27- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Nudismo

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Nudismo

Son tornato al torrente dove venivo quest’inverno, e come succede in quest’ore calde mi è venuta l’idea di mettermi nudo. Non mi vedevano che gli alberi e gli uccelli. Il torrente è incassato in uno spacco della campagna. Se si ha un corpo, tanto vale esporlo al cielo. Le radici che sporgono dalla parete, sono nude.

Mi bagnai nella pozza, dove disteso toccavo fondo. È un’acqua tiepida, che sa di terra. Di tanto in tanto ci tornavo; cuocevo al sole tutto il tempo, buttato sull’erba, scorrendomi addosso le stille come sudore. Non sapevo più di carne ma d’acqua e di terra. Mi vedevo sulla testa tra le punte degli alberi la pozza nuda del cielo. Ci stetti fino a sera.

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Sono ormai parecchi giorni che passo nudo il pomeriggio sotto il cielo. Mi espongo e aggiro inquieto sull’erba e sul terriccio della pozza. Rarissimi istanti – quando mi butto gocciolante sopra l’erba – perdo coscienza e mi dimentico il corpo. Non che risenta l’abbandono e la tristezza di quand’ero bambino e mi spogliavo per lavarmi. Ora mi spoglio anzi con foga, smanioso di ritrovarmi e riapparire, e il cuore mi batte violento. Ma nel battito c’è un’ansia, c’è l’attesa di qualcosa, che scuote la mia solitudine. Voglio dire che faccio come sapessi d’esser visto.

Non parlo della gente. Per venire al torrente, traverso campagne dove villani e ragazze sparse mietono, ma non c’è da pensare che qualcuno mi sorprenda in questa buca ch’è parata da cespugli e da balze. Sento muoversi anche una quaglia o una lucertola, e farei sempre in tempo a coprirmi. È un’altra la mia inquietudine, del resto non priva di godimento. Ogni volta il mio stato di assoluta nudità mi sbigottisce e mi stupisce, quasi fosse una gran cosa attuarlo qui senza un pensiero. Ogni volta che stendo sull’erba le mie lunghe gambe e rovescio la nuca, so che il sole mi vede e mi fruga quale sono dalla testa ai piedi e non c’è nulla di diverso da me a un sasso, a un tronco, a una biscia screziata, se non appunto il turbamento che provo a mostrarmi. Ormai l’acqua e il sole mi han tornito e velato, e anche in questo mi par di capire che la natura non sopporta il nudo umano e con tutti i suoi mezzi si sforza, come fa coi cadaveri, di appropriarselo. Ma le occorre del tempo, e dovrei stare giorno e notte in mezzo a lei. Ogni giorno invece ricompaio, e torno nudo spogliandomi. Così le resisto e insieme mi abbandono ai suoi sguardi con quel godimento che posso. C’è qui una conca di erbe alte, acquitrinose, sempre in ombra, dove alle volte mi aggiro. L’erbe mi dànno al ventre e i piedi sguazzano, ma non è il fresco che cerco. Entro qui per nascondermi, e uscirne improvviso, più nudo di prima.

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Gli strilli e le voci di uccelli sul mio capo mi dicono che non conto gran che. Qui tutto continua come se io non ci fossi, e dal fondo di questo burrone levando lo sguardo vedo passare qualche nuvola e stormire le punte degli alberi, quasi tra noi fosse un abisso. Il vento non giunge quaggiú. Non appena buttato, dimentico le campagne e le strade – è mio orizzonte quello breve della pozza, e guardo una farfalla o un tronco d’albero con stupidaggine testarda, come palpo col corpo il terreno che copro. A intervalli passa l’ombra di una nuvola, e allora fa fresco, tutta la macchia si trasforma: le piante che svanivano nel sole, si profilano, fan selva, si riflettono in acqua, i colori si smorzano, lo sguardo distingue. Allora mi alzo e mi riscuoto, sono nudo come un tronco sotto la corteccia, fresco e nudo come l’aria che tocco. Vedo che il cielo dietro gli alberi è nudo anche lui. Nudo e raccolto.

Cresce l’ombra e osservo il bosco o l’acqua ferma. Non saprei dire quel che vedo e che penso. Le parole sono erba e radici, sono sassi, mota, fulgore – non ce n’è altre – ma il mio corpo non le accetta. Entrar nell’erba, entrar nel sasso: questo il mio corpo lo direbbe, ma non basta. Questa conca è una materia senza nome; bisogna muoversi, sentirla, toccarla. Devo fare uno sforzo per non stringere le radici, arrampicarmi su nel bosco, tra le spine e i tronchi verdi, e camminarci. Mi contengo tastando il mio corpo.

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Se qualcuno giungesse quando appena mi son rovesciato grondante, credo che non mi muoverei. Sono indolente come un tronco. L’acqua e il sole mi vanno facendo ogni giorno più fosco; credono Così di cancellarmi, di coprirmi, ma non sanno che invece m’imbestiano. M’indurano il corpo a sopportare e far da sé. M’è già presa la smania, quando arrivo sudato, d’impiastricciarmi di mota raccogliendola a manate e spalmandomela addosso, e poi starmene al sole fin che cola. È un modo di coprirmi, anche questo. Così quando mi lavo, mi pare di uscire dall’acqua più nudo.

Per quanto la pozza sia quasi stagnante, e l’acqua viscida, mi basta allungarmici per uscirne deterso. C’è dentro una vena più cruda, fredda, che io cerco sguazzando di schiena o accoccolandomi come un rospo sotto i radiconi dello strapiombo. L’intorbida subito il limo, e tutto il pomeriggio non basta a schiarirla: si direbbe che il sole vi addensa i suoi vapori più estuosi. È immagine di un cielo nell’afa; nella sua opacità non riflette più nulla. Mi pare di uscirne sudato, mi scorrono gocce dal petto alle cosce.

Dopo queste bagnate è più forte il sentore di pantano e di mota. Tutta quanta la conca cuoce al sole. Si sentono frulli, fruscii, tonfi, richiami che paiono venir da chi sa dove e non sono a tre passi. È in qualcuno di questi momenti che dimentico d’essere nudo. Chiudo gli occhi, e tutta quanta la campagna, le frutte, i viottoli, le coste, i viandanti, riprendono di là dagli alberi esistenza e spazio, ogni cosa un sentore, un sapore, la sua realtà. Tutto va e viene intorno a me, che mi cuocio sull’erba. Perché dovrei muovermi se venisse qualcuno?

Ma non viene nessuno. Viene il tedio, questo sí. Prendo il sole e prendo l’acqua, mi aggiro e mi siedo sull’erba, guardo, fiuto, ritorno nell’acqua, mai che accada qualcosa. L’ombra di un albero si allunga a poco a poco, fin che copre il mio letto consueto. Un fresco diverso comincia a vestire la conca, e il fortore di mota e di morte si avviva. Ora posso sentirlo come sento il mio corpo, che è più grande e più nudo. E non viene nessuno. Ma non posso andar io?

La prima volta che pensai questo capriccio, allibii, ma sorrisi a me stesso. Adesso, per levarmene il gusto, corro su dal sentiero per cui scendo alla conca, e mi fermo tra i cespugli bassi sull’erba del piano. Non c’è ormai più difesa tra me e la campagna. Vedo oltre i tronchi le pianure del grano. Mi butto nell’erba supino al cielo, nell’ultimo sole. Non temo contatti, nemmeno le stoppie.

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Han finito di mietere. La campagna è deserta. Faccio tutta la strada senza incontrare nessuno. La pozza mi attende e io rimpiango i giorni andati. Quel rischio era bello.

Mi tornano in mente i bagnanti del Po. Specialmente le donne che si credono nude perché cambiano d’abito. Vanno e vengono sopra il cemento o la sabbia, e si fanno dei cenni, si guardano dietro, si parlano e offendono come in salotto. Poi si mettono al sole e qualcuna si sfila il costume dalla spalla per prenderne un palmo di più. Tutti quanti si svestono, tutti si cercano, e non uno che dica ciò che tutti hanno in mente – che il corpo è ben altro. Hanno avuto il coraggio di mettersi in gruppo, non han quello di fare ciò che tutti vorrebbero.

Mi piaceva, in questi giorni passati, traversare le campagne sotto gli occhi delle donne, dei mietitori e dei buoi. Buona gente che non sapeva dove andavo, che poteva in qualunque momento venire al torrente per bagnarsi la faccia o abbeverare, e scoprire tra i rovi il mio corpo annerito. Loro almeno, se pensano di prendere un bagno, si spogliano senza riguardi. O forse non lo prendono, se non da ragazzi. Camminavo rasente ai mannelli di grano, che hanno la spiga abbrustolita, giusto il colore del mio corpo, e vedevo le mani scure tendersi, le schiene curvarsi, i fazzoletti rosseggiare. Ciò che mostrano del corpo è color del tabacco, e perfino la camicia e i calzoni hanno aspetto di terra come scorza di tronchi. Questa è gente che può tralasciare di mettersi nuda; è già nuda da sé. Quando passo tra loro, mi pesa il vestito che indosso, mi sento festivo come un bue infiocchettato. Vorrei che sapessero che sotto son nero. Che, insomma, sono nudo.

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È accaduto. Una, almeno, lo sa.

Ero entrato nell’acqua per lavarmi il terriccio. Galleggiavo supino allargando le braccia e mi vedevo il cielo chiaro dentro gli occhi. Non pensavo a nulla. Mi rizzai barcollando sulla mota sommersa e mi chinavo a prender acqua per inondarmi, quando una donna traversò la conca. Era grande, una sposa, con un fascio di frasche sul fianco. Mi venne incontro né stupita né attenta – mi vide chino palpar l’acqua – poi deviò nel burrone col suo fascio, e sguazzando in un’acqua di scolo sparí tra le erbacce. Era scalza. Ne vidi la schiena robusta riapparire nel sole tra il verde, poi sentii che sfrascava più in là.

Era scesa dal sentiero per cui corro quando vado a buttarmi sull’erba. Mi dovette vedere fin da lassú, eppure continuò la sua strada con calma, né pensò a voltarsi dopo che fu passata.

Ritto nell’acqua, nudo, l’ascoltai allontanarsi. Ero certo più scosso di lei. Sulla pelle mi correvano le gocce d’acqua. Uscii sull’asciutto, e ancora non mi pareva vero. Come non l’avevo sentita? Una donna ha un altro passo da noialtri. Ma non è questo che pensavo. Pensavo che mi aveva guardato senza curiosità né rossore, come una cosa naturale. Se si fosse fermata magari ridendo a parlarmi, sarebbe stato diverso: io mi sarei coperto, l’avrei forse toccata, ma in ogni caso non sarei Così agitato. Eppure era giovane, perché qui le spose sfioriscono presto.

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Scende il fresco, e mi sento più nudo. Ripenso agli occhi della donna, abbronzata anche lei. Sarà tutta abbronzata? Certo non ne ha bisogno: non è questo che importa. A lei importa essere sana e far dei figli vigorosi. Prende del sole quanto basta, camminando. Lo stesso sole che matura le campagne e fa frutto, e che qui bevono nel vino. L’uva annerisce anche coperta dalle foglie. L’importante è che sotto sia il corpo.

Era vestita di una gonna scura sulle gambe forti, e andava senza riguardo tra pietre e radici. La vedo procedere intenta nel bosco e sfrondare le gaggie che lassú crescono belle. Siccome strapiombano sulla parete del burrone e ne sporgono le radici, mi par di vedere sottoterra e, in alto, il cielo. Qui è la parte celata del bosco, i sentimenti, il tenebrore, il fondo. La donna a quest’ora è lontana. Ho davanti la nuda balza venata di sasso, che mi dice che anche il bosco ha un suo corpo, come tutta la campagna, coperto di terra, terra esso stesso vestita di piante, nudo e vero come siamo tutti. Mi palpo la pelle che serba il buon tepore del sole. Sono felice che la donna mi abbia visto.

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Quando torno, mi fermo a discorrere ai bivi. C’è sempre qualcuno che sa cosa dire. Ieri ho visto Marchino e gli ho detto di dove venivo. – Bisogna che anch’io faccia il bagno, – disse. È un uomo fosco con due dita di barba e gli occhi duri. Ma ha di queste gentilezze. Non ha chiesto di venire con me.

Mi disse che andava domani alla bocca della gora dove l’acqua è corrente. — Se volete venire, — mi fece. Gli obbiettai che io non porto brachette. — Sapete, – rispose. – Con me non ce n’è bisogno.

Siamo andati stasera alla gora dove la diga fa lago, e la riva è un sabbione di salici battuto dal sole. I ragazzi a quest’ora sono tutti in pastura. Ci spogliammo e posammo la roba a un poco d’ombra, poi entrammo nell’acqua. Era un’acqua argentina, carezzante e sabbiosa. Marchino nuotò a grandi spruzzi. Io mi stesi nell’acqua e galleggiai guardando il cielo. In quegli istanti penso sempre alla campagna, alle punte degli alberi, alla vita che va.

Quando uscimmo dall’acqua guardai meglio Marchino. Doveva aver mietuto seminudo quell’anno, perché non aveva di pallido che il ventre e le cosce. Peloso, del resto, di un pelo biondiccio di solleone. Camminava tranquillo, e si piegò per allungarsi sulla sabbia. Distolsi lo sguardo.

Tra una chiacchiera e l’altra tornavamo nell’acqua a bagnarci la testa. Marchino lasciava che dicessi le cose e rispondeva a suo agio dopo un pezzo. Certe volte parlava, ch’io pensavo già ad altro. Mi piaceva il suo petto nodoso che anche nel respiro non si muoveva.

Mi disse che dovevo aver preso gran sole, tant’ero nero. — Non l’ho preso lavorando, – risposi. – Voi piuttosto. Bisognerà annerirvi tutto. Se no, che figura farete, a un’occasione? — Parlavamo con la nuca sulla sabbia. Lui si piegò e vide lo scherzo. Dopo un poco rispose: — Quando sono a quel punto, non pensano a noi.

Io rividi la donna del bosco e capii che Marchino era fatto per lei. Avrei voluto anche dirglielo ma come potevo? Marchino non avrebbe capito. È da lui non pensar queste cose.

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Sono entrato fra gli alberi sopra il burrone, nella penombra calda. Rifaccio la strada della sposa, camminando con cautela. La campagna è tutt’altro che semplice. Basta pensare quanta gente c’è passata. Ogni riva, ogni macchia ha veduto qualcosa. Ogni luogo ha un suo nome.

Per le finestre delle foglie occhieggia il cielo, e sotto il cielo la collina e il piano sono un tappeto di campi. La loro dolcezza ha sapor di sudore. Ma questa dolcezza sommerge anche il bosco, tutti gli angoli incolti del bosco, che tradisce la sua nudità. È qui, in questi luoghi selvatici – sovente un cespuglio, una pietra – che terra e campo sono nudi e si rivelano.

Mi fermo al ciglione dei tronchi. Di qui riprendono i coltivi e le fatiche. Poche macchie d’ontano e gaggia sullo spacco dell’acqua facevano tutto l’incolto. Non posso procedere, poiché sono nudo. Stavolta ho capito perché per spogliarsi bisogna scendere allo spacco e perché i contadini si vestono per andare sul campo. Lavorare è vestire la terra.

Per questo la donna mi guardava tranquilla. Sapeva che mi ero nascosto e che quello era un ozio. Vedermi era come vedere se stessa. Non sapeva che avevo pensato di uscire sui campi. Tutto ha un nome in campagna ma non questo gesto. E né lei né Marchino ci pensano.

Intanto, cade il sole anche qui. Sento l’erba agitarsi e frusciare; uccelli passano; un ronzío più profondo assorda terra e cielo. La campagna appare nuda ma non è. Dappertutto il sudore la copre di caligine riarsa. Mi chiedo se c’è un fosso, una costa, un pezzo solo di terra che mani non abbiano scavato e rifatto. Dappertutto è segnato di sguardi e parole umane. Viene dai campi come un alito tranquillo, che non penetra qua sotto dove l’acqua la mota il sudore stagnano e non dicono nulla. Io ogni giorno ci trovo la vita, ma poi mi stendo, corpo nero, come un morto.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

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