Settore Musei Civici Bologna: Sekhmet, la Potente. Una leonessa in città

Con l’avvicinarsi di Ferragosto, vi ricordiamo le sedi del Settore Musei Civici Bologna che lunedì 15 agosto 2022 saranno regolarmente aperte per consentire la visita in occasione della giornata festiva:  
– Museo Civico Archeologico (via dell’Archiginnasio 2) | h 10-19
– Museo Civico Medievale (via Manzoni 4) | h 10-19
– Collezioni Comunali d’Arte (Palazzo d’Accursio, Piazza Maggiore 6) | h 10-18.30
– Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini (Strada Maggiore 44) | h 10-18.30
– MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna (via Don Minzoni 14) | h 10-19
– Museo Morandi (via Don Minzoni 14) | h 10-19
– Museo internazionale e biblioteca della musica (Strada Maggiore 34) h 10-19

Per maggiori informazioni e per le modalità di accesso raccomandate si invita a consultare il sito www.museibologna.it.

Museo Civico Archeologico | via dell’Archiginnasio 2

Sekhmet, la Potente. Una leonessa in città

A cura di Daniela Picchi

Sekhmet, la Potente. Una leonessa in città
Immagine grafica

Fino al 31 dicembre 2023 un’ospite di eccezionale rilievo ha trovato dimora presso il monumentale atrio di Palazzo Galvani grazie alla generosa collaborazione del Museo Egizio di Torino ha concesso in prestito uno dei suoi capolavori più rappresentativi: una statua colossale di Sekhmet, materializzazione terrestre della temibile divinità egizia con testa di leonessa e corpo di donna, di cui il museo torinese conserva una delle più grandi collezioni al di fuori dell’Egitto, composta da 21 esemplari.
Divinità dalla natura ambivalente, al contempo di potenza devastatrice e dispensatrice di prosperità, Sekhmet, ovvero “la Potente”, venne raffigurata in varie centinaia di statue per volere di Amenhotep III, uno dei faraoni più noti della XVIII dinastia (1388-1351 a.C.), allo scopo di adornare il recinto del suo “Tempio dei Milioni di Anni” a Tebe Ovest.
Alcuni studiosi ipotizzano che il gigantesco gruppo scultoreo fosse composto da due gruppi di 365 statue, una in posizione stante e una assisa per ogni giorno dell’anno, così da creare una vera e propria “litania di pietra”, con la quale il faraone voleva pacificare Sekhmet tramite un rituale quotidiano. La regolarità dei riti in suo onore servivano infatti a placarne l’ira distruttrice che la caratterizzava quale signora del caos, della guerra e delle epidemie, trasformandola in una divinità benevola e protettrice degli uomini.
Nella collezione egizia del Museo Civico Archeologico di Bologna è presente il busto di una di queste sculture che – grazie al confronto con la Sekhmet seduta in trono proveniente dal Museo Egizio di Torino – potrà così riacquistare, almeno idealmente, la propria integrità creando una proficua occasione di confronto e ricerca scientifica.
La curatela scientifica è di Daniela Picchi.


Museo Civico Archeologico | via dell’Archiginnasio 2
Sekhmet, la Potente. Una leonessa in città
A cura di Daniela Picchi
Periodo di apertura: fino al 31 dicembre 2023
Orari di apertura: lunedì, mercoledì h 9-14; giovedì e venerdì h 15-19; sabato, domenica, festivi h 10-19; chiuso martedì non festivi (la biglietteria chiude 1 ora prima)
Ingresso con biglietto museo: intero € 6 | ridotto € 3 | ridotto speciale € 2 giovani 18-25 anni | gratuito possessori Card Cultura
Telefono: 051 2757211
Sito web: www.museibologna.it/archeologico

Elisa Maria Cerra – Silvia Tonelli
Ufficio Stampa / Press Office Settore Musei Civici Bologna
Via Don Minzoni 14 | 40121 Bologna
Tel. +39 051 6496653 / 6496620
Ufficio Stampa Bologna Musei
elisamaria.cerra@comune.bologna.it
silvia.tonelli@comune.bologna.it
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10- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il mare

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: Il mare

Il mare

Alle volte penso che se avessi avuto il coraggio di salire fino in cima alla collina, non sarei poi scappato di casa. La notte di San Giovanni doveva esser passata da poco, perché già diverse volte ci eravamo messi per la strada del vallone e salivamo fino ai noccioli a cercare il letto dei falò. Sapevamo che in cima ce n’erano di larghi come un prato. Ma un giorno Gosto si vantò che da ragazzo suo nonno era scappato di casa e andando per il vallone era salito così in alto che di lassù vedeva il mare.

Noi il vallone ci portava dentro una vigna quasi piana, chiusa intorno dai càrpini. Che cosa facessimo là fino a sera, non so. Guardavamo le punte degli alberi. Io dicevo a Gosto che al mare non accendono falò, perché il mare è pianura, e disteso sull’erba mi annoiavo a guardare le nuvole. C’erano anche dei grilli in quella vigna, e avrei voluto essere uno di loro per restarci la notte e trovarmici al mattino con la prima luce quando il sole è ancora freddo. Il sole da noi spunta dietro le colline basse, dove il nonno di Gosto aveva visto da ragazzo il mare.

Che il mare fosse da quella parte, l’avevo detto io a Gosto. I giorni di temporale, era là che si apriva lo slargo e il sole tornava a battere come sopra un gran campo di fiori, mentre da noi sgocciolava ancora. Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua. Lo stradone che scende verso quelle colline non è una strada di campagna; porta fuori della valle, in una pianura che scende sempre, che ha degli alberi che sembrano giardini. Già alla svolta, dopo lo sbocco nel vallone, dopo il ponte di ferro, c’è la casetta della Piana che ha un balcone di gerani. Laggiù non ci sono più vigne né boschi né stalle; di carretti tirati dai buoi non ne salgono di là; salgono invece i biroccini a tutta corsa e comitive coi parasoli.

Tutta la notte di San Giovanni, Gosto era stato in giro per il paese e io non avevo potuto andarci, perché in casa nostra a godere i fuochi si sta sul terrazzo. Gosto mi aspettava sotto, nella strada, e ci mostrammo gridando i falò più lontani e i più grossi. Ma poi passò la musica che andava in paese – c’erano tutti, anche Candido – e io mi attaccavo alle sbarre e li chiamavo; Candido si fermò a salutare le mie sorelle e scherzare; poi si misero in fila suonando, e Gosto con loro, e se ne andarono in piazza e per tutta la notte si sentì il clarinetto di Candido e tromboni e chitarre e cantare a gran voce, specialmente le donne. Noi andammo a dormire che gli ultimi falò si spegnevano sulle colline nere, e nel letto piangevo dalla rabbia, ma le voci sperse degli ubriachi e dei cani mi fecero pensare alla mia vigna del vallone e ai biroccini e alle colline che l’indomani avrei rivisto a volontà.

Invece l’indomani non andammo oltre i noccioli, e a Gosto sua nonna mi portava come esempio. Gosto rideva. In casa mia mi dicevano di prendere esempio da lui che, solo al mondo con la nonna, rappresentava tutta quanta la famiglia. Non servì raccontare adesso le cose che avevamo fatto in collegio a Alba. Non mi credevano. Dicevano e dicono che Gosto è più uomo di me. In casa mia non sanno i discorsi che fa.

Intanto, l’idea del mare venne a me, non a lui. Gosto non sa che cosa sia mettersi davanti a una casa, e guardarla fin che non sembra più una casa. Gosto è tanto libero di sé che fa tutto quel che gli dicono, ma lui solo non ci arriva. Ancora adesso non vuol credere quando gli spiego che lo stradone non ha fine, come non han fine le strade ferrate, e di paese in paese gira fin che c’è terra senza mai interrompersi. Dice che, se fosse così, la gente non smetterebbe di camminare e tutti girerebbero il mondo. E sul nostro stradone sarebbe un viavai di stranieri d’ogni paese. — Tutte le strade finiscono al mare, – gli dicevo, – dove ci sono i porti. Di là ci s’imbarca e si va nelle isole, dove gli stradoni riprendono.

Non era convinto che per andare verso il mare bastasse incamminarsi. — Bisogna sapere la strada, — diceva. — Ma la strada si sa. Prendi verso la Piana. — Sarà lontano? — Se dalle Ca’ Rosse tuo nonno l’ha visto. — Quanti anni sono che l’ha visto?

Un giorno andammo nella bottega del carradore che ci prendeva in giro perché non sappiamo andare scalzi. Io mi fermai sull’uscio e non vidi quasi niente nel buio dei fornelli, ma sentivo picchiare sul ferro e Pietro mi chiese se andavo anch’io a scuola con Gosto. E ci disse che alla nostra età lui aveva già attraversato le montagne per andare a lavorare e che cosa sapevamo fare noi? Allora mi accorsi che non sapevamo fare niente. In quel momento Pietro aveva smesso di picchiare, e Gosto diceva: — Siamo nati con le scarpe, noialtri. — Così è, – disse Pietro, senz’arrabbiarsi. – Siete nati con le scarpe.

Ci pensai molto alle parole di Pietro, e il giorno dopo passammo dalla bottega per ritornare sul discorso. Pietro non si era mosso dal fornello e ci disse di non parargli la luce.

Quel giorno ci raccontò che da ragazzo aveva fatto il magnano e viaggiavano lui e un padrone cercando lavoro nei cortili e portandosi dietro i fornelli e il carbone. Per passare le montagne avevano dovuto mettere le scarpe di corda. Poi avevano lavorato nelle miniere di carbone, così lontano che per tornare c’era voluto il treno. Raccontando si fece sulla porta e guardò in piazza. — E il mare, Pietro, non l’hai veduto? — gli disse Gosto. Allora ci disse che era stato a Marsiglia e che là il mare l’aveva davanti alla porta. Guardò la piazza dove cadeva l’ombra della casa e disse: — Come fosse qui in piazza. È movimento giorno e notte. Più che il mercato grosso —. Sputò nel sole e tornò dentro.

Gli chiedemmo com’è fatta la riva del mare, ma non sapeva o non capí quello che noi volevamo. Disse che, sì, l’acqua è verde e sempre mossa e che fa continuamente le schiume, ma dentro non c’era mai stato e non sapeva come sia la terra veduta dal largo. Ci raccontò che i bastimenti hanno un colore tra rosso e nero e che nel porto c’è un odore come nelle stazioni. Disse che carica e scarica più carbone un porto in un giorno che non carri d’uva tutte le nostre colline. E i marinai, anche stranieri, sono vestiti come noi e non hanno altra idea che tornarsene a casa. — Costa fatica il mare, – diceva. – Bisogna nascerci scalzi.

Venne il mese d’agosto, tra i primi e i secondi raccolti, quando in campagna non si fa più niente e la giornata dura ancora metà della notte. Succedeva che andassi a letto quando fuori era sera e sentivo nello stradone sotto il terrazzo ridere gli altri e la gente passare. Per qualunque sciocchezza mi mandavano a letto. Se Gosto veniva a cercarmi, gli dicevano ch’era tardi e che dormivo da un pezzo.

Di là dal Belbo andavamo ogni tanto, ma io mi annoiavo più che a casa dove almeno leggevo i giornali. Ne avevo un armadio pieno. Un pomeriggio verso sera leggevo sul terrazzo e Gosto mi chiamò dalla strada. Gridava e gridai anch’io, ma quando mi disse di ascoltare laggiù, sentii voci lontane, come quando a settembre si discorre nelle vigne. Allora mi accorsi che la musica, che nel pomeriggio aveva suonato sul vento, era cessata. Al Martino facevano nozze e la mattina erano tornati in vettura dal paese: Candido, i tromboni e gli ottavini suonavano già dalla sera avanti. — C’è il fuoco! — urlò Gosto. Le mie sorelle uscirono sul terrazzo e guardammo oltre le piante. C’era tanto sole che non si vedeva netto, sulle piante pareva che l’aria tremolasse. Qualcuno gridò che si sentivano le donne piangere. Dalla casa intorno erano usciti tutti in strada, e parlavano, si arrampicavano sulle pile, le vecchie chiamavano. Gosto ci gridò ch’era passato un garzone marcio di sudore, che correva in paese. Finalmente vedemmo il fumo, c’era dietro la collina che tremolava come sott’acqua.

Quando dal terrazzo mi gridarono di non muovermi, io ero già in strada con Gosto e non potevano più fermarci. Risposi che andavano tutti, che là c’era Candido, e lasciassero i giornali sul terrazzo. Gosto correva già scalpitando.

Non l’avevo mai visto rosso e agitato così. Quando dietro la meliga comparve la colonna di fumo e si sentì il crepitío delle fiamme, si mise a muggire facendo il toro. — Il falò! Il falò! — gridammo insieme. Ma poi stetti zitto, anche per riguardo ai padroni; lui invece si ficcò in quel cortile urlando e menando calci alla roba e, se non lo tenevano, entrava anche in casa.

Il cortile era pieno di roba buttata dalle finestre e dagli usci, e in mezzo scorrazzavano i conigli. Molte donne portavano fuori altra roba; una, per via di un materasso grosso, non poteva passare dall’uscio. Nessuno parlava; si sentiva soltanto il muggito della fiamma dai fienili, e una voce ogni tanto, che dava un comando.

Fortuna che il vento portava il fumo e le falavesche sulla vigna. Faceva un caldo rovente, e i tre o quattro che tiravano su i secchi d’acqua dal pozzo, prima di darli ai ragazzi che correvano, ci buttavano dentro la faccia e s’inondavano. Gosto adesso girava fra i tavoli ancora imbanditi sotto i noci e mi faceva segno di venire anch’io a servirmi. Io conoscevo quasi tutti in quel cortile, e riconobbi la sposa: vestita di rosso, era seduta su una seggiola, al sole, con le scarpe e le calze fini, e guardava il cortile con aria di superbia, come se lei non c’entrasse. Pareva che piangesse e che nessuno le dovesse parlare. Parlavano sotto i noci chiamandosi, e mi videro e dissero chi eravamo, io e Gosto; sembrava la domenica quando passano sotto il terrazzo per andare in paese. Qualcuno, seduto, mangiava. Da dietro la casa uscivano gli uomini scamiciati e sudati – lo sposo che bestemmiava – e si versavano un bicchiere, dicevano qualcosa, si battevano la mano sul collo per schiacciare le mosche. Prima di sera andai anch’io a vedere le fiamme. La casa, dietro, era sventrata, la stalla e i fienili fumavano aperti e mandavano un calore insopportabile. Qui trovai Candido che col tridente sparpagliava del fieno nero; non disse nulla, mi strizzò l’occhio senza ridere e fece segno di andarmene.

Nel cortile i discorsi continuavano. Adesso, donne e uomini, i padroni, la sposa, erano tutti insieme sotto i noci, e chi esclamava, chi taceva, chi dava un calcio a una zappa. Con Gosto girammo il cortile, guardando i letti, gli armadi, le robe rotte e rovesciate. Ormai avevo capito che le facce brutte, lo spavento, l’affanno di quella gente, andavano più in là dell’incendio, erano accuse, dicerie, cattivo sangue.

— Non potevo sposarmi e guardare la stalla, — gridava lo sposo, ancora col fazzoletto di seta intorno al collo. — Se invece di ascoltare la musica… — Ma l’ha voluta vostra figlia, la musica, — diceva tra i denti una vecchia. Vidi Candido spuntare da dietro la casa, e allora si fermarono e cominciò un altro discorso, sulla paglia che restava.

Dall’inferriata della cucina si vedevano le stanze vuote, sfondate in fondo. Sui muri restavano i segni dei mobili e pendevano ancora i festoni di carta. Fuori, dei ragazzi gridavano rincorrendo i conigli. Una donna scalza che entrò in cucina di corsa, scappò dicendo che il pavimento scottava.

Che fosse tardi lo sapevo. Gosto mi disse che, prima di notte, dovevano riacchiappare le bestie che spalancandosi le stalle erano scappate. Sotto gli alberi, discutevano il modo. Si misero a squadre, escluse le donne: la sposa per quella notte doveva andare a dormire alla Piana, ma prima di traversare le ghiaie di Belbo mangiarono qualcosa, e fu una tavolata di più di venti. Intanto, Candido e gli altri acchiappavano le bestie nella campagna. A noi ragazzi proibirono di muoverci: un bue scottato faceva presto a incornarci. Nell’aria fresca li sentimmo gridare, Candido e i suoi, sopra le vigne.

Mentre Gosto frugava in cortile, io girai sotto i noci, e ascoltavo le donne che dovevano andare alla Piana. Dalla Piana passa la strada delle colline: di là dalle colline, è questione di tempo, c’è il mare. Bastava guardare in mezzo ai tronchi dei noci, tutta la valle scende laggiù. Passata la bassa del Belbo si è in altri paesi.

Giravo sotto le piante, e una delle donne, Delia della Piana, mi chiamò e mi disse se non cenavo con la sposa. Vidi Gosto, già seduto, che mangiava anche lui. Mi diedero carne, salame, frittelle. Mangiai poco, ma bevvi del vino e dissi a Gosto attraverso la tavola: — Salute.

La sposa, Clelia e altre ragazze parlarono con me e con Gosto. Mi chiesero delle mie sorelle, mi domandarono perché non erano venute a nozze anche loro. Una vecchia disse che noi del paese eravamo superbi. — Siamo venuti noi per loro, — disse Gosto a bocca piena. — Lo sanno che sei qui? — mi chiese Clelia ridendo.

Quando partimmo per la Piana era buio. Due o tre dei suonatori di Candido ci accompagnavano. Noi camminammo in mezzo a loro e alle donne; e a metà strada era notte. Quando sbucammo sullo stradone, suonò la chitarra e le ragazze cominciarono a cantare, prendendo a braccetto la sposa. Ne erano rimasti indietro della comitiva, giovanotti e ragazze, e si sentivano ridere e chiamarsi sulle ghiaie bianche, di là dai prati. Io camminavo insieme a Gosto e gli dissi: — Stanotte è la buona. — Puoi dirlo, — fece lui correndo.

Non tutti cantavano; c’erano coppie di ragazze che venivano avanti parlando; c’era qualcuno che andava e veniva da un gruppo all’altro, come i cani. Io mi tenevo vicino a Clelia, perché mi piaceva sentirla cantare.

Davanti alla cascina, la sposa tornò a piangere, perché il marito invece di venire a dormire lavorava anche di notte. Tutte, le vecchie e le giovani, esclamarono che avesse pazienza, che lo sposo acchiappava i buoi, che presto sarebbe tornato. Clelia e gli altri l’accompagnarono dentro, entrarono nel cortile; i suonatori – chitarra e ottavino – cominciarono la serenata. Dal fienile portarono la lampada.

Allora restammo sulla strada, in mezzo al buio. La casa dei gerani era alla svolta, un cento passi. Dissi a Gosto: — Se ci vedono adesso, ci mandano a casa. — Sei matto, – disse lui. – Si va? — Andammo. Con tanto che avevamo pensato a quel viaggio, partivamo di notte, all’improvviso. Gosto si lamentò poi, che era stata la cena della sposa a deciderlo. — Troveremo altri incendi e altre spose, — intanto diceva. Io sapevo che a casa era già come fossi scappato.

Faceva così scuro quella notte, che si vedevano soltanto le stelle. Prendemmo un passo come se quella strada non l’avessimo mai fatta. Gosto era ancora allegro dal vino, perché parlava dell’incendio, e rideva e ballava sulla strada. — Gente come noi, – diceva, – dovrebbe sempre andare a nozze —. Parlando non teneva il mio passo. Si fermava ogni tanto per chiamarmi. — Se il Martino bruciava stanotte vedevi che falò —. Ma quando sullo stradone si chiudevano gli alberi, anche lui camminava più svelto. Non era che avessimo paura. Non smettevamo di parlare. Ridevamo. Sotto alla casa dei gerani Gosto si mise a cantare, a gridare, come se qui conoscesse qualcuno. Lontano alle nostre spalle cantavano ancora. Gli dissi di tacere e lui diede un’ultima voce: — Al fuoco, Clelia! — Guardai nel buio respirando appena, perché soltanto adesso cominciava la strada e l’aria aveva un profumo. Gosto corse avanti.

Lo stradone con una svolta seguiva la costa, e dopo un poco non ci furono più dalla parte del salto gli alberi che ci facevano paura. Il ciglione della strada dava nel vuoto, sulla bassa piana del Belbo, che al lume delle stelle non si vedeva che nera. E anche le coste lavorate, che di giorno sono gialle, sembravano pozzi. Ci fermammo a guardare quel vuoto. Laggiù pareva che il vento attizzasse le stelle. — Quanti fuochi stanotte, – disse Gosto, – vuoi che non ci sia un incendio? — Stupido. È Cassinasco. — Ascoltiamo se si sente a gridare —. Si sentivano i grilli. Riprendemmo la strada. Ma Gosto insisteva che laggiù c’era il fuoco. — Voglio vedere un incendio di notte, — borbottò e poi gridò, e si mise a correre. Allora gli corsi dietro per la strada che saliva, e più correvo più lui gridava, fin che fummo a un’altra svolta e qui si vide di nuovo, come un salto nel vuoto, la pianura e a gran distanza un cielo nero di colline. — Non gridare, – gli dissi. – Se ci sentono —. Tendemmo l’orecchio se la serenata era finita, ma stavolta eravamo soli coi grilli. Anche Gosto smise di essere ubriaco e capì che gridare faceva spavento.

Adesso, buttato sull’erba, voleva fermarsi, e io gli dissi che dovevamo arrivare alle case, almeno ai Robini, per trovare un pagliaio. In quel momento cantò il gallo, chi sa dove. — Vedi, – gli dissi. – Viene giorno e noi siamo ancora qui —. Neanche Gosto sapeva che cantano tutta la notte. Da quel momento cominciammo a scendere, guardandoci intorno se spuntava la luce. Volevamo arrivare prima di giorno alle colline di fronte. Passammo i Robini, passammo altri borghi; sotto le stelle si vedeva appena il buio delle campagne, ma si sentivano all’odore.

Quella notte durò chi sa quanto, e non bisognava voltarci indietro. Da un pezzo eravamo discesi in pianura, e andavamo fra i giardini e le ville. Prima, sulla collina, si sentivano le voci dei galli. Adesso anche Gosto ciondolava e non mi dava più risposta. Ogni volta che in fondo alla strada si chiudevano gli alberi, io lo guardavo e mi pareva di essere solo. Sapevo che soltanto la luna ci avrebbe aiutato. Ma sarebbe venuta la luna? era già così tardi. Mi parve che i grilli non cantassero più. Sapevo che prima di giorno doveva levarsi il vento, ma tutto era zitto, le piante e la strada.

Il peggio era che, al buio, con Gosto che dormiva in piedi, mi veniva da pensare a casa. E pensavo alla notte dei falò quando tutti giravano per lo stradone e io ero già a letto. Aveva ragione Gosto, ci volevano incendi e nozze per scappare come avevamo fatto noi. Ci pensai tanto, andando al buio, e immaginandomi che a ogni svolta saremmo stati in riva al mare, che quando poi ci fermammo e scendemmo sotto un ponte per dormire al coperto, mi pareva che il mare dovesse esistere soltanto di notte. Non lo dissi a Gosto, perché a dirle queste cose non sono più niente; ma quando ci svegliammo sotto il ponte, nel sole, e fuori dell’arcata si vedeva l’acqua correre sotto le piante, m’accorsi che anche il Belbo andava al mare e che la sabbia dove avevamo dormito era una spiaggia.

Sotto quel ponte incontrammo Rocco. Gosto che si svegliò prima di me, lo trovò che si lavava gli occhi. Dopo, cercai di capire se fosse già stato vicino a noi nel buio e avesse ascoltato qualcosa che io dicevo a Gosto addormentandoci, ma non ci riuscii. Nel tempo che mettemmo a guardarci intorno, Rocco ci chiese solamente se venivamo da lontano, e Gosto gli disse che c’era bruciata la casa. Poi borbottò con me che Rocco non ci aveva mai né visti né conosciuti, e che cosa importava? bastava uscire di là sotto, ma Rocco ci venne dietro e s’arrampicava più svelto di noi.

Subito dopo il ponte c’era un viale di platani, e per questo viale ci venne incontro nel sole un biroccino tirato da un cavallo trottante che teneva la testa per sbieco, come se giocasse. Dietro i platani si vedeva a due passi la collina, una bella collina color d’uva bianca, e bassa. Io mi fermai, dissi a Gosto che lasciasse andare avanti quel Rocco; volevo ricordarmi una cosa. Per un po’ guardai in mezzo alle foglie dei platani, ascoltavo senza voltarmi il trotto del cavallo finire, e mi pareva che quell’eco, quel sole, la collina bassa, li avessi già visti, ci fossi già stato una volta. A due passi, tra i platani, mi aspettava Gosto; più in là, il vecchio Rocco si allontanava coi suoi stracci e il bastone, senza nemmeno voltarsi indietro. — Se n’è andato, — disse Gosto. In fondo ai platani c’erano le prime ville di Canelli, e noi entrammo guardandoci intorno. Non so perché, camminavamo mica sul marciapiede ma nel mezzo della strada. Così tutti capivano che venivamo da fuori. Gosto parlava sempre, non sapeva che a quell’ora è bello guardare. A me piacciono i balconi e i terrazzini sopra i vicoli, perché dei fiori come hanno a Canelli non li avevo mai visti. Guardavo da tutte le parti, guardavo la gente che andava e veniva. Sulla piazza trovammo una fontana come quella di Alba, e corremmo per berci; Gosto arrivò secondo e mi dava dei calci, ma io bevendo gridavo che lui aveva già bevuto troppo vino dalla sposa. — È per questo che ho sete, — diceva lui, e in quel momento sentii di nuovo la voce di Rocco.

Aveva aperto il suo fagotto sulla panchina, e si slegava una suola per cambiarsi la pezza. Parlava da solo e diceva che l’acqua non bisogna sprecarla. — Tanto versa, – disse Gosto. – La piazza è di tutti —. Allora Rocco non rispose e finí di legarsi la suola. Poi si alzò, si bagnò le dita alla fontana e se le asciugò nella pezza sporca. Sembrava le donne quando hanno mangiato le pesche. Tornò a sedersi, aprí il fagotto e tirò fuori pane e acciughe. — Tornate a casa, – borbottava. – Tornate. — Andiamo, – dissi a Gosto. – Noi mangiamo a Cassinasco. — Come ha fatto a capire che siamo scappati, — gridò Gosto quando fummo in fondo alla piazza. Allora gli dissi ch’era stato lui sotto il ponte a cianciargli del fuoco e della sposa. — Cosa credi? un vagabondo come quello capisce. — Dovevamo partire a settembre, – disse lui. – Senz’uva, me lo dici come facciamo a mangiare? — Basta arrivare a Cassinasco. Poi vediamo —. Ma invece tornammo da Rocco, per vedere che cosa faceva, senza staccarci dal marciapiede. In piazza il sole picchiava e Rocco non poteva restarci molto. Lo vedemmo finir di mangiare il suo pane, e poi, mentre si alzava, dei ragazzi di Canelli arrivarono alla fontana e cominciarono a schizzarsi l’acqua addosso. Lui per bere li fece chetare. Poi traversò tutta la piazza e girò l’angolo.

Gli andammo dietro, di corsa, e Gosto, contento, si divertiva come sullo stradone. Anche a me piacque il gioco, tanto più che Rocco usciva dal paese e andava nel nostro senso. La collina era in fondo, bassa, e sembrava di toccarla. Rocco non si voltava. Quando gli fummo addosso, Gosto gli disse: — Ciao, padrino.

Rocco non si stupí. Quando Gosto gli disse che viaggiare di notte era più fresco, rispose che non era da furbi perché, non vedendo dove si mettono i piedi, si bucano le scarpe. Passammo sotto la collina che prima avevamo davanti: Rocco deviò per uno stradino che saliva una collinetta da viti, e Gosto dietro. Io mi fermai. — Vieni con Rocco, – disse Gosto. – Non sai mica dove andiamo —. Per non guastare la mattinata ci stetti. Ma collinette così ne avevamo anche a casa. Gosto saltava intorno a Rocco raccontandogli che era stato un incendio coi fiocchi e che tutte le nostre bestie erano morte nella stalla. E gli disse che ci avevano cacciato di casa perché c’era da fare il conto dei danni. — Sembra di andare a Santa Libera, — dissi a Gosto. — Qui è la vigna del parroco, — fece Rocco, fermandosi. E alzò il bastone.

Non si vedeva altro che il cielo e una gran pianta di fichi bianchi sul primo filare. Gosto disse: — Stavolta —. Saltammo le spine e cominciammo a raccogliere. — Non mangiare, – gli dissi, – mangiamo poi dopo —. Mentre Gosto saliva sulla pianta, mi voltai e non vidi più Rocco. — Fa’ attenzione che il fico tradisce, — dissi piano. Per mangiarli, continuammo lo stradino a trovare un bel posto. E ci eravamo già seduti sull’erba, quando vediamo il bastone di Rocco e poi lui, che ci aspetta. — Vanno fatti seccare, – ci disse, – per mangiarli quest’inverno —. Come se li comprasse ne scelse a due a due una manciata dei più belli, e Gosto che glieli ficcava sotto il naso. — Io dico rubare, – borbottai, – quando si mette la roba da parte. — Sei tu che hai rubato, — mi disse Rocco. Quel mattino finí che arrivammo alla casa di Rocco. Era un muro di pietre che guardava sul vallone dietro la collina. Non c’era cortile, non c’era niente. Si vede che Rocco ci stava per carità. Gli chiedemmo se aveva dei beni. — Non è necessario, — disse lui, fermandosi. A vedere la casa, Gosto, diventò come un matto e diceva: — Guarda qui com’è bello —, e gli chiese se ci stava anche d’inverno. Rocco ci lasciò entrare nella stanza ch’era piena di zucche, di mazzi di meliga, di mele a seccare e mucchi d’erba. Sapeva un odore di cortile e di raccolto. Rocco, vicino alla finestra, s’era tolto il fagotto e allargava i fichi. Fece con la mano un gesto da vecchio e disse: — È mio.

Ormai togliere Gosto di là dentro era difficile. E fuori il sole scaldava. Mi disse che finché non si mangiava era mattina e avevamo tempo. — Vuoi mettere, – disse, – com’è bello fermarsi qui. Quando vogliamo ce ne andiamo a Canelli. Possiamo pescare nel Belbo. — Valeva la pena viaggiare di notte, – gli dissi, – per fermarci a pescare nel Belbo. Io non ci sto. — Non ci stai? — Non ci sto —. E lui: — Siamo a tre ore da casa. Quando vogliamo ritorniamo —. Parlavamo sulla porta, e Rocco non ci sentiva. — Allora non vuoi più venire con me? — gli dissi secco. Gosto non mi rispose e alzò le spalle. — Io me ne vado, — dissi. In quel momento spuntò Rocco e ci disse di andare a raccogliergli l’erba laggiú. Stavolta le spalle le alzai io e Gosto disse: — Non ci date colazione? — Prima l’erba ai conigli, — fece Rocco. Allora scendemmo nel vallone a raccogliere l’erba. Gosto correva sopra il prato e faceva dei rotoloni, ma io gli dissi e ridissi: — Questa sera sono a Cassinasco. — Per andar giusto, non ce n’è bisogno, – disse lui – che cosa vuoi salire lassú? Tanto il mare di là non lo vedi.

Lo sapevo che il mare di là non si vede; l’avevo saputo fin da quando credevamo alle Ca’ Rosse, ma con Gosto non l’avevo mai detto. Quando il sacco fu pieno, tornammo da Rocco, che ci diede dei pezzi di pane e lasciò che li ungessimo d’aglio. Lui il suo lo mise nell’acqua col sale, per fare la zuppa. — Di oggi, – disse Rocco, – voglio sgranare la meliga —. Gosto portò il discorso sulla collina di Cassinasco e gli chiese che cosa si vedeva di lassú. Rocco ci disse: — Il campanile di Bubbio. — Non finisce la collina? — Uh, – disse Rocco, – comincia allora. — Poi c’è Nizza, — dissi io. — Voi, padrino, che avete girato, – disse Gosto, – il mare non l’avete mai visto? — Che mare? – disse Rocco. – Macché —. Scappai, quel pomeriggio, con Gosto che mi veniva dietro e gridava di fermarmi. — Rocco ci ha dato da mangiare, – diceva, – sgraniamogli almeno la meliga.

Arrivammo sotto il fico. — Senti, – gli dissi. – Per raccogliere l’erba ai conigli non valeva la pena di scappare da casa. Bisognava pensarci stanotte. Non possiamo tornare. — Ma è colpa di quel fuoco, — disse lui. — Stupido, – dissi allora. – Se stanotte ne cercavi degli altri.

Traversammo Canelli e ci lasciammo in piazza.

Gosto se ne andò davvero. Prese il viale dei platani trottando come un cavallo. Io rifeci la strada di prima e uscii correndo dal paese, per paura dei ragazzi di Canelli, che ce l’hanno con noi. Ma stavolta infilai la strada che saliva e, voltandomi a guardare in piazza, fui contento ch’ero solo.

Adesso non m’importava più se di là da Cassinasco non avrei visto il mare. Mi bastava sapere che il mare c’era, dietro discese e paesi, e pensarci camminando tra le siepi. Ci pensai tutto il pomeriggio, perché la collina è quasi piana e uno che guardi crede sempre di arrivare e non c’è mai. Terrazze, giardini e balconi se ne vedevano a ogni svolta, e io in principio li guardavo, specialmente le piante che avevano una foglia o un colore mai visto. Era un’ora, quella, che nessuno passava, solo qualche biroccino. Fermandosi, di là dalle siepi si sentiva la vigna e si vedevano le canne: è questa la bellezza di Canelli. Sembra di essere lontano, in un paese diverso, e la collina non è più collina, anche il cielo è più chiaro, come quando fa sole e piove insieme, ma la campagna la lavorano e fan l’uva come noi.

Arrivai sotto i pini di Cassinasco verso sera, in un’ora che Gosto doveva essere già a casa. Feci l’ultimo pezzo non pensando più a niente; c’era una siepe di rovi che chiudeva la vista. Avanti e indietro sulla strada di cresta passavano donne e contadini; il sole l’avevo nella schiena, e la mia ombra cadeva sui rovi. Le case di Cassinasco erano piccole e nere, ma battute dal sole come una chiesa. Finalmente sbucai. Vidi un’altra collina, e il cielo vuoto.

Rimasi a guardare, fin che il sole bastò. Guardando pensavo a quel che Gosto diceva a casa, e alla cena che mangiava. Forse Gosto era ancora per strada e a casa credevano che fossimo morti. Mi distesi sull’erba come facevo nella vigna dei nocciòli, e mi rinfrescai guardando il cielo. Fame non ne sentivo: mi pareva di essere a letto da un pezzo. Dormivo.

Dormii davvero, e mi svegliai ch’era notte. Sognavo l’incendio e sentivo gridare, delle voci come se mi chiamassero. Il cielo era pieno di stelle e credevo che Gosto fosse sotto le piante. Invece ero solo, e le piante a pochi passi da me traballavano in un riflesso rosso che schiariva tutta la strada.

Sulla strada passavano gente parlando e chiamandosi, e andavano verso il falò ch’era in un prato di là dalle piante. Era un falò enorme che riempiva il buio e, nei momenti che la gente stava zitta, si sentiva mordere e scoppiare. Corsi anch’io verso il prato; c’erano dei ragazzi che ballavano e si rotolavano, e degli uomini buttavano legna e fascine da più di cinque passi, perché non si poteva avvicinarsi per il calore. Io gridai: — Gosto, Gosto.

Durò più di due ore. E su tutta la collina di Cassinasco ne accendevano degli altri, ma il nostro era dei più grandi. Con quei ragazzi di Cassinasco li contavamo, e mi diedero dei pugni nella schiena perché confondevo i falò coi lumi delle cascine.

Poi correvamo chi riusciva a portar via un ramo acceso dal mucchio. Un giovanotto che mi vide nella fiamma, mi chiese: — Chi sei? — ma gli dissi che noialtri la sera di San Giovanni facevamo venire la musica e suonavamo tutta la notte. — Non avere paura, la festa è domani, – mi dissero. – La musica l’abbiamo anche noi.

Dalla strada ogni tanto si sentiva una voce che strillava di spavento. Correvano gli uomini e cominciavano a ridere, perché là li aspettavano le ragazze. Un uomo mi afferrò mentre stavo per raccogliere un ramo. — Sei matto, – mi disse, – e se cadi nel fuoco? — Invece lui mi strappò il ramo e corse al buio con degli altri, e lo gettarono acceso sotto la strada. Si sentí un gran gridare e una voce di donna e poi ridere e si presero a pugni. Ci fosse Gosto, pensavo. La fiamma andava così alta che si schiariva la vallata. — Chi sa se dal mare la vedono, — dicevo; e ogni volta che qualcuno ci buttava una fascina, guardavo giú nella vallata se almeno il Belbo luccicava. Avevo una gran voglia di posti aperti in mezzo agli alberi, e ballare e vedere di lassú tutt’intorno.

Dal paese ogni tanto si sentiva qualcuno attaccare a suonare, ma non era una banda come quella di Candido: sembrava soltanto che provassero il fiato. Il falò cominciò a farsi brace, e tutti dissero che andavano a bere. Noi ragazzi restammo a capovolgere i tizzoni e sentire il riverbero, e io mi feci amico con uno che si chiamava Maurizio e sembrava della mia età ma nel buio non lo distinguevo. Mi disse che veniva dai boschi, sul carro con tutti i suoi, per vedere la festa, e quel mattino si era messo le scarpe.

Maurizio ci faceva ridere quando diceva che le scarpe gli spellavano i piedi. Quella notte lo perdetti, perché corsi in paese con gli altri a sentire la banda che suonava, e ci fermammo sulla porta dell’osteria, ch’era piena di gente. I suonatori erano tre, ma nel chiuso non si poteva stare, tanto facevano forte. Passai la notte sulla piazza e sulla porta, e vedevo sui tavoli il vino versato. Chiesi da bere e mi diedero dell’acqua. Avevo combinato con Maurizio di dormire sulla paglia del suo carro, ma lui non mi aveva aspettato.

Quando venne giorno, era da un pezzo che giravo intorno al letto del falò, e si sentivano cantare i passeri e non riuscivo a prender sonno. I cespugli divennero rosa, poi rossi, e finalmente spuntò il sole dietro la collina. Una cosa sapevo: che il sole aveva acceso a quel modo anche il mare. La cenere del falò era bianca, e pensai ridendo che a casa in quel momento accendevano il fuoco. Ma avevo fame: avevo fame e le ossa rotte.

Girai tutto il mattino sulle strade della cresta, bagnandomi i piedi nell’erba, e mangiai delle more. Tra le piante vedevo la punta dell’altra collina, come da casa si vedeva Cassinasco. In paese, come in tutti i paesi, erano villani. Sulla porta dell’osteria era uscita una serva che, invece di darmi ascolto, aveva buttato un secchio d’acqua.

Se trovavo Maurizio mangiavo. Ma come trovarlo se l’avevo veduto soltanto alla fiamma?

Così, uscii dal paese, perché i contadini sono gli stessi dappertutto. Ma non c’era una pianta che fosse matura, e le mele crescevano troppo vicino alle case. Dalle finestre mi vedevano. Da tutte le parti si sentiva parlare e sbucava gente.

Allora mi buttai sull’erba, nel fossato della strada, perché mi trovassero loro e capissero ch’ero morto di fame. — Che cosa faccio? — dicevo, e anche stavolta sonnecchiai.

Mi svegliò il sole che scottava, e un baccano più forte. Era una cicala su una pianta. Sulla strada non passava più nessuno e si sentivano le voci in paese. Sembrava che venissero dalla collina in faccia, sul vento.

Fu allora che pensai di scender sotto a Cassinasco, dove avevo veduto quelle canne arrivando. Forse dietro quelle canne c’era un fico. Tanto a casa di stasera non arrivo, pensai, come fossi con Gosto. Corsi sotto il paese, e avevo appena messo piede sulla strada, che vidi Candido venirmi incontro, col suo clarino sotto il braccio.

— Come sarebbe? — disse fermandosi. — Sono qui —. Candido ha di bello che non mi tratta come fossi un ragazzo. Mi ascolta quando parlo, e ci pensa. — E Gosto dove l’hai lasciato? — mi disse. — Gosto è tornato ieri. Non l’hai visto? — Vi abbiamo cercati tutto il giorno nel Belbo —. Mi guardò, con la faccia che aveva al Martino, senza ridere. — Ieri il nome te l’abbiamo consumato —. Alzai le spalle e dissi ch’ero già a Cassinasco. Allora Candido guardò la strada: poi guardò la collina. Passò della gente su un carro, e gli gridarono qualcosa. Lui disse: — Buona sera. — Come, è già sera? — feci.

— Vieni su, – disse Candido. – Andiamo a vedere —. Prima cosa cercammo il telefono, e Candido conosceva la ragazza. Una ragazza che somigliava a mia sorella. Scherzarono un poco, poi gli diede la comunicazione. Candido fece chiamare casa mia e, mentre aspettavamo, mi disse che lui doveva suonare sul ballo per tutta la notte. — Vuoi ben tornare a casa? — La ragazza ci stava a sentire, e gli chiese ridendo quand’è che ballava anche lui. — Non faccio più a tempo stanotte, – io dissi. – Ho già messo due giorni a venir qui. — Così sai la strada, — disse Candido, e capii che non parlava chiaro per non farmi vergogna davanti alla ragazza.

Finalmente suonò il telefono e Candido parlò il primo. — Sono venute tutte quante, — mi disse. Gridò che eravamo a Cassinasco e quelle non capivano, e quando dovetti parlare io, avevo la tremarella. Non mi sgridarono; chiedevano dove avevo dormito, esclamavano, si davano il cambio e volevano che andassi a casa subito. Mi fecero venire il mal di cuore, dalla rabbia che la ragazza capisse. Ma questa parlava con Candido; allora chiesi a mezza voce: — E la mamma? — Stupido, la mamma ti aspetta —. Risposi che sarei tornato con Candido, che stavo con lui. Di nuovo vollero parlargli, ma in quel momento un’altra voce s’interpose e disse che la comunicazione era finita. Allora gridai: — Torniamo domani, — e posai subito.

Andammo a cena in una casa appena fuori del paese, dove c’erano già gli altri suonatori nel cortile, e tutti conoscevano Candido e lo aspettavano. Il cortile della casa coperto da viti dava sulla collina di fronte, e in cucina tutti andavano e venivano e c’era un fuoco che sembrava un falò. Candido disse che da ieri non mangiavo, e le donne, spaventate, mi diedero in un piatto pane e uva luglienga. Volevano sapere che cosa avevo fatto, ma con la bocca piena non potevo parlare. Mi ero seduto sulla cassa della legna e di lí sentivo il fuoco e l’odore della carne che friggeva e il rimbombo dell’asse dove quelle impastavano. Dalla porta si vedeva la collina e un po’ di cielo, e niente era più bello che pensarci adesso ch’ero con Candido e avevo parlato coi miei e nessuno sapeva che laggiú c’era il mare. La collina sembrava una nuvola. Bastava chiudere un po’ gli occhi e restava soltanto quel tronco di vite. — Non mangiare troppo, – disse Candido. – Poi ci sono gli agnolotti —. Allora uscimmo nel cortile, dove gli uomini bevevano parlando. Bevevano in piedi, e mi sembrava sotto i noci del Martino. — Le avete acchiappate le bestie? — chiesi a Candido. — Due ci sono scappate oltre Belbo, — disse lui con la faccia del gatto.

Allora, mentre i suonatori lo chiamavano, gli dissi che Gosto era uno stupido perché voleva fermarsi con un vagabondo del Belbo che ci mandava a raccogliere l’erba. Lui lasciò che raccontassi e poi disse: — Venire in festa a Cassinasco è troppo poco. Cosa credevi di trovare? Di qui non si va in nessun posto —. Ma senza aspettare che gli dessi risposta, guardò gli altri e a me disse: — Va’ deciso. Faccio anch’io come te, delle volte.

Adesso tutta la gente che c’era nel cortile aspettava che suonassero. Candido si mise in mezzo col clarino, e a me tutte le volte che allunga le labbra per attaccare, mi piace perché si fa serio che mai. La voce del clarino è la più bella e conduce le altre. Candido stringe sotto i baffi la linguetta e fissa in terra, ma è lui che conduce, comanda con gli occhi. Per tutto il tempo che suonarono non si sentí più una parola e la musica riempiva il cortile. Poi di colpo fu Candido che scosse la testa, levò la bocca del clarino al cielo e cessarono.

Quella sera mangiammo come tanti sposi, io vicino a Candido, e una donna gli chiese forte se ero suo figlio. Ma tutti sapevano che Candido è giovane e gli piace soltanto suonare, e ridevano. Una cosa che ha Candido è che lui beve poco, e mi diceva di non bere perché poi non si capisce più il discorso. — Tu devi conservarti la testa. Tu sei uno che studia, — mi disse anche stavolta. Ma io volevo essere allegro quella notte, e bevevo con gli altri. Bevemmo ancora nel cortile, quando uscimmo sul fresco. Bevemmo e mangiammo dell’uva. Io guardavo la collina scura, dove non c’era più un falò, e mi pareva di esser nato in quel cortile, di esser stato con Candido sempre lassú.

Si accorse lui che avevo sonno, e mi disse di andare a dormire. Litigammo quasi, ma tutti dicevano che il letto era pronto e che tanto sul ballo mi sarei annoiato. Risposi che non era il ballo, ma volevo aspettare il mattino. Candido mi diede ragione e un momento dopo mi portarono a letto perché cascavo dal sonno.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.