15- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il tempo

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Il tempo

Fin da giovane ebbi questo sospetto, che chi non dormisse mai non invecchierebbe. O forse il tempo affiorava nei ricordi, nelle pause in cui mi fermavo sorpreso di me stesso, quando mi pareva di svegliarmi come ci si sveglia al mattino, e sapevo che un altro giorno era passato, un’altra vita, un altro incontro. La presenza degli altri era un’occasione che avevo di vivere e sfuggire al tempo, e la cercavo con un’avidità che non cessava nemmeno a notte alta. Nella notte, nel buio, questa presenza mi riassaliva e costringeva a parlare come se avessi un interlocutore, e mi era facile intrattenermi con me stesso, perché giornata e parole interrotte mi lasciavano la calma certezza che il mio colloquio con gli altri sarebbe ripreso l’indomani e intanto me ne nutrivo in solitudine. Davvero, in quegli anni il tempo affiorava soltanto se dormivo o ripensavo al passato. Le due cose ne facevano una sola, perché ne uscivo – mi svegliavo – riavvistando la luce e il presente con uno stesso brivido incredulo. Il mio piacere di tornare al mondo era nuovo ogni volta.

Non potevo credere che i vecchi, i quali dormono poco, trascorrano le ore di veglia, e specialmente quelle sull’alba, riandando il passato. Essere sveglio vuol dire pensare e vivere, aspettare la luce e smaniare. Fossero pur vecchi e avvezzi al tempo, ma i loro sensi induriti e il sangue spesso dovevano tanto più aver bisogno dell’urto e del rimescolío della vita. Questa vita era fatta di visi e di cose, di schianti, di voci, era un incessante incontro, un movimento che non aveva passato. Non capivo come ci si potesse docilmente fermare, sia pure per sazietà, e abbandonare come loro ai ricordi. Voleva dire sentire il tempo, e la morte.

Quanto a me, anche i ricordi più lontani mi coglievano come scoperte. Erano altrettanti risvegli che mi rimettevano nel presente. Il fatto più singolare – tanto che spesso lo provocavo ad arte – era di accorgermi che un gesto, un colore, una voce, li avevo già visti o sentiti chi sa quando, e che perciò risorgevano dalla mia stessa coscienza piú che dalle cose intorno. A questo sospetto, a questa certezza di sentirmi radicato nel mondo, provavo un entusiasmo tranquillo che, pur essendo per natura limitato ai miei occhi e al mio corpo, poteva nella sua fugacità scuotermi come un incontro umano. Avevano veramente, questi risvegli sempre inattesi, qualcosa della presenza di un altro, la presenza di un amico o quella, ancor muta, di chi lo sarà presto e tacendo ci cammina accanto e ci guarda. Cose non dette trasparivano in fondo all’istante come un oggetto noto in fondo all’acqua di una vasca, e sarebbe bastato quel lieve coraggio di tuffare la mano, per toccare la lontana inafferrabile parvenza. Ciò accadeva specialmente al mutare delle stagioni, quando l’aria è tutta corsa da brividi di passato che, freschi e inattesi, ci riportano antiche certezze. Quest’antico, questi brividi, mi davano come un incremento di vita, come un senso che sotto il labile istante s’accumulasse un tesoro già mio, che dovevo soltanto riconoscere.

Per questo, nulla mi era piú caro che, in certe notti d’aprile o d’ottobre dopo tanto parlare e ascoltare, rientrando con un amico coetaneo indugiare il commiato. Tacevamo, o parlottavamo di cose indifferenti; nell’aria passavano barlumi, echi, voci lontane. Tra gli spigoli dei tetti occhieggiavano le stelle, o, talvolta, fra i rami di un albero. Come a uno strano gioco sorgeva la luna: disegnando quinte d’ombra tra le case, o sulla collina di là dal fiume frammentandosi contro le piante e straripando in cielo. L’amico taceva e si soffermava; io sentivo trapassarmi sui sensi, sulla pelle, l’alito di altre notti come questa.

Una sera sorgeva la luna, sul ciglio della collina. Gli alberelli lontani erano neri; la luna, enorme, matura. Ci fermammo. Io dissi: — Tutti gli anni, a settembre, la luna è la stessa, eppure mai che me ne ricordi. Tu lo sapevi ch’era gialla?

L’amico guardò la luna, e ci pensava. Mi pareva davvero di non averla mai vista cosí, ma insieme di averne in bocca il sapore, di salutare in lei qualcosa di antico, d’infantile, tanto che dissi: — È una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna.

— Non so, – disse l’amico. – Per me è sempre la stessa.

Ora il brivido mi aveva lasciato e la luna col suo sapore di vendemmia ci guardava entrambi come una creatura che conoscevo e ritrovavo. E, come una creatura, il suo passato non contava per me ch’ero giovane e avrei potuto andarle incontro e parlarle, e salire fin lassú fra gli alberelli, nei dolci vapori estivi ch’erano sempre stati e non invecchiano mai. L’amico taceva, e io pensavo già al piacere che avrei provato l’indomani portando in me sotto il sole la certezza che anche la notte è viva.

Cosí quei giorni mi passavano, monotoni e freschi, nella loro novità. Non sapevo che la loro tumultuosa baldanza l’avrei vista un giorno come un fermo ricordo.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.