26- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Mal di mestiere

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Mal di mestiere

Talvolta se mi accosto a questa terra, ne ho un urto impetuoso che mi rapisce come un’acqua in piena e vuol sommergermi. Una voce, un odore bastano a prendermi e buttarmi chi sa dove. Son fatto pietra, umidità, letame, succo di frutto, vento. Del limite umano non mi resta che l’istinto di rapprendermi in parole, ma queste non sono più nulla e mi dibatto come un albero o una belva già stata uomo e ora incapace di esprimersi. Cedo, riluttando perché so che la mia natura è un’altra, e ogni volta trovo in fondo a questo impeto una vana sazietà. Ogni sforzo d’inturgidire il senso serbando coscienza, porta a questa disfatta. È insomma peccato, come il libertinaggio, come il sadismo e l’ubriachezza.

Il limite umano – il mio – reca in sé questa norma: ciò che si vuole e non si può esprimere è peccato. Peggio: è futilità. Ad esso è consentito questo solo perdono: il ricordo. Attraverso il ricordo, ciò che era disumano e bestiale può forse riscattarsi e rendere un suono di chiara ragione. Ma appunto diventando ricordo cessa d’essere turgore del senso.

Io parlo qui di tentazione attuale. Fermo davanti a una campagna, smemorato, a un cielo chiaro, a un corso d’acqua, a un bosco, mi sorprende la rabbia improvvisa di non esser più io, di farmi quel campo, quel cielo, quel bosco, di cercar la parola che lo traduca tutto quanto, fino ai fili dell’erba, fino al sentore, fino al vuoto. Io non esisto; esiste il campo, esiste il cielo. Esistono i miei sensi, spalancati come bocche a divorare l’oggetto. Due naturalità sono affrontate: una tesa, spasmodica; l’altra, inesorabile e bruta. Ripeto che sto tutto teso all’esterno; non inseguo me stesso, non brancico un’idea fuggitiva; anzi, dentro, lo spirito mi è come strozzato. Nella sua brutalità questo stato è, sia pur futile, uno sforzo d’indiarsi attraverso la bestia. Come il bere o l’uccidere. Se appare più veniale e quasi meritorio perché tende insomma a un frutto spirituale, è tuttavia più velenoso perché inestricabile dalla vita interiore genuina e con ciò sempre pronto a guastare il lavoro legittimo. È una crisi, una sommossa delle facoltà buone che, ingannate da un urto dei sensi, presumono di guadagnare abbandonandosi alle cose. E queste afferrano, travolgono, inghiottono come un mare agitato, elusive, inafferrabili a lor volta, come spuma. C’è in esse qualcosa di osceno: esattamente lo stesso che abbandonarsi al sesso e volerne narrare le sensazioni segrete.

Nel ricordo il tumulto si placa. Ciò si dice, beninteso, del ricordo-rinuncia, del ricordo che ha saputo insignorirsi delle cose attraverso il distacco, l’assunzione del naturale all’assoluto. Di qui nasce che il più sicuro vivaio di simboli sia quello dell’infanzia: sensazioni remote che si sono spogliate, macerandosi a lungo, di ogni materia, e hanno assunto nella memoria la trasparenza dello spirito. Di qui nasce che agli ingegni contemplativi non si raccomanderà mai abbastanza di tapparsi i sensi davanti alla realtà e accontentarsi di quella che, filtrata dagli anni, riaffiora dal fondo della chiusa coscienza. L’illusoria ricchezza del reale non può essere giustamente valutata se non da chi sa che solo è nostro ciò che abbiamo posseduto sempre; e questo spiega perché siano Così inenarrabilmente noiosi i libri di viaggio o, come si dice, documentari. Un solo documento c’interessa sempre e riesce nuovo: ciò che sapevamo fin da bambini.

Perché davvero nell’infanzia eravamo un’altra cosa. Piccoli bruti inconsapevoli, il reale ci accoglieva come accoglie semi e pietre. Nessun pericolo che allora lo ammirassimo e volessimo tuffarci nel suo gorgo. Eravamo il gorgo stesso. Ma la storia segreta dell’infanzia di tutti è fatta appunto dei sussulti e degli strappi che ci hanno sradicati dal reale, per cui – oggi una forma e domani un colore – attraverso il linguaggio ci siamo contrapposti alle cose e abbiamo imparato a valutarle e contemplarle. Ciò che è prezioso in fondo a noi sarà dunque questa concordia discorde d’incontri, di scoperte, di sviluppo. La tentazione di riattingere con amplesso innaturale l’universo preinfantile delle cose, è il peccato. Se mai, ci tocca esercitarci nell’opposto: respingere quella naturalità che ci fosse rimasta intorno, respingerla per poterla possedere. Ma ben poco la vita adulta può aggiungere al tesoro infantile di scoperte. Si può bensí riportare alla luce quelle forme primigenie e contemplarne la fresca salute, come di radici che il terriccio dei giorni ha continuato a nutrire. Poi da cosa nasce cosa, e anche i giorni futuri germoglieranno su questi ceppi.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

25- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – La vigna

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

La vigna

Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti è terra rossa dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo. È un cielo sempre tenero e maturo, dove non mancano – tesoro e vigna anch’esse – le nubi sode di settembre. Tutto ciò è familiare e remoto – infantile, a dirla breve, ma scuote ogni volta, quasi fosse un mondo.

La visione s’accompagna al sospetto che queste non siano se non le quinte di una scena favolosa in attesa di un evento che né il ricordo né la fantasia conoscono. Qualcosa d’inaudito è accaduto o accadrà su questo teatro. Basta pensare alle ore della notte, o del crepuscolo, in cui la vigna non cade sotto gli occhi e si sa che si distende sotto il cielo, sempre uguale e raccolta. Si direbbe che nessuno vi è mai camminato, eppure c’è chi la lavora a tralcio a tralcio e alla vendemmia è tutta gaia di voci e di passi. Ma poi se ne vanno, ed è come una stanza in cui da tempo non entra nessuno e la finestra è aperta al cielo. Il giorno e la notte vi regnano; a volte vi fa fresco e coperto – è la pioggia –, nulla muta nella stanza, e il tempo non passa. Neanche sulla vigna il tempo passa; la sua stagione è settembre e torna sempre, e appare eterna. Solamente un ragazzo la conosce davvero; sono passati gli anni, ma davanti alla vigna l’uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo. Il sospetto di ciò che deve – che è dovuto – accadere, la mantiene la stessa e risuscita nel ricordo l’infanzia. Ma nulla è veramente accaduto e il ragazzo non sapeva di attendere ciò che adesso sfugge anche al ricordo. E ciò che non accadde al principio non può accadere mai più.

Se non forse sia stata proprio quest’immobilità a incantare la vigna. Un sentiero l’attraversa all’insú, dimezzando i filari e tagliando una porta sul cielo vicino. Il ragazzo saliva per questi sentieri, vi saliva e non pensava a ricordare; non sapeva che l’attimo sarebbe durato come un germe e che un’ansia di afferrarlo e conoscerlo a fondo l’avrebbe in avvenire dilatato oltre il tempo. Forse quest’attimo era fatto di nulla, ma stava proprio in questo il suo avvenire. Un semplice e profondo nulla, non ricordato perché non ne valeva la pena, disteso nei giorni e poi perduto, riaffiora davanti al sentiero, alla vigna, e si scopre infantile, di là dalle cose e dal tempo, com’era allora che il tempo per il ragazzo non esisteva. E allora qualcosa è davvero accaduto. È accaduto un istante fa, è l’istante stesso: l’uomo e il ragazzo s’incontrano e sanno e si dicono che il tempo è sfumato.

L’uomo sa queste cose contemplando la vigna. E tutto l’accumulo, la lenta ricchezza di ricordi d’ogni sorta, non è nulla di fronte alla certezza di quest’estasi immemoriale. Ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima, e qualcosa nel suo orizzonte apre plausibili vedute di nostalgia e di speranza. Insoliti eventi vi possono accadere che la sola fantasia suscita, ma non l’evento che soggiace a tutti quanti e tutti abolisce: la scomparsa del tempo. Questo non accade, è; anzi è la vigna stessa.

Davanti al sentiero che sale all’orizzonte, l’uomo non ritorna ragazzo: è ragazzo. Per un attimo, in cui giunge a far tacere ogni ricordo, si trova entro gli occhi la vigna immobile, istintiva, immutabile, quale ha sempre saputo di avere nel cuore. E non accade nulla, perché nulla può accadere che sia più vasto di questa presenza. Non occorre nemmeno fermarsi davanti alla vigna e riconoscerne i tratti familiari e inauditi. Basta l’attimo dell’incontro e già il ragazzo e l’uomo adulto han cominciato il loro dialogo che, ricco di giorni, dall’inizio non muta.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

Bologna: La mostra fotografica “Herbarium. I fiori sono rimasti rosa” di Alessandra Calò presentata da Maison Laviniaturra

Alessandra Calò, Herbarium

Maison Laviniaturra presenta la mostra di Alessandra Calò
“Herbarium. I fiori sono rimasti rosa”

Opening giovedì 15 settembre ore 17:30

Dal 15 settembre al 31 ottobre 2022
Da martedì al sabato su appuntamento

Via dei Sabbioni 9, Bologna

Inaugura giovedì 15 settembre la mostra “Herbarium. I fiori sono rimasti rosa” dell’artista Alessandra Calò, accompagnata da un testo critico di Azzurra Immediato.

Prosegue cosi la stagione espositiva promossa da Maison laviniaturra, noto atelier-salotto bolognese di moda fondato dalla fashion designer Lavinia Turra, con mostre di artiste donne che continuerà fino al 2023 con Valentina D’Accardi e Malena Mazza.

Ancora una volta l’arte, nelle sue diverse forme, e la moda, come espressione di alto artigianato, si fondono per dare vita ad un progetto espositivo ricco di suggestioni e fascinazioni. L’obiettivo di tali mostre-evento infatti è quello di creare un luogo di incontro dove poter far confluire mondi diversi ma sinestetici: la stilista Lavinia Turra oltre a dar vita alle sue note collezioni prêt-à-couture crea spesso allestimenti concettuali d’immagine che ne riflettono l’ispirazione.

Dal 15 settembre, tra le creazioni stilistiche dell’atelier, si intrecciano e mescolano le opere dell’artista Alessandra Calò di intenso significato sociale e simbolico, una serie di diorami fotografici, frutto di un percorso condiviso con alcune persone fragili facenti parte del progetto sociale “Incontri! Arte e persone” ai Musei Civici di Reggio Emilia. “Incuriosita dalla ricca collezione custodita ed esposta nel museo, il focus è caduto su ciò̀ che non è visibile al pubblico: una serie di erbari custoditi in un vecchio armadio nella Saletta della Botanica – così racconta l’artista – Nonostante il carattere scientifico che li contraddistingue (famosa è la collezione settecentesca di Filippo Re), ci siamo soffermati sullo sguardo romantico scoperto sfogliando un erbario dell’allora quattordicenne Antonio Casoli Cremona (1885) che catalogava in maniera amatoriale tutte le erbe presenti nel suo giardino e nei dintorni della città”.

Da questa osservazione della natura e della sua imperfezione, La Calò insieme ai partecipanti del laboratorio hanno trasformato le erbe spontanee (le cosiddette “erbacce”) in impronte su carta fotografica grazie alla tecnica del fotogramma, la stessa tecnica usata da molti artisti delle avanguardie del ‘900 come Man Ray. Alessandra Calò ha poi dato vita a sovrapposizioni di immagini e simboli che rimandano al concetto di fragilità e umanità, unendo alle forme delle erbe quelle delle mani stesse dei partecipanti. Un nuovo e innovativo modo di concepire l’immagine che racconta il gesto di cura evocato dai protagonisti delle fotografie fino ad arrivare alla simbiosi e al parallelismo con la natura e l’umanità raffigurata.

Restando fedele al mio modus operandiAlessandra Calò spiega – ho creato sovrapposizioni dove materiali d’archivio, fotografia e processo analogico di stampa si fondono per dare vita ad un’opera. La tecnica consiste nell’esporre oggetti a contatto con l’emulsione fotosensibile, nello specifico quella utilizzata per il nostro erbario è composta da sali d’argento e di ferro, e si chiama callitipia. Ho realizzato numerosi progetti con doppie esposizioni e sovrapposizioni, ogni immagine è unica, così come è unico ciascun partecipante. Oggi si punta alla perfezione con altissime risoluzioni…io cerco di andare controcorrente e puntare al difetto, perché è lì che riconosco l’umanità. Percepisco l’essere umano propriamente il risultato di svariate sovrapposizioni”.

Nel suo testo critico, che accompagna la mostra, Azzurra Immediato sottolinea che “…La ricerca che riconosce l’animo umano come abitante di questa terra, con il suo mistero esistenziale e la sua attesa immanente, è parte dell’abbecedario attuato da Alessandra Calò, nei suoi progetti artistici ed in particolare da Herbarium. I fiori sono rimasti rosa…. che sviluppandosi in una forma composita di teche, stratificazioni di supporti e scrittura, sembra perimetrare una dispersione di storie, di soggetti, di un tempo passato e di visioni in grado di porre in stretto dialogo il presente. Il suo processo di analisi e un trascorso altero che Alessandra Calò, insieme alle sei persone che l’hanno accompagnata nei Musei Civici di Reggio Emilia, ha ricostruito in maniera simbolica, frutto di una armonia oggettivata dal raccordo tra il processo fotografico e il fine semantico iniziale. Se la sovrapposizione, invero, definisce una sorta di ‘scrittura fotografica’ attribuibile alla Calò, Herbarium è sublimazione di un cammino che si è mosso a partire dall’osservazione delle antiche raccolte naturalistiche sino alla realizzazione di un erbario rayografico…. Un’esperienza che ha scelto di radicarsi in una ramificazione di rarità, umane e naturali, attraverso cui, inoltre, la sperimentazione continua – legata a doppio filo con la relazione tra λόγος e τέχνη – per farsi esegesi della meraviglia dell’imponderabile, della bellezza che rimanda alla dimensione essenziale dello spirito e che fa persino del difetto, dell’imperfezione, il carattere di una plusvalenza ontologica avente luogo nell’alveo della purezza umana, laddove la verità non è una certezza bensì una pluralità di punti di vista tali da rendere veritiere talune dinamiche.

Da questo progetto, dal profondo significato sociale, è nato anche un libro d’artista dal titolo “Herbarium. I fiori sono rimasti rosa” pubblicato da studiofaganel editore.

LAVINIA TURRA

Lavinia Turra

Nata a Bologna, cresciuta fra donne che tagliavano e cucivano, ha frequentato da bambina antiche sartorie e imparato l’amore per questo lavoro. Il suo mestiere nasce e cresce con l’uso delle mani, che conoscono e usano non solo i colori e le matite, ma soprattutto le stoffe e i tessuti, adoperando forbici, ago e filo. Arriva a questo lavoro attraverso un’attrazione e una lunga strada di “connivenze” e “complicità” legate all’arte, alla pittura, al teatro.

Curiosa per natura, la relazione personale e l’ascolto sono alla base del suo modo di “vestire” perché l’abito, “deve rappresentare la donna e non travestirla”.

Nel 2017 fonda Maison laviniaturra, sentendo la necessità di uno spazio che non solo offra ma accolga, come solo una “casa” sa fare. L’apertura della Maison coincide anche con l’inizio della collaborazione creativa con la figlia Cecilia Torsello, rinnovamento e fresca energia del brand. Un prodotto 100% Made in Italy, tessuti di ricerca, forme timeless e dettagli all’avanguardia: Maison laviniaturra propone una propria idea di lusso, legato all’etica di produzione, all’individualità e ispirata alla cultura del bello.

ALESSANDRA CALÒ

Alessandra Calò

Alessandra Calò è un’artista che utilizza differenti mezzi per approfondire temi legati all’identità e alla memoria. Pratica dominante nel suo lavoro è il recupero e la reinterpretazione di materiali d’archivio attraverso i quali non intende attuare una rievocazione nostalgica del passato ma proporre una nuova visione della realtà. Nel 2015 partecipa a Fotografia Europea con il progetto Fotoscopia, che entra a far parte della collezione ArtphileinFoundation.

Nel 2016 il suo progetto Secret Garden vince il Premio Combat per l’Arte Contemporanea e successivamente realizza il suo primo libro d’artista (2018, Danilo Montanari Editore) con prefazione di Erik Kessels, menzione speciale al Premio Bastianelli come miglior libro fotografico pubblicato in Italia. Secret Garden entra a far parte della Collezione Maramotti, Donata Pizzi, MoMA e Met Museum. Nel 2018 partecipa a Circulation Festival (Parigi) con il progetto Kochan, ed una personale all’IIC di Madrid per la XIV Giornata del Contemporaneo. Nel 2022 partecipa ai festival Fotografia Europea (Reggio Emilia), Rencontre Photo Gaspésie (Canada), Diaphane Photaumnales (Francia). Le sue opere fanno parte di importanti collezioni e sono state esposte in prestigiose mostre e festival internazionali.


INFO UTILI MOSTRA Herbarium. I fiori sono rimasti rosa di Alessandra Calò

DOVE: Maison laviniaturra, via dei Sabbioni 9, Bologna
INAUGURAZIONE: Giovedì 15 settembre ore 17:30
QUANDO: dal 15 settembre al 31 ottobre 2022
ORARI: dal martedì al sabato, dalle 17:00 alle 19:00
Su appuntamento. Per visitare la mostra è necessario telefonare al 320 9188304

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SITO: maison laviniaturra

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24- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – L’adolescenza

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

L’adolescenza

Il giorno in cui ci si accorge che le conoscenze e gli incontri che facciamo nei libri, erano quelli della nostra prima età, si esce d’adolescenza e s’intravede se stessi. C’era in noi un tesoro che non sapevamo, un accumulo di lente abitudini cui d’improvviso scopriamo un viso nuovo, sorprendente, ricco di tutto il fascino e l’arcano del mondo della fantasia. Nulla è mutato nelle cose e persone della nostra piccola esistenza, siamo mutati noi: attraverso lo stupore che ciò che della vita abbiamo veduto e sentito sia lo stesso che muove e accende le alte fantasie dei libri, abbiamo capito di ammirare: abbiamo scoperto, afferrato un mondo, il nostro mondo.

Un’epoca in cui non ammirassimo, si perde nell’indistinto. Poiché prima dei libri ci furono le favole, le immagini, i giochi, ci furono i canti e le feste. A rigore, di età in cui nessuna fantasia esterna premesse sul nostro animo ci fu soltanto quella inconsapevole dell’infanzia. I libri sono venuti più tardi: essi hanno affrettato e condensato un processo che nulla sostanzialmente distingue dall’azione onnipresente della cultura prelibresca. Non appena ascoltammo e parlammo, eccoci nella sfera dello spirito, della fantasia incarnati.

Ora, l’ammirazione, e cioè la facoltà di vedere come unica e normativa la forma di una realtà, nasce sempre nel solco di una precedente trasfigurazione di questa realtà. Noi ammiriamo soltanto ciò che abbiamo già una volta ammirato. E d’istanza in istanza, finiamo ben per risalire a quella volta che l’ammirazione ci venne dall’esterno, cioè attraverso la parola, il segno, ci venne comunicata come frutto spirituale incarnato. Nessun ragazzo, nessun uomo ammira un paesaggio prima che l’arte, la poesia – una semplice parola anche – gli abbiano aperto gli occhi. Ognuno ripensi a un’ora estatica della sua fanciullezza, e troverà sotto l’entusiasmo e la rivelazione, la traccia di gusto, libresca o no, che la sua qualsiasi cultura gli ha segnato. L’invenzione di nuovi paesaggi – di nuove figure, persone, miti, di nuove forme – è cosa dell’età ben più provetta in cui l’impronta delle fantasie esterne cede finalmente al privilegiato fervore di chi ha saputo foggiarsi nuove ammirazioni portando alla luce con sforzo gli stampi istintivi del suo essere. Ma questo accade di rado. Di solito tutti – non esclusi i professionisti della fantasia – vivono di figure prese a prestito. Questo vale, almeno, per tutte le adolescenze. Che cessano appunto quando si capisce che la passata visione della realtà somiglia ed è quella esterna dei libri – degli altri.

Ogni qualvolta non giunse questo molteplice suggello culturale a popolarci di figure e forme la realtà, i giorni della nostra infanzia-adolescenza trascorsero stranamente e non ebbero, appunto, forma alcuna. Ma in essi si compí – meraviglioso e ordinario – l’incontro muto con tutta la realtà, ed è un peccato che, a ripensarci, noi c’imbattiamo di solito, per evidenti ragioni, soltanto nei momenti di trasfigurazione culturale, in quei momenti cioè quando un’espressione esterna c’illuminò di luce più o meno avventizia l’esperienza. Quali tappe della nostra consapevole educazione questi spiccano nel ricordo. Ma c’è tutta una plaga d’indistinte giornate, di cui chi riesce a cogliere e fermare l’atmosfera sfiora il segreto della propria natura più gelosa. In esse incontrammo la nostra realtà, la meno influita e incantata di cultura e quella che sotto tutte le rivelazioni future serberà inconfondibile l’impronta dell’istinto. C’è in esse come un solido suolo, un fondamento ultimo, uno schietto e incancellabile stampo. Tutto viene di là. La stessa meraviglia che un giorno proveremo ravvisando nelle illuminazioni dell’arte i volti e i sentimenti della nostra prima età – scoprendo di che cosa era fatto quell’entusiasmo – questa meraviglia ci verrà dal contrasto con le mute giornate che han potuto preparare e presentire tanta vita. Ce lo dicono le più belle forti fantasie.

«Ebbi in quel mar la culla…»
«……………….. Ivi, fanciullo,
la deità di Venere adorai».

L’infanzia di Zacinto s’illumina di cultura greca; ma è soprattutto la cultura greca che s’è arricchita e rinsanguata a quegli incontri infantili. Il fatto casuale della nascita in Grecia diventa il lievito di tutto un mondo libresco già disseccato. Più tardi nel secolo si incontreranno fantasie più scaltrite, nelle quali l’apporto culturale sarà sempre meglio eclissato dal momento scuro dell’infanzia; fino all’estremo tentativo di chi nella ricerca del tempo perduto ravviserà la vita vera e tutta l’arte.

E non è un caso che Proust per raggiungere il suo passato più geloso si sia servito della pura sensazione, che nella sua nudità pare fatta apposta per accostarci al mondo larvale delle origini istintive.

Ma il travaglio di distinguere nel ricordo fra barlumi originari e visioni riflesse comincia tardi, comincia con una giovinezza spirituale che si fa attendere molto al di là di quella fisica e talvolta non verrà mai. È necessario a questo scopo impadronirsi di se stessi – una conquista paziente – al punto di saper trascurare i ricordi gloriosi e confinarsi a scavare le zone monotone e neutre. Sono queste le piaghe di semplice vita infantile, istintive, vergini – per quanto è possibile – d’incontri culturali compreso il linguaggio. La difficoltà massima è nel fatto, sopra osservato, che il ricordo ci conserva soltanto ciò che in noi fanciulli fu, già, espresso, vale a dire ispirato da fuori. Occorre per ciò non tanto risalire il fiume della memoria, quanto rimettersi con abnegazione nello stato istintivo, o in ciò che ne resta. Con che si viene a dire che il modo proustiano di affidarsi alla sensazione impensata, non basta. Non basta perché la sensazione, sia pur bruta, in quanto ricordo è tutt’altro che immune da compiaciute coloriture di gusto; non basta perché il difficile non è risalire il passato bensí soffermarcisi; non basta infine perché noi intendiamo per stato istintivo quello stampo schietto che influisce sull’intera nostra realtà intima. E per ritrovare questo stato, più che sforzo mnemonico si richiede scavo nella realtà attuale, denudamento della propria essenza. Se avremo visto con chiarezza il nostro fondo, non potremo non aver toccato anche ciò che fummo fanciulli.

A questo punto dell’indagine il tempo dilegua. La nostra fanciullezza, la molla di ogni nostro stupore, è non ciò che fummo ma che siamo da sempre. La durata non tocca gli istanti interiori: altrimenti quel sussulto di gioia, che ci accoglie nel ricordo assoluto, riuscirebbe inspiegabile. Qui ricordare non è muoversi nel tempo, ma uscirne e sapere che siamo. L’infanzia a ripensarla suggerisce nostalgia non tristezze: di essa ci manca unicamente quella maggior facilità – la purezza iniziale – di vivere nell’essere genuino. Invece la malinconia del passato si svolge sul piano evidente dei giorni, si attacca alle parvenze; per essa il ricordo è tutto fatto di durate e concrescenze, di scoperte di gusto che come viticci c’impigliano agli altri, alle cose, alla storia.

Succede dunque questo fatto curioso: noi viviamo l’esser nostro più autentico quando ancora non sappiamo ammirare, cioè cogliere quel che ci accade. Le prime occhiate consapevoli le gettiamo su uno schema che ci viene dagli altri, dall’esterno; l’idea stessa di occhiata è qualcosa che accettiamo, che imitiamo dagli altri. Lo sforzo di passare di là dalla durata è ancora una norma che la durata c’insegna…


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

Roma, Palazzo Bonaparte: Ultimi giorni di apertura per la mostra JAGO. THE EXHIBITION

Curata da Maria Teresa Benedetti, l’esposizione JAGO. The Exhibition è prodotta e organizzata da Arthemisia con la collaborazione di Jago Art Studio.
L’evento è consigliato da Sky Arte.

Ultimi giorni di apertura per la mostra

JAGO
The exhibition

Fino al 28 agosto 2022 – Palazzo Bonaparte, Roma

Jago
Venere, 2018
Marmo, 70x70x193 cm
Photo by Jago
TESTO CRITICO DI VITTORIO SGARBI

Ultimi giorni di apertura per la mostra Jago. The exhibition.
Fino al 28 agosto a Palazzo Bonaparte di Roma è ancora possibile prendere parte a un’occasione unica per conoscere e apprezzare la genialità di JAGO, documentata per la prima volta in una mostra che riunisce una serie di opere realizzate fino ad oggi, dai sassi di fiume scolpiti (da Memoria di Sé a Excalibur), fino alle sculture monumentali di più recente realizzazione (come Figlio Velato e Pietà), passando per creazioni meno recenti ma più direttamente mediatiche quali il ritratto di Papa Benedetto XVI (Habemus Hominem).

Pseudonimo di Jacopo Cardillo, classe 1987, Jago è scultore potente attento agli esempi della nostra tradizione e universalmente noto come “The Social Artist” per le innate capacità comunicative e il grande successo che riscuote sui social.
Sicuro talento nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione, Jago arriva direttamente al cuore del pubblico che lo ama, anzi lo adora. Paragonabile in tal senso a una rockstar, trasmette l’amore per l’arte ai giovani: le dirette streaming e le documentazioni foto e video – attraverso le quali coinvolge il suo pubblico sul web – raccontano il processo inventivo di ogni opera e il percorso condiviso consente una diretta partecipazione dei suoi followers al singolo passaggio esecutivo.
Nelle sue opere, utilizza anche elementi tragici in un costante gioco di rimandi, con una visione sempre tesa alle tematiche del presente, suscitando provocatoriamente negli spettatori riflessioni sullo status dei nostri tempi.

L’ARTISTA

Jago
Photo by Dirk Vogel

JAGO è un artista italiano che opera nel campo della scultura, grafica e produzione video.
Nasce a Frosinone (Italia) nel 1987, dove ha frequentato il liceo artistico e poi il Accademia di Belle Arti (lasciata nel 2010).

Dal 2016, anno della sua prima mostra personale nella capitale italiana, ha vissuto e lavorato in Italia, Cina e America. È stato professore ospite al New York Academy of Art, dove ha tenuto una masterclass e diverse lezioni nel 2018. JAGO ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali quali: la Medaglia Pontificia (consegnatagli dal cardinale Ravasi in occasione del premio delle Pontificie Accademie nel 2010), il premio Gala de l’Art di Monte Carlo nel 2013, il premio Pio Catel nel 2015, il Premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e ha inoltre ricevuto l’investitura come Mastro della Pietra al MarmoMacc del 2017.

All’età di 24 anni, su presentazione della storica dell’arte Maria Teresa Benedetti, è stato selezionato dal prof. Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia, esponendo il busto in marmo di Papa Benedetto XVI (2009) che gli è valso la suddetta Medaglia Pontificia. Questa scultura giovanile è stata poi rielaborata nel 2016, prendendo il nome di “Habemus Hominem” e divenendo una

delle sue opere più significative. L’opera, che raffigura la spoliazione del Papa emerito da suoi paramenti, è stata esposta a Roma, nel 2018, presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese, con un numero record di visitatori (più di 3.500 durante la sola inaugurazione).
A seguito di un’esposizione all’Armory Show di Manhattan, JAGO si trasferisce a New York. Qui inizia la

realizzazione del “Figlio Velato”, opera ispirata al Cristo Velato del Sanmartino, esposta permanentemente all’interno della Cappella dei Bianchi nella Chiesa di San Severo fuori le mura. La ricerca artistica di JAGO occupa una complessa cornice concettuale che, tuttavia, fonda le sue radici nelle tecniche ereditate dai maestri del Rinascimento, tentando di instaurare un rapporto diretto con il pubblico mediante l’utilizzo dei video e dei social network, attraverso i quali condivide il processo produttivo delle sue opere.

Nel 2019, in occasione della missione Beyond dell’ESA (European Space Agency), JAGO è stato il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo sulla Stazione Spaziale Internazionale. L’opera, intitolata

“The First Baby” e raffigurante il feto di un bambino, è tornata sulla terra a febbraio 2020 sotto la custodia del capo missione, Luca Parmitano. Da maggio 2020 Jago risiede a Napoli, dove lavora nel suo studio nella Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi e dove, a inizio novembre, ha realizzato l’installazione “Look Down” in Piazza del Plebiscito, mentre il 1 ottobre 2021, installa l’opera “Pietà” nella Basilica di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo a Roma.


La mostra seguirà i seguenti orari:
Tutti i giorni dalle 11.00 alle 21.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)

Siti internet
www.mostrepalazzobonaparte.it
www.arthemisia.it

Social e Hashtag ufficiale
@arthemisiaarte
@jago.artist
#JagoBonaparte

Ufficio Stampa
Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
T. +39 06 69380306

23- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Stato di grazia

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Stato di grazia

I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo.

Ciascuno ha una ricchezza intima di figurazioni – normalmente si lasciano ridurre a pochi grandi motivi – le quali compongono il vivaio di ogni suo stupore. Se le ritrova innanzi, nei momenti più impensati dell’anno, suggerite da un incontro, da una distrazione, da un accenno; e ogni volta vi figge lo sguardo come si scruta il proprio viso allo specchio. Sono una realtà enigmatica e tuttavia familiare, tanto più prepotente in quanto sempre sul punto di rivelarsi e mai scoperta. Accade che vi si pensi ad arte, come a ricordi che sono, e ci si sforzi di risalirne il movimento, quasi che la loro origine ne racchiuda il segreto. Ma esse non hanno origine, è questo il punto. Al loro principio non c’è una «prima volta» ma sempre una «seconda». È qui la loro ambiguità: in quanto ricordo esse cominciano a esistere solo da una seconda volta, e nascondono il capo come un mitico Nilo.

Perché proprio quelle tali figurazioni, e non altre? Perché, con tante immagini che la realtà ci ha proposto in ciascuno dei giorni, ci tocca l’estasi della «seconda volta» davanti a certune, che non furono nemmeno le più insistenti? Evidentemente l’intensità di un’anteriore consuetudine con fatti e cose non basta a imprimer loro la natura del ricordo. La scelta avviene secondo motivi che si direbbero capriccio, se non fosse la divorante serietà di questi simboli la quale ci fa credere che in essi si condensi l’essenza stessa della nostra singola vita. Siamo qui, senza dubbio, sul piano dell’istintivo, se è l’istinto che ci fa essere ciò che siamo e perseverare nel senso delle nostre premesse vitali.

Che i nostri ricordi nascondano il capo, vuol dire appunto che attingono alla sfera dell’istintivo-irrazionale. In questa sfera – la sfera dell’essere e dell’estasi – non esiste il prima e il dopo, la seconda volta e la prima, perché non esiste il tempo. Ciò che in essa è, è: qui l’attimo equivale all’eterno, all’assoluto. Nel senso che abbiamo dell’essere nostro, nell’assunzione al ricordo, stupiti di ritrovarci in esso, non cogliamo più traccia del tempo. Qui ogni volta è una seconda volta, o diciamo un ritrovamento, soltanto perché profondandoci in essa ritroviamo noi stessi. È evidente che non può avere inizio il simbolo di una realtà – noi stessi – la quale per il nostro istinto non ha avuto mai inizio, ma è.

Essa è, secondo modi che non sempre o quasi mai siamo in grado di risalire e comprendere. Ne tocchiamo in istanti inaspettati la piena sostanza come al buio si tocca un corpo o come un barbaglio guizza alla luce: presentiamo, intuiamo che lí siamo noi, ma perché proprio quel contatto, quel lampo con la loro guisa inconfondibile, e non un altro, un’altra parvenza, senza che nulla abbiamo fatto per la scelta, non sappiamo. Sappiamo che in noi l’immagine inaspettata non ha avuto inizio: dunque la scelta è avvenuta di là dalla nostra coscienza, di là dai nostri giorni e concetti; essa si ripete ogni volta, sul piano dell’essere, per grazia, per ispirazione, per estasi insomma.

Questi simboli del nostro essere sono altro dall’«ideale di vita», che qualcuno potrebbe scorgervi. Tutti ci facciamo immagini, favole, di una vita quale ci piacerebbe condurre, e non sempre le proiettiamo sul futuro: sovente vagheggiamo esperienze trascorse, contentandoci appunto di vagheggiarle. Ma non bisogna scambiare questi commossi programmi d’attività, sia pure contemplativa, coi mitici simboli della nostra perenne, assoluta realtà. Ciò che ci permette di riconoscere questi ultimi è lo sforzo conoscitivo che c’impongono, la tensione delusa e sempre vivace di tutto il nostro essere per afferrarli, incapsularli, incorporarceli nel sangue e conoscerli finalmente. Poiché il loro balenare dall’inconscio alla luce significa l’inizio di un processo che si placherà soltanto quando li avremo tutti penetrati di luce; ed essi sfuggono, ricadono nell’indistinto cui appartengono con la parte più ricca di noi.

Del resto, sovente la loro materia è la stessa degli «ideali di vita», o meglio gli ideali si sono costituiti concrescendo a questi germi, a queste figure, che lievitando nel nostro spirito hanno prodotto i più vistosi organismi del sogno, dove affluirono elementi dell’esperienza quotidiana e riflessa. Qui ciascuno non ha che a scomporre i suoi più elaborati sogni di vita e, se sarà fortunato, gli resterà nel crogiolo, irriducibile e forse inatteso, qualcosa in cui potrà riconoscere la sua verità.

Questo qualcosa è sovente un nonnulla. So di un uomo che una semplice finestra di scala, spalancata sul cielo vuoto, mette in stato di grazia. Forse ci furono nella sua vita più finestre di scala che in un’altra? Perché di tutte le possibili figure d’infinito, scelse proprio questa? Ognuno è sensibile all’idea d’infinito, e già il Leopardi ne ha chiarito l’operazione, ma perché una finestra invece che una fuga di piante o il profilo di una balaustra sul mare? Comunque, l’accenno al Leopardi suggerisce un sospetto. Quanto, nel costituirsi di una di queste nostre scoperte-ricordo, gioca l’influsso della poesia, la scuola della lettura, dell’audizione, della contemplazione? Per quali di questi simboli andiamo debitori ai poeti che ce ne hanno scavata in cuore l’impronta?

È chiaro che il primo contatto con la realtà spirituale è un fatto di educazione, e cioè ogni singolo in tanto impara a conoscere le cose in quanto le ha già conosciute nel gusto. Ciò, s’intende nel senso più lato possibile: un contadino, una donnetta si saranno educati attraverso la canzone, l’aneddoto, la ricorrenza festiva del paese. Anche qui, comunque, ritorna il caso della «seconda volta»: noi ammiriamo della realtà soltanto ciò che abbiamo già una volta ammirato. Ma siccome ammirare significa esprimere entro se stessi, il paradosso è risolto accettando che la prima scoperta della realtà ci viene fatta attraverso le espressioni esemplari che di questa realtà si sono date intorno a noi. Con le quali espressioni si risale a quella volta unica – che può estendersi a più momenti assommati nell’esperienza – quando si formò entro di noi come il mito di ogni singola figurazione: a quel momento velato in favolosa intemporalità, quando ricevemmo l’impronta che doveva dominare il nostro avvenire secondo i modi appunto del mito. Così l’oscurità della «prima volta» sarebbe spiegabile per l’analogia che offre con la natura del mito preistorico: e «prima volta» sarebbe insomma, assolutamente, ciò che accade una volta per tutte.

Fin dove giunga quest’alunnato non è facile accertare, ma pare evidente che le scosse impresseci nell’anima dalle rivelazioni della poesia portano faticosamente alla luce, aiutando anche – perché no? – a rifoggiarla, la materia estatica che dormiva nel nostro fondo. Viene il momento che la destinata struttura del nostro essere vero – quell’essere che è il modo, lo stile nostro, di guardare – traspare e affiora, balena e scompare e ci tenta alla sua comprensione-espressione. Tutti allora siamo creatori, in quanto interpreti di noi e del mondo.

E per ciò diremo che i simboli, le scoperte-ricordo della nostra sostanza, sono bensí un fatto di gusto, ma di gusto attivo, sono la risposta del nostro istinto alle sollecitazioni della cultura. Può darsi che la scala-finestra fosse quella della scuola dove si sono passati i primi anni e frequentati, sia pure con insofferenza, i poeti, ma ciò che in essa contava e conta ancora è il cielo vuoto e immemoriale.

Non dunque privilegio di chi fa della poesia è questo tesoro di simboli, che pure a far poesia sono indispensabili, ma bagaglio sovranamente umano, necessario a serbare la coscienza di sé e insomma a vivere. Il contadino o la donnetta non ci dicono gran cosa, ma anch’essi parlano, e cioè trasmettono e creano la realtà. Sotto la parola vige anche per loro un’immobile eternità di segni che, se non li travaglia col suo enigma, li soddisfa però, inconsapevoli, nella loro realtà istintiva.

Ciò è tanto vero che di qualunque individuo, anche il più colto e creatore, si può sostenere che i simboli non si radicano tanto nei suoi incontri libreschi o accademici, quanto nelle mitiche e quasi elementari scoperte d’infanzia, nei contatti umilissimi e inconsapevoli con le realtà quotidiane e domestiche che l’hanno accolto al principio: non l’alta poesia ma la fiaba, il litigio, la preghiera, non la grande pittura ma l’almanacco e la stampa, non la scienza ma la superstizione. Qui tutti gli uomini sono consorti. Differente soltanto è il risalto che la vita interiore darà in avvenire a questi simboli: qualcuno sentirà ingigantirsi nell’anima il ricordo remoto sino a comprendervi cielo e terra, e se stesso.

Nulla quindi è salutare come, davanti a qualunque più alta costruzione fantastica, sforzarsi di penetrarla sfrondandone ogni rigoglio e isolandone i simboli essenziali. Sarà un discendere nella tenebra feconda delle origini dove ci accoglie l’universale umano, e lo sforzo per rischiararne un’incarnazione non mancherà di una sua faticosa dolcezza. Si tratta di cogliere nella sua estasi, nel suo eterno, un altro spirito. Si tratta di respirarne un istante l’atmosfera rarefatta e vitale, e confortarci alla magnifica certezza che nulla la differenzia da quella che stagna nell’anima nostra o del contadino più umile.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

Museo Arte Orientale di Venezia: VIVACI TRASPARENZE

VIVACI TRASPARENZE 
Ceramiche di Yaozhou dalla collezione Shang Shan Tang 

A cura di Sabrina Rastelli 

07.09>23.10.2022

MAOV Museo di Arte Orientale di Venezia
Ca’ Pesaro, S.Croce 2076, Venezia 

Chicago cat. No. 10
Coppia di tazze con motivo di tartaruga e di loto
Grès con invetriatura verde-azzurra
Fornaci di Yaozhou
Periodo delle Cinque Dinastie (907-960) o Song Settentrionale (960-1127)
D. 11.5 cm
Collezione Shang Shan Tang
Chicago cat. No. 12
Brocca con motivo di peonie
Grès con invetriatura verde-azzurra
Fornaci di Yaozhou
Periodo delle Cinque Dinastie (907-960) o Song Settentrionale (960-1127)
H. 21 cm
Collezione Shang Shan Tang

Vivaci Trasparenze: ceramiche di Yaozhou dalla collezione Shang Shan Tang è una mostra di ceramiche interamente dedicata alle manifatture delle antiche fornaci di Yaozhou, situate nella Cina settentrionale. 

Attive dall’VIII al XIII secolo, queste fornaci sono celebri soprattutto per la loro produzione dei secoli XI e XII, caratterizzata dalla presenza di vivaci motivi decorativi intagliati o impressi sotto un’invetriatura trasparente di colore verde oliva che va sotto il nome generico di celadon in Occidente e di ceramica verde-azzurra qingci in cinese (gres con invetriatura verde-azzurra).  La parabola storica dellemanifatture di Yaozhou, è sorprendente da qualunque prospettiva la si osservi: tecnologica, archeologica e testuale. Da opificio periferico con una produzione modesta nella fase iniziale, prima della metà del X secolo i suoi celadon erano già inclusi nel sistema di tributo imperiale e nell’XI secolo divenne il centro più influente dell’impero per i qingci  che ricordano la giada, il materiale simbolo della Cina, che nel 1084 gli valsero addirittura il permesso del governo di erigere la prima stele dedicata alla divinità della ceramica.

Le 96 opere in esposizione provengono tutte da una collezione privata straniera, la上善堂 Shang Shan Tang, alla lettera “Sala del sommo bene”, che include una delle raccolte di ceramiche di Yaozhou più complete al mondo, illustrando lo sviluppo della manifattura con esemplari di eccellente qualità.

Questo progetto rinnova la collaborazione tra l’Università Ca’ Foscari Venezia, con il suo Dipartimento di Studi sull’Asia e Africa Mediterranea, e Museo d’Arte Orientale della Direzione regionale Musei Veneto per la realizzazione di eventi di elevato profilo scientifico e insieme divulgativo, in una sinergia di intenti utile e necessaria per la diffusione della conoscenza delle culture extraeuropee.

  • Una delle collezioni più completa al mondo di ceramiche di Yaozhou
  • Un progetto artistico e scientifico di rilievo nato dalla collaborazione dell’Università Ca’ Foscari con il MAOV facente parte della Direzione Musei del Ministero della Cultura, che evidenzia l’importanza del ruolo delle fornaci di Yaozhou nella storia della ceramica cinese.
  • Un’occasione per riscoprire il fascino della collezione del Museo di Arte orientale di Venezia

SCHEDA INFORMATIVA

VIVACI TRASPARENZE
Ceramiche di Yaozhou dalla Collezione Shang Shan Tang
07.09.2022 > 23.10.2022

INAUGURAZIONE
dalle ore 17 alle ore 19 con presentazione e visita alla sala espositiva. Entrata libera

A CURA DI
Prof. Sabrina Rastelli Phd
Professore ordinario di Archeologia e Storia delle Arti e filosofia dell’Asia orientale presso l’Università Ca’ Foscari Venezia
Curriculum Vitae

DOVE
MAOV Museo d’Arte Orientale di Venezia
Ca’ Pesaro, Sestiere di Santa Croce n. 2076, Venezia

ORARI DI VISITA
Dal martedì alla domenica
10.00 > 18.00  La mostra è compresa nel ticket d’ingresso al Museo

ORGANIZZAZIONE
Fondazione Università Ca’ Foscari – MAOV Museo d’Arte Orientale di Venezia

UFFICIO STAMPA
FG Comunicazione – Venezia 
Cristina Gatti 
cristina.gatti@fg-comunicazione.it

Per ulteriori informazioni

Università Ca’ Foscari Venezia
Ufficio Comunicazione e Promozione di Ateneo
Settore Relazioni con i media
Paola Vescovi (Direttrice): Tel. 366 6279602
Federica Ferrarin (Referente di settore): Tel 366 6297904
Enrico Costa (Senior Media Relations Officer): Tel. 337 1050858
Email: comunica@unive.it
Le news di Ca’ Foscari: news.unive.it

Direzione regionale Musei Veneto – Museo di Arte Orientale di Venezia
Ufficio Comunicazione Direzione
Vincenza Lasala
0412967627
vincenza.lasala@cultura.gov.it

Direzione Museo
Dott.ssa Marta Boscolo Marchi
0412967628 – 0415241173
marta.boscolo@cultura.gov.it

22- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Del mito, del simbolo e d’altro

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Del mito, del simbolo e d’altro

Una piana in mezzo a colline, fatta di prati e alberi a quinte successive e attraversate da larghe radure, nella mattina di settembre, quando un po’ di foschia le spicca da terra, t’interessa per l’evidente carattere di luogo sacro che dovette assumere in passato. Nelle radure, feste fiori sacrifici sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Là, sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare il dio. Ora, carattere, non dico della poesia, ma della fiaba mitica è la consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Così sono nati i santuari. Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico.

Ma il parallelo dell’infanzia chiarisce subito come il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico. Neanche nella memoria dell’infanzia il prato, la selva, la spiaggia sono oggetti reali fra i tanti, ma bensí il prato, la spiaggia come ci si rivelarono in assoluto e diedero forma alla nostra immagine. (Che poi queste forme primordiali si siano ancora arricchite dei sedimenti successivi del ricordo, vale come ricchezza poetica ed è altra cosa dal loro significato originario).

Quest’unicità del luogo è parte, del resto, di quella generale unicità del gesto e dell’evento, assoluti e quindi simbolici, che costituisce l’agire mitico. Una definizione non retorica di questo sarebbe: fare una cosa una volta per tutte, che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo, in grazia appunto alla sua fissità non piú realistica. Nella realtà naturale nessun gesto e nessun luogo vale piú di un altro. Nell’agire mitico (simbolico) è invece tutta una gerarchia.

L’impresa dell’eroe mitico non è tale perché disseminata di casi soprannaturali o fratture della normalità (queste anzi suppongono, nel credente, la consapevolezza di una normalità, ciò che non è gran che propizio al concepire mitico); bensí perché essa attinge un valore assoluto di norma immobile che, proprio perché immobile, si rivela perennemente interpretabile ex novo, polivalente, simbolica insomma. Devi guardarti dal confondere il mito con le redazioni poetiche che ne sono state fatte o se ne vanno facendo; esso precede, non è, l’espressione che gli si dà; nel suo caso si può ben parlare di un contenuto distinto dalla forma (seppure di una forma, anche sommaria, non possa mai fare a meno); e prova ciò il fatto che il vero mito non muta valore, lo si esprima a parole, a segni, o a mimica. Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo. Un uomo apparso un giorno, chi sa quando, sulle tue colline, che avesse chiesto dei salici e intrecciato un cavagno e poi fosse sparito, sarebbe il genuino e piú semplice eroe incivilitore. Mitica sarebbe questa rivelazione di un’arte, quando quel gesto fosse, beninteso, di un’unicità assoluta, non avesse presente e non avesse passato, ma assurgesse a una sacrale eternità che fosse paradigma a ogni intrecciatore di salici. E un’aia tra tutte, dov’egli si fosse seduto, sarebbe santuario; ma questa appare già una concezione posteriore, piú materialistica, nel senso di naturalistica. Genuinamente mitico è un evento che come fuori del tempo Così si compie fuori dello spazio. L’aia del mio eroe dev’essere tutte le aie: e su ognuna di esse il credente assiste al ricelebrarsi della rivelazione. L’unicità materiale del luogo (il santuario) è una concessione alla matter-of-factness del credente ma soprattutto alla sua fantasia sempre bisognosa di espressione corposa, sempre piú poetica che mitica. Del resto, dire per esempio Olimpo era dire, in un certo momento della preistoria greca, qualcosa come montagna, come tutte le montagne. Allo stesso modo che Ercole era ogni eroe di villaggio che tornasse dall’avventura, ciascun mito trovando la sua espressione s’incarnava in determinazioni culturali e geografiche che variavano coi luoghi.

Bisogna tener fermo a questa febbre d’unicità da cui trasuda il mito. È qui un nòcciolo senz’altro religioso. La vita si popola e arricchisce di eventi insostituibili che, appunto perché accaduti una volta per tutte e sovrastanti alle leggi del mondo sublunare, valgono come moduli supremi della realtà, come suo contenuto, significato e midollo, e tutte le vicende quotidiane acquistano senso e valore in quanto ne sono la ripetizione o il riflesso. Un mito è sempre simbolico; per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere nelle piú diverse e molteplici fioriture. Esso è un evento unico, assoluto; un concentrato di potenza vitale da altre sfere che non la nostra quotidiana, e come tale versa un’aura di miracolo in tutto ciò che lo presuppone e gli somiglia. Altra definizione non si può dare del simbolo se non che anch’esso è un oggetto, una qualità, un evento che un valore unico, assoluto, strappa alla causalità naturalistica e isola in mezzo alla realtà. Il piú semplice dei simboli, un fazzoletto che l’innamorato ha avuto in dono dalla bella, è tale in quanto ha acquistato un valore assoluto che lo carica di significati molteplici, e questi durano finché dura l’esaltazione amorosa.

Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico. Ciò s’accompagna all’altro noto fatto che nessun bambino sa nulla del «paradiso infantile» in cui a suo tempo l’uomo adulto s’accorgerà di esser vissuto. La ragione è che negli anni mitici il bambino ha assai di meglio da fare che dare un nome al suo stato. Gli tocca vivere questo stato e conoscere il mondo. Ora, da bambini il mondo s’impara a conoscerlo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a quel tempo la fantasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione. (Che l’infanzia sia poetica, è soltanto una fantasia dell’età matura). Ma questo simbolo, nella sua assolutezza, solleva alla sua atmosfera la cosa significata, che col tempo diviene nostra forma immaginativa assoluta. Tale la mitopeia infantile, e in essa si conferma che le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. Poiché, rigorosamente, non esiste un «veder le cose la prima volta»: quella che conta è sempre una seconda.

Il concepire mitico dell’infanzia è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose, per cui queste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva. Così ognuno di noi possiede una mitologia personale (fievole eco di quell’altra) che dà valore, un valore assoluto, al suo mondo piú remoto, e gli riveste povere cose del passato con un ambiguo e seducente lucore dove pare, come in un simbolo, riassumersi il senso di tutta la vita. A questo «temps retrouvé» non manca del mito genuino nemmeno la ripetibilità, la facoltà cioè di reincarnarsi in ripetizioni, che appaiono e sono creazioni ex novo, Così come la festa ricelebra il mito e insieme lo instaura come se ogni volta fosse la prima.

La poesia è altra cosa. In essa si sa d’inventare, ciò che non accade nel concepire mitico. La ragione perché la poesia può nascere sempre e dovunque e invece ogni popolo finisce per uscire dal suo stadio mitologico, è che per trasformare in fede l’invenzione non basta volere. L’ingenuità della barbarie per cui la fantasia è conoscenza oggettiva, non ritorna, una volta violata. Il miracolo dell’infanzia è presto sommerso nella conoscenza del reale e permane soltanto come inconsapevole forma del nostro fantasticare, continuamente disfatta dalla coscienza che ne prendiamo. La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti. Ma non si può fare che in essi non sia il foco vitale, la ratio ultima perché inconsapevole, della vita interiore. Il tonico potente che se ne assorbe, l’unica e sola ispirazione degna di questo nome abusato, ne è prova. Soltanto, non bisogna vietarsi esteticamente lo sforzo piú assiduo per ridurli a chiarezza, cioè distruggerli. Soltanto ciò che ne rimarrà dopo questo sforzo (e qualcosa non può non rimaner sempre, se è vero che lo spirito è inesauribile), potrà valere come fonte di vita.

La poesia cerca sovente di rinverginarsi, ricorrendo al simbolismo, alle memorie dell’infanzia e anche ai miti. Confessa di sentire in queste forme spirituali un’alta tensione immaginativa che le fa gola, e s’illude che per derivare questa tensione nel suo campo basti un atto della volontà. Ricalca le forme del mito e del simbolo, sperando che in esse torni a battere magicamente il cuore. Ma dimentica che essa sa d’inventare, e che il mito vive invece di fede.

Nelle formule prese a prestito dorme un assoluto che, soltanto se accolto come rivelazione vitale prima che poetica, può ridestarsi. Tuttavia accade talvolta che intorno allo scheletro vecchio cresca e fiorisca una nuova carne che è tutt’altro da quello che il creatore s’attendeva e sapeva. Non si parla qui della poesia, che è sempre possibile, specie quando la si vuole, e in definitiva dipende soltanto dalla pazienza e dall’occhio netto. Ma di quell’immagine o ispirazione centrale, formalmente inconfondibile, cui la fantasia di ciascun creatore tende inconsciamente a tornare e che piú lo scalda con la sua onnipresenza misteriosa. Mitica è quest’immagine in quanto il creatore vi torna sempre come a qualcosa di unico, che simboleggia tutta la sua esperienza. Essa è il foco centrale non soltanto della sua poesia ma di tutta la sua vita. Quanto piú essa è capace e robusta, tanto piú ampia e vitale è la poesia che ne sgorga. Ma, inutile dire, non appena il creatore se n’è reso conto criticamente e continua a sfruttarla, la poesia si spegne.

Quest’ispirazione affonda le radici nel passato piú remoto dell’individuo e traduce la quintessenza della sua scoperta delle cose. A volte, attraverso gli schemi ch’egli s’illude di riesumare, trapela in brevi immagini marginali, quasi casuali; piú sovente s’incarna in situazioni assorbenti, poderose e monotone, che qualunque sia il tema della favola scoppiano sempre uguali a se stesse e ne dànno il senso vero. Di esse il creatore non saprebbe dir altro se non che sono il suo mito, il suo evento unico, che ogni volta ha un carattere di rivelazione inaudita come per il credente una festa rituale. Dentro di sé le contempla, quando giunge a vederle, come si contemplarono un tempo i dolori di Dioniso o la trasfigurazione di Cristo. Esse sono misteri, nel senso religioso piú genuino.

Hai descritto Così quella che Baudelaire chiama l’«extase». La spontaneità dell’ispirato che è tutt’altro dai «subtils complots» del poeta. Per battezzare le cose occorre l’ingenuità della fede, e ogni battesimo è un miracolo come nel culto. Qui davvero si è ispirati, poiché davanti all’assoluto, a ciò che è unico, ci si raccoglie e insieme abbandona, e soltanto tempre straordinarie di creatori riescono a conservare sotto questa tensione religiosa la prontezza e l’agilità del mestiere poetico. Quasi sempre è proprio l’ispirazione – questa ispirazione – che deteriora la poesia, la diluisce, la spreca. Quel tanto di disciplina formale che si possedeva, crolla sotto l’indeterminato del sentimento incontenibile. Sono rari i creatori che sanno far coincidere la profonda esigenza formale implicita nell’impronta del loro piú remoto contatto col mondo e i mezzi espressivi forniti a tutta una generazione dalla cultura. È loro compito un compromesso, un parziale tradimento dell’ingenuità, un tentativo di vedere, nel gorgo del mito che li afferra, il piú nitidamente possibile ma soltanto fino al punto che la bella favola non si dissolva in naturalità. Per questo accade che taluni si salvino facendo altro da ciò che attendevano e sapevano. Ma i piú forti, i piú diabolicamente devoti e consapevoli, fanno ciò che vogliono, sfondano il mito e insieme lo preservano ridotto a chiarezza. È questo il loro modo di collaborare all’unicità del miracolo.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

21- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Le feste

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Le feste

Pino non s’era mai levato di mente il cavallo di Ganola e qualche volta me ne parlava. Una sera che tornavamo da Pozzengo fece per prendere la stradetta e a me che lo guardo dice: — Torno stanotte —. Tornò infatti l’indomani a prima luce e passò dal fienile. Quel giorno in campagna gli dissi: — Va’ a dormire nelle canne, – e lui stava seduto e rideva. – Almeno lavora —, ma Pino guardava la collina e disse: — Girerei tutto il giorno, se quel cavallo fosse mio —. Io pensai che un cavallo non era una vigna, ma non si può ragionare con un fratello che invece che alle ragazze parla ai cavalli. Dissi invece: — Non dormono i cavalli di notte? — E Pino, sempre con quell’aria incantata: — Ho girato, sono andato alle Rocche.

Nel vallone di Ganola mi toccava passarci ogni tanto, perché salva il giro di mezza collina. Alla cascina sopra il bosco, cintata di canne vive, era un pezzo che non salivo, da quando l’ultima figlia di Ganola se n’era andata per il mondo. Adesso si passava là sotto, e mai che intorno si muovesse una voce o qualcuno. Le colture erano mezzo in selvatico; il vecchio Ganola aveva abbandonato la vigna e dicevano che tutto il resto fosse a prato. Terra buona com’era, si aspettava soltanto che Ganola morisse. Ma i vecchi non muoiono. Quando Pino era piccolo, ci venivamo a spannocchiare: allora c’erano le ragazze, c’era Bruno, si stava allegri le giornate intiere. La cascina era dei giovani; Ganola già vecchio andava a caccia e lo sentivamo sparare di là dai coltivi, nei boschi sulle Rocche. Allora mettevamo insieme le capre e si saliva sui prati di punta; veniva sera che ancora non ne avevamo abbastanza e tornavamo rotolandoci e gridando fin sulla strada. Ganola già allora ci faceva paura e comandava tutti con gli occhi; ma se aveva ammazzato bene si metteva a ridere e ci lasciava toccare gli uccelli insanguinati che portava a tracolla. Per darli alle donne li staccava e li buttava in terra, e bisognava vedere il cane che in due non si riusciva a tenerlo. Io a casa dicevo che avrei voluto andare a caccia, ma piú acceso di me era Pino che non si staccava da quel cortile se non m’incamminavo minacciando di lasciarlo tornar solo. Poi venne l’età che non avemmo piú paura a girare di notte, e allora con Bruno andavo a ballare e chi pensava piú alla caccia; ma Bruno bisognava sentirlo quando diceva novità ai forestieri per attaccar lite. Qui era tutto suo padre, e nell’estate che girammo insieme per queste feste, venni a sapere che Ganola da giovane era peggio di noi perché allora nessuno li teneva e portavano in tasca il coltello. Molto presto lasciai Bruno andare solo, perché gli piaceva da una festa passare in un’altra traversando giorno e notte per fare a tempo, e cercar da mangiare nelle case come un ladro. Con lui non si sapeva, partendo, fin dove si sarebbe arrivati.

Bruno montava già in quell’anno. Alla festa di Popolo la cavalla s’era fatta ingravidare da qualche demonio del circo mentre, staccata dal biroccino, mangiava l’erba dietro al baraccone, e aveva figliato un rosso pezzato che Ganola disse subito: — Questo lo facciamo correre —. Bruno s’impratichí con la vecchia su e giú per il prato di cresta, e quando fu tempo montò il cavallino. Saranno cinque anni fa. Noialtri, specialmente Pino, eravamo frenetici, tutto il giorno sulla strada per vederlo passare, ma qui c’era di mezzo Ganola che accompagnava Bruno nel prato e ci diceva che non voleva spie. Certi giorni invece, quando Bruno arrivava tempestando chino sulla criniera, Ganola gridava anche a me di guardare, di acchiappare quel vento.

Pino allora era un maschiotto che nessuno gli faceva caso. Poi c’erano i giorni che il cavallo non voleva saperne e allora su quel cortile si trattavano a calci e strapponi e non bastava la forza di Bruno a domarlo. Le ragazze scappavano. Ganola s’imbestialiva e dava lui di mano al morso, e il cavallo saltava e menava la coda, e neanche Pino gli restava intorno. Nostro padre diceva che avrebbero fatto meglio a legarlo all’aratro e che a non lavorare anche le bestie si guastano.

In quella casa erano a posto soltanto le donne; pareva che sapessero come andava a finire. Pino adesso non vuol ricordarsene, ma da bambini lui e Carmina si parlavano. E Carmina morí proprio quell’autunno dopo che Bruno fece la corsa. Era già in letto alla Madonna di settembre e sua sorella per stare a vegliarla non venne alla festa; quando i suoi tornarono cantando e gridando, dicono che dalla stanchezza lei voltò la faccia al muro e piangeva, povera ragazza.

Venne anche Pino, si capisce: era la prima festa fuori paese che nostro padre gli lasciava vedere; e per tutto quel giorno non si staccò né da Bruno né dalla stalla del parroco dove avevano chiuso i cavalli: ballare non ballava ancora. Io li andai a cercare verso sera. Bruno era già sul prato da due giorni e maneggiava, vestito con gli stivali e il fazzoletto al collo, e Ganola sorvegliava il cavallo. Avevano fatto al mattino una corsa di prova ch’era andata male, e adesso si chiusero insieme nella stalla e Ganola era cattivo in faccia: voleva che uscissimo tutti, io mi fermai contro una scala. Anche Pino guardava. Allora Ganola stappò una bottiglia di vino buono, riempí una scodella e la ficcò sotto la lingua del cavallo che si scrollava. Il cavallo bevve tutto. Poi si fecero indietro, e Ganola, dato mano alla frusta, gli menò sui garetti e sull’osso del culo tre o quattro botte del manico, che lo fecero scattare come una biscia. Prese subito un’aria slanciata, da gatto: si capiva che il vino gli era arrivato dappertutto. Ganola ghignava. — Non ne avresti bisogno, — gli disse. E allora il cavallo si drizzò ringhiando. Faceva paura.

La corsa la vinsero loro. Mi ricordo la sera su quel prato, dopo che la gente si era dispersa, e veniva il fresco della luna, i baracconi al fondo accendevano l’acetilene, e il ballo aveva smesso di suonare. Trovo Pino dietro una pianta, solo, che piangeva e non voleva farsene accorgere. — Va’, – gli dico, – cerca qualcuno, parla con le ragazze —. Allora credevo che pensasse a Carmina. Macché, piangeva dalla rabbia di non essere un cavallo anche lui. — Restiamo con Bruno, — diceva. L’aveva già preso la malattia di girare di notte, e mica per ballare o divertirsi, ma per fare da solo il mattino e ritrovarsi il giorno dopo chi sa dove. Quella notte cenammo dal parroco, una tavola di gente: Ganola beffeggiava i padroni degli altri cavalli e tutti lo lodavano, e lodavano Bruno che mangiava gobbo sul piatto come se fosse ancora in corsa, e io pensavo che aveva l’età di Pino. Dalla finestra della stanza entrava la musica e il baccano della gente. Noi parlavamo delle corse degli anni passati e di quelle da farsi. Fu una bella notte. La luna durò fino a casa.

Quella notte Ganola non sapeva il suo destino. Carmina morí verso i Santi, e nell’inverno la madre le andò dietro dalla disperazione. Non mangiava piú da un pezzo. — Donne, — disse Ganola, tornando dal funerale. L’altra figlia, Linda, ch’era sempre stata piú fiera e teneva le parti della vecchia, si mise a urtare i due uomini tutte le volte che poteva. Facevano voci che si sentivano dalla strada. Non so Pino, ma da allora io ci andai piú di rado. Quell’autunno Ganola non lavorò neanche mezze le terre. Andava a caccia con Bruno e pensavano soltanto al cavallo. Ogni tanto prendevano il treno per andare a comprargli qualcosa. Poi comperarono gli sproni.

Dicono che quel giorno Bruno non voleva metterli, perché il cavallo era tranquillo. Ma Ganola ridendo: — Meglio che impari e sappia subito —. Gli tenne il morso fin che Bruno fu salito, poi gli diede l’abbrivo. Si vide uno scarto e il cavallo drizzarsi come una biscia, poi saltarono in aria e Bruno volò nel cortile. Restò là come un sacco. Se il cavallo non si ficcava come un matto nel portico che aveva davanti, Ganola non lo avrebbe acchiappato mai piú.

Cosí Bruno era morto, e Linda adesso voleva ammazzare il cavallo. Ganola in quei giorni, dicono che tralasciava ogni tanto di accendere il fuoco o parlare col prete o chiudere la stalla, per picchiarla come si picchia il grano. S’era fatto strabico, una barba come la stoppia, i calzoni sbottonati, e da quel giorno né alla barba né ai calzoni non ci pensò piú. Finché Linda scappò di casa.

Storie vecchie. Da allora io, potendo, giravo alla larga. Anche Pino, mancandogli Bruno, s’andò a mettere per altre colline. L’anno dopo dicevano che parlava a una ragazza del Ponte. Nell’estate, alle feste ci andò per conto suo e tornavamo qualche volta insieme, ma piú sovente lui spariva e si metteva per lo stradone e ritornava l’indomani. Non sembravamo neanche fratelli. Di Ganola me n’ero dimenticato. Ne parlava qualche volta nostro padre. Contò che uno di Odalengo era andato nell’inverno per comprare la riva di bosco che aveva sopra il vallone, e non era neanche riuscito a entrare in discorso. Ganola l’aveva tenuto sulla porta come un vagabondo e congedato in due parole, senza posare un secchio che portava nella stalla. Da quando Linda se n’era andata, non si muoveva quasi piú di casa: per paura che gli rubassero il cavallo, sembra, ma, diceva la gente, perché sapeva di dover morire. So che Pino in quell’anno e negli altri l’aiutò a vendere e comprare roba e qualche volta gli tagliava il fieno. Pino diceva per esempio che le belle giornate Ganola staccava il cavallo, e lo montava come poteva e girava su e giú per la collina. Sul mezzogiorno poi, quando il sole spaccava e tutti mangiavano, se ne andava di cresta in cresta anche lontano. Tanto che, sul lavoro, se era l’ora bruciata, Pino guardava la collina e diceva: — Il cavallo passeggia.

Un giorno m’era toccato andare da Ganola a cercare una botte che gli avevamo imprestato in altri tempi. Non so perché non ci andasse Pino, ma insomma attaccai la vacca e andai io. Era una sera di nebbia e salendo quella strada mi ricordavo di quando venivamo con le capre e c’era Bruno, c’era Carmina, e Ganola tornava con gli uccelli, noi con le castagne, e Linda senza parlare ci portava la fascina, e mettevamo la padella al fuoco. Proprio a quell’ora, perché la nebbia poi tappava strade e boschi e bisognava essere a casa. Mi fermai nel cortile e cercai nello stanzone già scuro. Non c’era nessuno, e cosí nella stalla. Invece di chiamare, mi sedetti alla porta, e guardavo la nebbia.

Ganola arrivò poco dopo, tirandosi a mano il cavallo. Spuntò dalla nebbia prima il collo e la testa di quel demonio, che non era bardato e sollevava in su la mano di Ganola stretta al morso. In quattr’anni era cresciuto come un platano; di pelo sembrava le foglie dei platani che cadono rosse: quando fu tutto nel cortile si vide che Ganola si era fatto piú piccolo, curvo, e lui lo dominava di una testa. Con Ganola parlammo come ci fossimo veduti il giorno prima. Nella stalla dove condusse il cavallo era tutto vuoto, neanche una capra. Lo legò alla sua stanga, gli gettò il fieno e, prima di uscire, gli batté la mano sul collo. Mentre portavamo la botte al carro non disse tre parole. Sputava soltanto, nella barba.

Quando gliela raccontai, Pino mi disse che in quei giorni Ganola lavorava la coltura sotto il pozzo, perché quell’anno voleva seminare. — Se non fosse che è vecchio, si dovrebbe sposare un’altra volta, – dissi; – cosa fa, solo, giorno e notte? — La compagnia non gli manca, – disse Pino. – E tu ce l’hai la compagnia? — chiesi ridendo. Pino scrollò la testa.

Pino adesso lavorava con me, e nostro padre era contento. Ma c’erano i giorni che tornava dallo stradone, e allora era a me che toccava aprir l’occhio e aspettarmi un bel momento qualche novità. La sentivo venire. Finché una sera, a tavola, Pino dice che è stufo di zappare la terra e vuole andare a lavorare alle Cave: è un lavoro anche questo e nel mondo bisogna cambiare. Nostro padre lo guarda. Io sto zitto perché sapevo che, quando Pino ha una cosa in mente, non gliela leva nessuno. Ma Pino diceva le Cave per dire: non piace a nessuno chiudersi sotto terra per il gusto di starci. Quel che voleva era girare, vedere qualcosa. — Ci andrai quest’inverno, – rispose mio padre, – imparerai quel che vuol dire.

Pino lasciò le Cave in primavera: ne aveva abbastanza. Tornò, magro come un chiodo, con un vagabondo di Pozzengo, uno zoppo dalla cacciatora strappata che aveva conosciuto alle Cave, e dormirono qualche notte sul nostro fienile. Parlavano poco e giravano insieme sulla strada. Non mi piaceva quel tipo, ma mio padre lo prese in burla e lui se ne andò. Pino stette tranquillo.

Piú nessuno adesso diceva di quella ragazza del Ponte: io credo non ci fosse mai stata. La gente incontrava Pino sulla strada della stazione, dove lui aveva dei soci delle Cave e la domenica si chiudevano nelle osterie. Poi guardavano il treno arrivare e si conoscevano coi ferrovieri e sapevano quel che era successo fino a Genova. Mai una volta che attaccassero una lite su un ballo per le ragazze di casa o che assaggiassero il vino nuovo in un cortile. Erano un’altra razza. Di quelli come noi ridevano.

Venne cosí l’estate passata, e cominciando le feste, Pino non lo tenne piú nessuno. Stavolta s’era messo con un tale magrolino, che girava per le fiere a far scommesse. Ma denari Pino non ne aveva gran che: solo quei pochi per fumare e pagarsi la festa. Questo tale era piú furbo di quell’altro di Pozzengo; a non sapere del mestiere che faceva, bisognava dargli credito, tanto incantava di parole. Era stato per il mondo, ma sapeva dar risposta anche intorno alla campagna. Era bassotto, gambe storte, coi capelli profumati. Si chiamava Roia.

Parlava di tutto e diceva che Pino non sapeva la sua fortuna di esser nato agricoltore. Diceva che meglio di noi non sta nessuno. — Tu però la campagna la lavori in piazza, — disse Pino. Con Roia scherzava. — Si capisce, – ribatteva. – Ci vuole l’uno e l’altro —. Era sveglio, ma a me non piaceva.

Son sicuro che Pino gli parlò di Ganola fin dalla prima volta, perché quel giorno nel cortile Roia guardava la collina delle canne e mi chiese chi ci stava lassú. — Ci sta un uomo e una bestia, — dissi, e lui a ridere piano, come chi sa già tutto.

Lo vedemmo qualche volta per la festa di Odalengo, e Pino lo invitò in mia presenza a venire da noi la Madonna d’agosto. Presi Pino da solo e gli chiesi se era matto a portarci in casa quel tipo. — Che cos’ha? – chiese lui mezzo ridendo. — Hai provato a dirlo al Pa’? – gli feci. – Dillo al Pa’ e te ne accorgi —. Pino mi guardò cattivo e stette fuori un’altra notte.

Avevamo appena battuto il grano, che venne un temporale di Dio: spianò mezza la vigna e portò via certe piante come fossero fascine. Esce Pino dal portico e dice: — Vado fino alla stazione. — Come? – fa nostro padre incarognito, – e la vigna? — La vigna è bell’e andata, – dice Pino, – sono stufo di lavorare per niente —. Io dissi ch’era sera e che tanto valeva aspettare l’indomani; nostro padre entrò in casa ad asciugarsi le scarpe, ma s’era capito che Pino l’aveva ripreso l’idea delle Cave. Soltanto che stavolta non parlava piú di Cave.

Venne agosto e, tra il soffoco di giorno e la luna di notte, chi pensava piú a lavorare. Quest’anno il comune ci aveva promesso i fuochi, e sembravano ragazzi anche i vecchi. Si diceva che i fuochi portano il bel tempo. Io non so, ma se fosse vero li terrebbero pronti tutte le volte che tuona. — Sarete contenti, – dico in casa, – qual è il paese che quest’anno fa i fuochi? — Non ci manca che la corsa di Ganola, – borbotta nostro padre. – Matti —. Pino stava zitto; finiva il piatto e se ne andava in campagna.

Viene quella sera e la passai in piazza a guardare la festa. Non s’era mai visto tanta gente. Erano scesi da tutte queste colline, dalle Rocche, di là dai boschi; neanche i cani mancavano. C’erano tutti i baracconi. Vidi anche Roia, che teneva un banchetto di dadi. Lo lasciai coi suoi trucchi e me ne andai sul ballo.

Quando fu notte, accesero i fuochi. Sul piú bello vedo a un riverbero le facce di tre o quattro della stazione che guardano in su, ma niente Pino. Penso «Dove sarà?» ma poi torno a guardare e sentire le botte.

Ce ne fu per mezz’ora, e appena finito ripigliano i balli. Tornai a casa intronato, fischiando come un passerotto, e dormire non si poteva perché sulla strada era un passare continuo di ubriachi, di carri, di gente che cantava. Pino non c’era ancora, al solito.

Allora mi misi sullo scalino a fumare, e guardavo le stelle che sembravano un’aia di grano. Poso l’occhio sulla collina di Ganola e vedo luce alla finestra. «To’, fa festa anche lui», penso ridendo. Ma poi la luce traballava; era rossa. Allora capii che bruciava e salto in piedi.

Era già quasi mattino, e il passaggio sulla strada cessato. Andai di corsa fino al giro, non pensando che ero solo, perché credevo che molti avessero veduto la fiamma e corressero là. Ma via via che salivo il vallone, mi prendeva paura. Alle canne mi fermo e riaccendo la cicca. Sento allora la voce di Pino che mi chiama per nome. Mi prende il braccio e dice: — Non andare, non andare.

Parlava tremando, come un ragazzo. — Cosa c’è? — Roia ha ucciso Ganola e il cavallo è scappato.

Disse ch’erano andati per comprare il cavallo. Il giorno prima, si capisce. Roia era andato con lui per vedere il cavallo e comprarlo. Dovevano vivere insieme e girare i paesi. Ganola li aveva condotti nella stalla, ma testardo diceva che prima di venderlo l’avrebbe ammazzato. Tornando a casa Roia aveva detto che i vecchi son tutti cosí ma un rosso piú bello non l’aveva mai visto. E poi stanotte eran tornati perché Roia diceva che ci vuole costanza. E che prima di svegliare il vecchio, erano entrati nella stalla. Ma mentre il cavallo sbuffava, Ganola era arrivato in camicia. Roia gli aveva detto qualcosa ridendo, poi, volandogli addosso, l’aveva ammazzato.

Scannato. Poi aveva staccato il cavallo, e gridava a Pino di aiutarlo; lui diceva soltanto: «volevamo comprarlo, perché l’hai ammazzato?» e scappava, e allora il cavallo s’era messo a drizzarsi, a ringhiare, a spaccare le stanghe, e non l’avevano piú visto.

Io chiesi a Pino se aveva davvero creduto che Roia comprasse quella bestia. Gli dissi che Roia voleva servirsi di lui per entrare in casa, non altro, e che il cavallo voleva poi venderlo, non girare i paesi.

— E adesso Roia dov’è?

Corremmo alla cascina. Il fuoco aveva preso tutta la stalla e non si poteva entrarci. — È Roia che l’ha acceso.

— Andiamo via, – diceva Pino, – andiamo.

Stavolta non aveva torto. Non bisognava essere i primi lassú. E poi tremava come uno straccio. Era tutto graffiato. Lo presi e, passando dai boschi, andammo a chiuderci in casa.

Il fuoco lo spensero gli altri. Si vede che Roia sapeva il suo mestiere, perché di Ganola non trovarono gran che. Ma del cavallo meno ancora e si spiegavano l’incendio dicendo che aveva ammazzato Ganola con un calcio e rovesciato la lanterna. Lo cercarono un pezzo per queste colline, ma io sono convinto che Roia l’ha acchiappato e se l’è portato via. La gente invece, e Pino con loro, dicono che il cavallo gira i boschi, e certi giorni lo sentono passare sulle creste.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

20- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Le case

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Le case

Sono un uomo solo che lavora, e tutte le settimane aspetta la domenica. Non dico che questo giorno mi piaccia, ma faccio festa come tutti perché un riposo ci vuole. Una volta, quand’ero ancora ragazzo, pensai che, se avessi lavorato anche la domenica, sarei diventato uomo piú presto degli altri, e mi feci dare la chiave dell’officina. Tutte le macchine erano ferme, ma io preparavo il lavoro del lunedí in poco tempo, e poi giravo nello stanzone vuoto tendendo l’orecchio e godendomela. Mi piaceva specialmente che potevo andarmene quando volevo e non facevo come i miei colleghi che in quell’ora giravano in bicicletta, all’osteria o in collina.

Anche adesso la gente alla domenica va fuori di città. Le vie si vuotano come un’officina. Io passo il pomeriggio camminandoci, e ce ne sono di quelle dove in mezz’ora non si vede un’anima. Sembra che tetti marciapiedi e muri, e qualche volta i giardini, siano stati fatti soltanto per un uomo come me, che ci passa e ripassa e se li guarda venire incontro e allontanarsi, come succede delle colline e degli alberi in campagna.

C’è sempre qualche via piú vuota di un’altra. Alle volte mi fermo a guardarla bene, perché in quell’ora, in quel deserto, non mi pare di conoscerla. Basta che il sole, un po’ di vento, il colore dell’aria siano cambiati, e non so piú dove mi trovo. Non finiscono mai, queste vie. Non par vero che tutte abbiano i loro inquilini e passanti, e che tutte se ne stiano cosí zitte e vuote. Piú che quelle lunghe e alberate della periferia dove potrei respirare un po’ d’aria buona, mi piace girare le piazze e le viuzze del centro, dove ci sono i palazzi, e che mi sembrano ancora piú mie, perché proprio non si capisce come tutti se ne siano andati.

È successo con gli anni che non cerco piú compagnia come facevo una volta. Ma le domeniche allora erano un giorno diverso dagli altri. C’era di bello allora che ci si diceva: — Vieni quest’oggi nel tal posto, — e ci andavamo discorrendo. Si facevano strade nuove, si finiva in qualche cortile: io mi voltavo per riconoscermi e non sempre ci riuscivo. Ciccotto aveva la mia età, ma era a lui che piaceva girare nei cortili vuoti e salire delle scale dove non era mai salito, suonare alla porta e attaccare discorso con chi apriva. Io gli andavo dietro, e a quel tempo non credevo che suonasse a certe porte per la prima volta. Se l’avessi creduto, non sarei salito con lui. Aveva un’arte, specialmente se ci aprivano donne e bambini, di dire qualcosa che voleva risposta, e di parola in parola entravamo in casa scherzando e ci stavamo fino a sera. Diceva che la gente alla domenica s’annoia, e che chi da mezzo pomeriggio è chiuso in casa e non sente e non vede nessuno è ben contento di discorrere con chiunque. Io credo che di certe donne, che ci davano anche da bere, lui s’informasse prima.

Quegli anni c’era chi andava in barca, chi prendeva la bicicletta e si fermava soltanto all’osteria, chi aspettava le ragazze davanti al cinema. Da quando conobbi Ciccotto, queste cose mi parevano stupide e non osavo piú farle né parlargliene. Con lui, se si raccontava una cosa, non bastava che fosse capitata, bisognava che gli andasse a sangue; e ascoltava guardando in terra, con la faccia di chi ride di tutt’altro. Siccome era piccolotto e quasi gobbo, dispiaceva umiliarlo, e cosí succedeva che dipendevo da lui.

C’erano case dove entrava chiedendo degli inquilini di prima e raccontando che venivamo apposta da fuori. Quando una donna grassa ci apriva, le raccontava che in passato in quell’alloggio lui aveva abitato e ne era sperso. Altre volte voleva affittare e si faceva condurre dappertutto, fin sul balcone. Diceva che lo mandava il portinaio. Non gli piacevano le case dove stavano ragazze giovani.

Gli uomini, la sera, sono tutti all’osteria, ma uomini o donne che venissero ad aprire, il gioco gli riusciva sempre e scendevamo la scala ridendo. Nel discorso Ciccotto la vinceva lui, e le donne grasse che non escono e se ne stanno alla finestra a rinfrescarsi, ci dicevano sulla porta di tornare a trovarle la domenica dopo.

Ci tornavamo. Ma a nostro gusto, uno due mesi dopo. A Ciccotto piaceva capitare in un momento che la nostra conoscenza non fosse piú sola, avesse la famiglia, una vicina, dei conoscenti in casa, e allora intratteneva tutti, si metteva a scherzare, faceva star sulle spine la donna, chiedeva da bere lodando la bella accoglienza dell’altra volta. Finiva sempre che la donna lo prendeva da parte e gli faceva gli occhiacci, gli gridava qualcosa, aveva una crisi di soffoco. E Ciccotto era il primo a slacciarle il vestito.

Ridevo con Ciccotto tornando a casa ma non sapevo perché ridessi. Mi sentivo piú leggero, piú libero, come quando si esce dal teatro; lasciavo che Ciccotto parlasse, parlavo anch’io, ci piaceva indovinare i misteri e i pasticci di quella gente, inventarci le storie piú strambe, ma insomma ero contento che fosse finita. Forse ridevo proprio per questo, e solo per ingenuità aiutavo Ciccotto. Lui che in officina faceva il turno di notte, aveva per divertirsi anche la mattina dei giorni feriali, e certe conoscenze le coltivava allora per godersele meglio. A me che discutevo sovente, diceva che dovevo ancora girarne di case per conoscere le donne d’età. — Sei un ragazzo, – diceva; – non lo sai che i ragazzi sono i piú cercati?

Ma, per convincermi che ero un ragazzo, non mi portò dalla sua tabaccaia del pianterreno (avevamo attaccato discorso sotto la finestra una sera; faceva tanto caldo che lei aveva spento la luce e ci chiese di andarle a prendere il gelato; ci andai io. Ciccotto rimase sotto a parlarle). Salimmo invece una scala di quelle viuzze del centro che una volta erano palazzi e adesso sembrano cantine. C’era un cortile silenzioso e su per la scala che pareva scavata nella pietra mi fermai a guardare il cielo dalle finestrette. Fin lassú era arrivato Ciccotto. Ci stavano le cameriere di un palazzo che aveva il portone su un’altra strada. Ci aprí una ragazza con cappello e borsetta che gridò: — Caterina! — e senza dirci una parola ci passò in mezzo e scese la scala. Ciccotto era già entrato, parlava; io guardai dietro a lei, tanto m’era piaciuta. Non chiesi a Ciccotto chi fosse, perché avevo paura che la richiamasse e le facesse chi sa che discorso, ma entrai contento in una casa di dove uscivano ragazze simili.

Caterina era la solita donnetta grassa che piaceva a Ciccotto, e ci fermammo tutti e tre in una stanza che prendeva luce dal soffitto. Aspettai che parlassero, ma Ciccotto s’era buttato in poltrona e si guardava le unghie; Caterina sedette appoggiando i gomiti al tavolo. In un angolo sotto un’arcata buia c’era un letto disfatto.

— Siamo povere serve, — disse Caterina guardandomi.

Borbottai che la stanza era comoda e tutta per loro. Caterina scosse il capo e levando gli occhi all’insú disse che a volte ci pioveva. Feci una smorfia per divertirla, ma Ciccotto che ci osservava disse qualcosa, non ricordo, forse «Muoviti» o «Non ci dài nulla?», e la donna si alzò di sussulto, girò indecisa per la stanza, pareva scontenta o assonnata; poi andò verso il letto, cercò in un comodino e tornò con un pacchetto di sigarette, a carta d’argento, che mi tese, e siccome esitavo, lo posò aperto sul tavolo. Ciccotto intanto si era alzato e accostato a una porta chiusa, e pareva ascoltasse. Caterina, buttato il pacchetto, sussultò come volesse dir qualcosa e si trattenne a stento. Ciccotto, voltandosi, la colse in quel gesto, ma mi sembrò non farne caso, venne invece al tavolo, si prese una sigaretta e l’accese. Allora Caterina disse: — Aspettatemi: torno, — aprí quella porta e corse via.

Nel tempo che stemmo soli – un momento – Ciccotto mi guardò come chi è lí per ridere, ma non rideva. — Non ho mai visto le finestre nel soffitto, — dissi. Lui guardò in su, ma pensava a tutt’altro. — Hai capito? — mi chiese. Per non offenderlo dissi: — Sta’ attento —. In quel momento rientrò Caterina, Ciccotto alzò le spalle.

Caterina tornava con una bottiglia di liquore, che posò sul tavolo. Andò a cercare in un armadio tre bicchieri e li riempí adagio, voltandosi a invitarci con un sorriso franco. Bevemmo tutti e tre, e Ciccotto schioccò la lingua. Allora anche Caterina si fece accendere la sigaretta e sedette fumando e facendosi vento.

Discorremmo per un pezzo e Ciccotto la stuzzicava chiedendole se aveva molte visite, giacché teneva le sigarette e i liquori. Caterina non era una stupida e ribatteva con vivacità. Cosí, con le gambe accavallate, non sembrava una serva. Mi accorsi che nel momento ch’era uscita dalla stanza, s’era cambiata la gonna, e anche le labbra le aveva piú rosse. Ciccotto la fece parlare dei suoi tempi, e ne dissero tante. Io la stavo a sentire sbalordito. Caterina doveva essere stata la moglie o la donna di gran signori: parlava di quando le venivano in casa gli amici e l’orchestra e ballavano tutte le sere. Bevevamo ridendo. Ciccotto si guardò intorno una volta e borbottò: — Non ci sentono qui? — Caterina alzò le spalle tutta incalorita e rispose che non c’era nessuno.

Mi chiedevo perché Ciccotto avesse avuto quel riguardo. Intanto il discorso voltò sui padroni, e Ciccotto le chiese se la vedova si era sposata. — T’interessa? — ribattè Caterina con tutt’altra faccia. Ciccotto rideva. Io allora chiesi da quanto tempo si conoscevano, e Ciccotto cominciò a raccontare. Raccontando guardava lei, malizioso. Disse che un giorno era comparsa in quella stanza la padrona, la vedova, una domenica che la casa era vuota (Caterina arrossí e si agitò), che li aveva trovati in quel letto, e senza spaventarsi aveva detto a lui di vestirsi in sua presenza, e lui l’avrebbe fatto ma Caterina gli tirava le coperte sulla testa, con quel caldo: gelosa come tutte le donne. Io stavo a sentire guardandolo, per non guardare Caterina, e dissi: — Poi ti sei vestito?

Qui Caterina, esasperata, gridò: — Tu! Ti vestivi sicuro. Non è la faccia che ti manca —. Ciccotto rideva. Caterina s’era coperta la faccia con le mani.

Io lo giuro che volevo andarmene. Ma invece guardavo quella porta, e non sapevo che dire. Ciccotto si alzò per versarsi da bere. Al movimento, Caterina levò la testa – rossa con gli occhi enormi, sembrava volesse sbranarlo. — Va’ di là, va’ di là, non è uscita, – gridò a voce bassa. – È piú sporca di te che sei venuto a cercarla.

Ciccotto finí di versare e posò la bottiglia. Stette un momento come incerto, soprapensiero. Poi ritornò a sedersi e disse a me: — Queste donne non escono mai.

Caterina ci guardava, ancora sussultante. — Dovrebbe darvi una finestra, – osservò Ciccotto. – Una finestra sulla strada. Ne ha tante —. Caterina alzò le spalle, scontrosa. — Quella non sta alle finestre, – disse ancora Ciccotto; – non ne ha bisogno.

Caterina borbottò qualcosa. Si asciugò la bocca col fazzoletto e guardava me. Sembrava che l’avesse con me. Feci il gesto di alzarmi e volevo dire: — Sarà meglio che vada, quando lei saltò in piedi e mi offrí un altro bicchierino.

Non trovai le parole e restai. Caterina adesso taceva offesa, e Ciccotto ci guardava tranquillo. La stanza era piena di luce.

— Ecco, – disse Ciccotto, – dovrebbe tornare la Lina. Sono giovani e andrebbero d’accordo.

Dal discorso capii che la Lina era l’altra ragazza, quella ch’era uscita entrando noi. Caterina disse che l’altra stava sí alla finestra e che era sfacciata. — Ma la Lina a lui piace, – disse Ciccotto. – Lui non sa quel che è buono —. Io guardavo il mio bicchiere e tendevo l’orecchio. Mi era venuta una speranza. Ma non si sentivano passi.

Chiesi quando tornava la Lina. — Voi dovete parlare, – dissi. – Io non c’entro —. Questa volta mi ero alzato e ci riuscivo. Caterina mi ficcò in tasca delle sigarette perché finissi il pomeriggio. Feci la scala senza voltarmi, e solo in piazza respirai.

Fu quello il primo pomeriggio che girai per la città vuota. L’idea che adesso conoscevo Lina, e che in quel momento Ciccotto faceva all’amore mi agitava, mi esaltava. Ero un poco ubriaco. Ero giovane, e tutto mi sembrava cosí facile. Non sapevo ancora ch’ero contento perché solo.

Quella sera, mentre aspettavo Ciccotto in piazza, guardai la finestra della sua tabaccaia, e me la risi. Ciccotto era proprio canaglia. Poi, quando arrivò, chiacchierammo di tutto. Mi spiegò quel che fanno e che dicono le donne gelose. Mi disse che al mondo non sanno far altro, tant’è vero che passano il tempo alla finestra, magari dietro le persiane. Bisogna conoscerle, e un giovanotto le conosce a ogni modo. Viene un’età, diceva, che lo aspettano dietro la porta come le gatte.

Ma adesso pensava alla sua tabaccaia e non voleva piú salire da Caterina. Mi disse di andarci solo, magari di sera. Io non ebbi il coraggio. Gironzolai sotto i balconi del palazzo, sperando di vedere la Lina affacciata. Ma le vetrate erano chiuse; tutto il mattino della domenica successiva restarono chiuse, e fu Ciccotto che mi disse che d’estate tutta quanta la famiglia andava al mare. — Anche le serve? — Anche loro.

Non capivo: Caterina era tanto gelosa, e una settimana prima di andarsene non ne aveva parlato. — Sono cosí, le donne, — disse Ciccotto.

Lui non era piú l’uomo di prima: non faceva piú il gioco di tornare con me per le scale dove si era cominciato a ridere. Non si staccava dalla piazza, passava tutte le domeniche intorno alla tabaccheria. La tabaccaia era l’unica donna che non lo lasciasse entrare in casa; gli parlava, anche di sera, dalla finestra del pianterreno, lo mandava a prendere il gelato; stavano zitti delle mezz’ore ascoltando morire i passi di chi traversava. Questa donna aveva forse trent’anni, ma sembrava ne avesse quaranta, tanto sapeva comandare e dar risposta.

Io, da solo, far la vita di prima non c’ero tagliato. Mi accontentavo di vedere Ciccotto all’officina; e andavo a spasso, mi ero fatto qualche collega, sapevo ancora divertirmi, ma non ero piú quello. Si sa com’è in casa: se uno dorme di giorno, lo svegliano, e poi da casa all’officina dall’officina a casa non è piú un vivere. Cominciai quell’estate a girare da solo, tutto il tempo che avevo, le strade e le piazze, e passare per quelle viuzze e cercare la Lina che invece era al mare. Speravo, non so come, di vedermela un giorno spuntare davanti. Quando le vie sono deserte, tutto può succedere. Mi fermavo sugli angoli.

E poi, non c’era solo la Lina. Ciccotto ne conosceva tante, di donne. Viene un’età che ti corrono dietro, lo diceva sempre. Di salire le scale, di farle parlare, di cercare, d’insistere, d’innamorarle, non ero capace. Ci riusciva Ciccotto, ch’era quasi gobbo; io sapevo che bastava aspettare.

Ma poi Ciccotto si sposò. Non me lo disse nemmeno: lo seppi da mia sorella. La tabaccaia lo faceva venir matto, e sposarla fu l’unico modo per entrarle in casa. Lui fino alla fine non mi disse mai altro se non ch’era troppo gelosa, ch’era una bella donna grassa e se a me non piaceva. — Per prendere in giro una donna, – diceva, – bisogna non dargliela vinta —. La sposò quasi di nascosto perché lei era vedova e gli diceva sempre che rimaritandosi avrebbe perduto i clienti. Ma, appena maritata, mise lui dietro il banco. Io allora risi di Ciccotto, come tutti ne risero, e finí che litigammo e ci vedemmo soltanto quando passavo sulla piazza. Ma adesso ci sono dei giorni, qualche domenica, che lo invidio.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.