sua madre negli ultimi tempi già con gli occhi cerchiati s’incaponiva a mangiare certa frutta che le era piaciuta da ragazza, anche Nino aveva disperatamente tentato di nascondermi le nausee, gli sfinimenti che l’aria marina gli causava. Aveva dodici anni e non gli era parso vero di giocare tutto il giorno con l’acqua e coi coetanei. Quando gli dichiarai che saremmo inesorabilmente partiti, mi disse: — Vedrai che a casa starò ancora peggio.

Adesso s’andava rassegnando e rimettendo, anche grazie al permesso che gli davo di bagnarsi nel fiume. Ma gli vietavo d’andarci solo; lo accompagnavo io stesso, e Nino era abbastanza ragionevole da non cercare d’ingannarmi e farci scappate, anche perché sapeva che in questo caso ci avrebbe rimesso sui bagni futuri. Del resto lui che al mare si era fatto tanti compagni, in paese aveva l’aria di non intendersi né coi contadinotti, né coi pochi ragazzi della sua condizione che stavano sulla nostra strada. Faceva crocchio con loro, magari giocava, ma in casa non ne portava mai. Credo che fin dai primi giorni se li fosse messi contro ostentando con troppo calore i suoi ricordi marini. La mattina la passava scatenato per i prati dietro la casa, o aggirandosi sul mercato rumoroso fra le donne e i villani, avido specialmente d’incontri con venditori e ciarlatani che venissero da lontano, dai paesi dietro la collina, oltre le terrazze del fiume: gente che parlava in modi vivaci e vestita con larghe fasce rosse sui fianchi e qualche volta si vantava di essere stata in terre esotiche. Ricordo ancora la gioia con cui fece la conoscenza di Colino il pescivendolo, che teneva anche un barile di acciughe e gli raccontò che tutti gli anni andava in Spagna per rinnovarlo. Ne parlava a tavola con agitazione. Mia cognata – una buona donna che non era mai uscita da quella piazzetta – lo canzonò e Nino la guardò con odio. A metà pomeriggio prendevamo i prati, io e Nino – lui mi correva avanti – per andarci a bagnare. Il fiume in quel punto era larghissimo, sproporzionato al paese che vi digradava coi suoi orti, ma non molto profondo. Lo attraversavamo a guado e poi, spogliatici fra i salici, si prendeva il sole sul grande greto, ci si tuffava in un laghetto presso l’altra riva, e a volte per curiosità ci s’inoltrava nella macchia che correva indisturbata fino al piede della collina. Nino era molto orgoglioso della sua pelle abbronzata.

Sentii parlare dell’eremita la prima volta a tavola. A una parola di Nino mia cognata aveva rimbeccato: — È uno sporcaccione e non basterebbero tutte quelle donne a lavarlo —. Nino diceva che quella mattina l’eremita era comparso sul mercato a vendere pelli di conigli.

— E chi è? — chiesi.

Pare fosse un giovanotto che, stufo di lavorare, s’era stabilito a mezza costa della collina sul fiume, vi aveva scavato una grotta, teneva la capra, e si lasciava visitare da gente devota. — Ma il parroco in pulpito ha già avvertito le donne, — interloquì mia cognata. Nino, senza badarle, disse che aveva la barba bionda, una giacca di pelle e i sandali. — È un eretico, — disse mia cognata. Dichiarai ridendo che probabilmente era soltanto un fannullone. E allora Nino con foga si mise a spiegare che prima di fare l’eremita quello era stato marinaio e aveva girato il mondo, era stato ricco e aveva dato via i soldi. Queste cose le sapevano tutti in paese. Per esempio, Colino.

— Tu smettila, – gridò a mia cognata che rideva. – Sei una bigotta qualunque.

Così quel pomeriggio non andammo a bagnarci, e Nino che in castigo non piangeva mai scomparve per l’usciolo dell’orto. Verso sera uscii sulla strada a cercarlo, e ne chiesi ai muratori che lavoravano in fondo al paese alla chiesa nuova, ritrovo di tutti i ragazzi. Non l’avevano visto. Quando rientrai per la cena, andò mia cognata a prenderlo nell’orto, dov’era stato tutte quelle ore a passeggiare tra i fagioli e la griglia. Dovemmo metterci a ridere per rasserenarlo, e non toccargli più il suo eremita. Diverse volte nell’anno si era già comportato così, che era il modo di fare di sua madre – a uno screzio, a un rabbuffo anche innocente si chiudeva in sé stesso e impallidiva, stringeva i pugni, fuggiva a nascondersi. Si sarebbe detto che, morta lei, volesse prenderne il posto.

Le somigliava anche in un certo ardore rattenuto, che a volte lo faceva tremare e pareva consumarlo in fondo agli occhi. Io non sapevo che dirmi riconoscendo ora nei suoi gesti e nelle sue parole lei rediviva. Col dolore sempre presente, sempre incolmabile, della sua perdita, rifermentava in me l’antico rancore, l’astio inconfessabile che è il rovescio di ogni attaccamento troppo forte. Né mi sorprese affatto quando quella sera, portandolo noi a letto, Nino volle che la zia uscisse, la cacciò quasi, e poi mi disse supplichevole: — Papà, mandala via da questa casa. Mandala via perché la uccido —. Sua madre avrebbe detto lo stesso.

Per calmarlo dovetti promettergli di portarlo a visitare l’eremita. Ci andammo dopo un bagno più rapido uno di quei giorni, e ricordo che prendendo quegli erti sentieri mi lasciavo guidare da Nino che mi scappava innanzi come chi conosce la strada. — Sei già venuto quassù? — gli dissi. — Me l’ha spiegato il massaro —. La macchia di rovi e di felci continuava per un tratto di costa e ci fece sudare, esposta al sole e impervia com’era. Arrivammo sullo spiazzo trafelati. Nino vi giunse prima di me e si voltò a chiamarmi.

— Questo diavolo vive in mezzo alle vipere, — gli dissi raggiungendolo.

Un sentierino di lastre di tufo accostate portava alla bocca nera della caverna, che una siepe di spini rugginosi ostruiva. Sull’orlo della balza che dava nel vuoto facevano da ringhiera certe rampicanti attorcigliate a un traliccio di canne.

Parlavamo forte, ma nessuno si fece vivo. Mi avvicinai alla caverna per togliere Nino dalla brezza. — Te l’ho detto che a quest’ora va nei boschi con la capra, — disse lui, correndomi innanzi a far capolino sopra la siepe.

— Non entrare. È casa d’altri.

— C’è dell’acqua, – disse Nino. – Ho sete.

Ero stupito della sua audacia che non conoscevo, e mi sporgevo nella grotta con qualche esitazione, ma Nino scappò dentro scavalcando gli spini. Quando entrai, già beveva al ramaiolo.

Dal fondo della caverna veniva un tanfo di stalla. Il suolo era asciutto e sabbioso. Rivolgendosi all’entrata, non si vedevano che le rampicanti azzurrine nel vuoto.

— Usciamo, – dissi. – Siamo sudati.

Nino volle che accendessi un cerino per mostrarmi la volta. — Non bere più. Non sai mica che acqua sia.

— Oh è buona, — mi disse ansante.

Ottenni che si muovesse soltanto lasciando un mezzo sigaro nella tasca di un panciotto appeso al muro. Dirò la verità. Provavo una certa invidia sentimentale per quel poco di buono che aveva escogitato un modo cosí comodo e grandioso di spassarsela e vivere a simile altezza sopra tutte le seccature del paese e del mondo. Durante la discesa tra le felci guardavo Nino che, imbronciato, mi camminava innanzi senz’esitare mai sul sentiero da prendere. Era evidente che per quella costa c’era già salito altre volte. Gli tenni un discorso saltuario, interrotto dai fossati piovani, sul suo modo d’impiegare le giornate. Non era il caso di rimproverarlo. Ma gli chiesi di che cosa intendeva occuparsi, ora che s’avvicinava ai tredici anni e non era più un bambino. Questo discorso lo facevamo spesso, di ritorno dal fiume, e si finiva sempre in confidenze reciproche sul mondo e sulla nostra vita. Io gli parlavo di quand’ero ragazzo, lui m’interrompeva coi suoi progetti. Quella sera fu taciturno più del solito, tanto che m’impensierì.

Seguirono giorni immensi e bruciati – era mezz’agosto – tanto afosi anche tra quelle ventilate colline, che la campagna ne soffriva e dovetti fare scappate più assidue su certe terre che possedevo a mezz’ora dal paese. Nino veniva con me volentieri e conosceva tutti i miei contadini. Erano terre dov’era nata e cresciuta mia moglie, e dicevamo ancora «andare dalla Mamma», andar lassù. Con noi certi pomeriggi veniva la zia, contenta che così non andassimo al fiume. Sapevo bene che per contentarla avrei dovuto troncare del tutto i nostri bagni. Per non stare in ansia su Nino, quella buona donna era giunta a persuadersi che anche per me c’era pericolo a pigliare tanto sole.

Una mattina di mercato Nino uscì sperando d’incontrare l’eremita. All’una non era ancora tornato, e già tremavo pensando a quella chiesa in costruzione da cui non riuscivo a staccarlo. La zia brontolava in cucina. Quando apparve, trafelato e sudato, fu lei che lo interrogò. La zia sapeva dov’era andato. L’avevano veduto scendere al fiume con l’eremita. La zia gli tolse le scarpe. La zia gli trovò la sabbia tra le dita dei piedi.

Quello che Nino non voleva ammettere era di aver fatto senza mutandine il bagno in compagnia. Ma, se da solo, era peggio: aveva corso il rischio di annegare. Finalmente ammise che l’eremita l’aveva tenuto d’occhio dalla riva.

Lo castigai senza convinzione, parendomi la nostra una mera vendetta per l’ansia sofferta. Nino aveva un bel ripetere: — Sono forse annegato? —: la zia ce l’aveva con l’eremita vagabondo e peccatore.

Quel pomeriggio presi Nino in disparte e gli parlai seriamente. Gli dissi che capivo il suo dolore, che ero stato anch’io ragazzo, che non era questione delle mutandine, ma che bisogno aveva di scappare di nascosto e mettersi nei pericoli col primo venuto, quando sapeva che la sera stessa ce l’avrei portato io?

— La mattina è più bello, — disse Nino.

Allora lo misi in guardia contro l’eremita, gli dissi che non sapevamo chi fosse, ma che un gran che di buono non poteva essere se, così giovane e robusto, invece di lavorare fuggiva la gente e viveva come le bestie, si faceva mantenere d’elemosina e nemmeno la caverna dove stava era sua. Gli chiesi se era andato altre volte da lui.

Nino non mi rispondeva e fissava indignato la parete. La cena ci andò a tutti per traverso, perché Nino mi disse freddamente che non aveva fame. Si ritirò senza farselo ordinare e quando passai dalla sua stanza lo trovai muto, con gli occhi spalancati, come avesse la febbre. Gli toccai la fronte, che mi parve scottante. Gli dissi di non ammalarsi se voleva venire l’indomani a fare il bagno con me.

L’indomani Nino era sparito. Il letto ancor tiepido diceva ch’era uscito non prima dell’alba. Come per accompagnare il colpo, il tempo, torrido fino alla sera avanti, s’era guastato nella notte, e la luce fredda rompeva fra lampi e umide ventate. Sapevo che Nino aveva un affascinato terrore della folgore.

Lo cercammo per tutta la casa. Ne chiedemmo ai vicini; corsi nei campi a cercarlo dai nostri contadini dove qualche volta si rifugiava per nascondere le sue umiliazioni; mossi acerbi e ingiusti rimproveri alla zia, che mi guardava costernata. Ogni colpo di tuono mi rimescolava. A mezza mattina riprese a diluviare. Anche il fiume si sarebbe gonfiato, e forse Nino non aveva un tetto. Alla prima schiarita corsi dai carabinieri.

Era mezzogiorno e rientravo spossato sotto l’acqua, quando sbucò sulla piazza un gigante irsuto e biondo, avvolto in una stinta mantella militare. Quando fu sulla soglia, aprì la mantella ed ecco Nino, testa e gambe penzoloni come un capretto, che si rimise in piedi vergognoso.

— Questo ragazzo va sfangato, — disse con una voce allegra e rauca. Gli colavano stille dalla barba bionda, e il mantello esalava il tanfo dei cani bagnati. Nino lo fissava incantato, benché gli vedessi sulle gote tracce di lacrime recenti.

— Se col bel tempo volete venire a respirare l’aria buona, – disse il gigante serio serio, – non dico di no, ma ognuno ha la sua casa, anche le bestie.

Mi salutò con un cenno del capo, e se ne andò coi piedi enormi di fango.

Nino lo mettemmo a letto temendo la febbre, ma verso sera senz’averci parlato prese un sonno tranquillo. L’indomani si alzò cupo e assorto, e non volle bere il suo latte. Mi guardò di sfuggita quando la zia cominciò le domande, e non le rispose. Io colsi il momento e dissi a mia cognata che volevo salire dall’eremita per ringraziarlo.

Nino mi seguì nella mia stanza e balbettò che non ci andassi. L’eremita non voleva nessuno nella caverna. — Allora tu ci sei andato? — C’era entrato per ripararsi dalla pioggia. — Alle quattro del mattino? — Non andarci, non vuole nessuno, — ripeté Nino.

Gli dissi allora: — Sei tu che volevi restarci, sciocco. Sei tu che volevi scappare di casa. Chi vuoi che ti prenda. Non sei mica suo figlio. Lui ha dimostrato di avere la testa sul collo.

— È un vagabondo, papà.

— È un brav’uomo. Che cosa ti abbiamo fatto noi di male?

Tremavo nel mio cuore piú di lui. Non mi rispose. Ma se in quei giorni non tentò altre fughe, non fu certo per farmi piacere.

Agosto volgeva alla fine, e l’imminenza dei primi raccolti cominciò a scuotere la calma delle mattinate. Cigolavano carri; si sentiva parlare di feste e di balli nei paesi vicini. Un giorno che passavo sotto i ponti della chiesa (Nino era nei campi di meliga) sentii chiamarmi come per scherzo da una voce chiara. Da un davanzale apparve la faccia bionda dell’eremita. Risposi stupefatto.

— Ho trovato una casa ma non il tetto, — mi disse ridendo e tergendosi la fronte. Facce di muratori facevano capolino.

— Non state più lassù?

— Nei boschi? No. La guardia campestre non vuole. Solamente le bestie hanno il libero transito.

— Ma voi sapete un mestiere.

L’eremita fece un gesto come a dire che ne sapeva cento. Era curiosa la sua barbetta spruzzata di calce.

— Se vi occorre qualcosa, venite a trovarmi.

Mi ascoltò con gli occhi socchiusi e fece un cenno d’intesa. Scomparve nella finestra.

A Nino dissi ogni cosa. Glielo dissi per un senso di lealtà, di esultanza, e anche perché l’avrebbe saputo egualmente. Gli dissi la sera stessa: — L’eremita non fa più l’eremita, è diventato muratore —. Nino ascoltò impassibile e l’indomani traversò la piazza in quella direzione.

L’eremita ricoverava sé e la capra nello scantinato di un ciabattino, sito tanto umido che vi cresceva il capelvenere. La notte – mi disse Nino ridendo – era più sano non dormirci e passare il tempo all’osteria e sui pagliai. Capii che Nino voleva chiedermi, e non osava, ospitalità per l’eremita.

Colsi l’occasione e gliela proposi io stesso. Ma non potevo prendermelo in casa; gli feci far posto dai contadini sotto un portico. L’eremita lasciò il lavoro per venire a ringraziarmi e io gli dissi di tenermi d’occhio Nino su quei ponti. L’altra speranza era che Nino, non più impedito di vederlo, s’accorgesse ch’era un villano come gli altri e se ne staccasse.

Ma Pietro non era un villano come gli altri. Era stato perfino in qualche porto di mare e masticava nel suo dialetto parole esotiche che rapivano Nino. Ormai che all’odore del troglodita aveva sostituito quello della calce, capivo che il suo odore vero era di salute, d’aria aperta e di sagacia animale. Mi sentivo più vecchio con lui che con mio figlio.

In quei giorni anche il fiume perse ogni interesse per Nino. O meglio, il fiume in mia compagnia. Mentre se Pietro che non ne aveva voglia lo avesse accompagnato, sarebbe stata per Nino la felicità.

Tuttavia in settembre i muratori non lavorano troppo. I raccolti, e le feste che seguono, vuotano tutti i cantieri: e chi va a tagliare il fieno, chi a staccare la meliga, chi a spalmare le botti. Se non un giorno l’altro, Pietro e Nino partivano insieme: c’era sempre qualche cascina, qualche campo, da cui giungeva sul vento eco di fisarmoniche e di canti; e una volta o due Nino tornò solo, correndo; un’altra volta tornò tardi e scontroso, e finalmente un mattino passarono lui e Pietro per chiedermi il permesso di restare fuori fino a notte. Stavolta non fu contraria nemmeno la zia, che capiva una festa sull’aia.

A una sfogliatura che poteva durare fin sotto l’alba, Nino per poterci restare insistette che l’accompagnassi. Anche Pietro mi disse d’andarci perché non c’è di peggio che aspettare chi tarda.

Fu quella notte che vidi Pietro ballare e Nino prendersi gli scapaccioni perché lo rincorreva. Era buio sull’aia e i discorsi e la musica eccitavano, ma provavo una gran pena a osservare con quanta disinvoltura Nino obbediva al suo amico e nemmeno brontolava come avrebbe fatto con me.

Verso la fine della festa Nino cascava di sonno e Pietro lo prese in spalla e ce ne venimmo via. Eravamo taciturni, come sempre succede dopo ogni festa e disordine; il fresco di settembre ci teneva svegli.

— Non ce l’avete una moglie da qualche parte, Pietro?

— No, – disse Pietro. – Mai farle ballare due volte. Fuggire la tentazione —. Rideva.

— Dico per i figlioli. Sareste un buon padre. Lo vedete come vi cercano.

— Se fossi padre non mi cercherebbero. Li farei lavorare. Quanto piú presto imparano che l’unica cosa è l’allegria e saper fare da sé, tanto meglio. Anche il vostro.

Ai piedi della collina Pietro se lo tolse di spalla, lo posò a terra e lo costrinse a camminare. Nino aperse appena gli occhi, abbandonò una mano a ciascuno di noi e venne avanti a testa bassa.

— Era per stare allegro che facevate l’eremita?

— Sono le donne che mi han detto l’Eremita. Venivano su, mica le spose, e cominciavano a segnarsi. Allora l’ho capita e mi segnavo anch’io… Si sta bene da soli.

— Mi preoccupa questo ragazzo. Sempre nei pericoli.

— Ah! verrà grande anche lui.

Quella notte del ritorno l’ho nel cuore come l’ultima dell’infanzia di Nino. I canti, la stanchezza, l’eccitazione sotto la luna me ne hanno fatto qualcosa d’irreale e di triste. Voglio quasi bene a quel Pietro; si direbbe che il bambino fui io.

E l’indomani Nino, come se lo sapesse, restò nell’orto a leggicchiare e venne a pranzo contento e ancora assonnato. Parlò dell’uva che cominciava ad annerire. Quando gli chiesi se non veniva a bagnarsi, fece una smorfia e allegò la stanchezza. La zia fu contenta e Nino scomparve fino all’ora di cena. Stanco ero anch’io, e vagamente rassegnato.

Quando il dottore mi disse che potevo averne per un mese e fece chiudere le imposte, volli che venisse Nino, e gli dissi di non maltrattare la zia e rincasare regolarmente. Non era questo che intendevo, tante cose mi turbinavano nel cervello, ma non seppi dirgli altro e avevo la febbre. Nino mi ascoltò ai piedi del letto, con l’aria sospesa di chi ha interrotto per un momento un’altra vita.

Stetti malato più di un mese. Non ricordo le giornate perché per me non esistettero giornate. Passai un periodo di delirio e d’incoscienza. Mi curava sollecita la zia, veniva il dottore, venne Pietro a informarsi. Vedevo Nino qualche volta.

Quando fui convalescente e ripresi il piacere di guardarmi attorno, nella mia debolezza m’inteneriva il pensiero d’esser come rinato. Nino venne a trovarmi. Ritornavo alle vecchie abitudini come a cose nuove. Era la fine di ottobre e anche Nino viveva una vita insolita, perché avremmo dovuto essere già tutti in città e lui a scuola. Bisognava far presto, per non danneggiare i suoi studi.

Nino era servizievole e affettuoso piú che in passato, e mi parve anche cresciuto e più sicuro di sé. Ma quando rientrava togliendosi l’impermeabile – la vendemmia era finita da tempo – girava per la casa e rispondeva e si presentava come chi non ha conti da rendere a nessuno.

Che la zia dicesse guardandolo tollerante: — Non è stato cattivo in questo mese, — mi parve assurdo e quasi comico. Anche Nino sorrideva. Alla cascina, dove feci le prime passeggiate, seppi che Pietro li aveva aiutati nella vendemmia e nei lavori, e ora viveva senza far nulla, sugli avanzi delle giornate da muratore. Siccome saremmo partiti per la città fra poco, lo andai a cercare e gli proposi di tenerlo in cascina come bracciante, non più sotto il portico ma nella stalla. Pietro mi trovò buona cera, e mi rispose che aveva intenzione di vendere la capra e muoversi un po’. Il mondo è grande. Allora gli regalai cento lire, con un senso di sollievo.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.