Jago l’onesto – Testo critico di Vittorio Sgarbi

Dal 12 marzo, Palazzo Bonaparte a Roma ospita la prima grande mostra di JAGO. Jago scolpisce come Michelangelo ed è una rockstar. Amatissimo dal grande pubblico, mito per i giovani e fenomeno social, è l’emblema dell’artista contemporaneo, che unisce talento creativo e capacità comunicative.

Arthemisia propone la sua prima mostra, in contemporanea a quella dedicata all’icona della video-arte, BILL VIOLA. E propone anche il primo esperimento di studio d’artista durante l’esposizione: Jago lavorerà a una nuova opera all’interno delle sale di Palazzo Bonaparte, rendendo partecipe il pubblico della sua creazione.

Una primavera ricca di energia, dedicata all’arte contemporanea, a Palazzo Bonaparte.

JAGO
The exhibition

12 marzo – 3 luglio 2022 Palazzo Bonaparte, Roma

Jago
Pietà, 2021
Marmo, 140x80x150 cm
Photo by Jago
LA MOSTRA

Testo critico di Vittorio Sgarbi

Comunque lo si vuole giudicare, sarebbe difficile non considerare Jago un fenomeno. Uno di quelli che non si possono ignorare come se non esistessero, secondo costume abituale di certa critica d’arte, la più elitaria e autoreferenziale nel guardare solo al proprio hortus conclusus, salvo capire poco del mondo con cui abbiamo a che fare, probabilmente non solo quello dell’arte. Jago esiste, enormemente di più di quelli che ancora si sforzano di ignorarlo. Esiste perché esiste la sua opera, il suo modo di comunicare che non si limita, nel rispetto di una tradizione secolare occidentale e più specificatamente italiana che da un punto di vista tecnico vorrebbe continuare ad evidentiam, alla sola cosa scolpita (non fa solo sculture, ma sono indubbiamente le sculture il centro della sua opera), ma lo estende allo scolpire come atto di primaria, vitalistica dimensione per metterlo in relazione con tutto ciò che può essere correlato produttivamente ad esso, dallo spettacolo all’economia, in questo senso con spirito molto più in linea con i tempi globalizzanti che ci vedono oggi coinvolti. Jago esiste, soprattutto, perché questo suo modo aggiornato, globale di fare arte mettendo assieme antico e moderno riflette un sentire non solo espressivo, ma più generale rispetto al mondo attuale che viene condiviso da un pubblico internazionale di estimatori dalla portata inconsueta, da popstar in confronto a quello di cui gode la stragrande maggioranza degli artisti contemporanei e, cosa ancora più rara, con un numero notevolissimo di giovani e di non competenti al suo interno. È per me una ragione d’orgoglio averlo premiato poco più che ventenne, e poi presentato alla Biennale di Venezia nel 2011 su segnalazione della veggente Maria Teresa Benedetti.
Se tutto ciò è stato possibile è perché Jago non ha inteso subire gli eventi che lo hanno interessato, è voluto essere lui un fenomeno che si doveva conoscere e di cui bisognava parlare, anche da parte di chi non è aduso a sapere e discutere di arte. Si è fatto forte, Jago, della scaltrezza e della determinazione di chi ha capito precocemente che nell’epoca della civiltà non sempre civile del web e dei socials sarebbe insufficiente essere lo scultore più capace della Terra per guadagnarsi automaticamente il centro del palcoscenico, ci vuole anche altro, e questo altro bisogna inventarselo con la stessa concentrazione, la stessa meticolosità, la stessa verve creativa che si riserverebbe a un’opera scultorea di grande impegno. Scaltrezza e determinazione che potrebbero essere colte in trasparenza fin dagli aspetti preliminari del porsi di Jago a noi; nella temerarietà, per esempio, con cui Jacopo Cardillo da Frosinone ha ripudiato in arte il nome anagrafico per adottare quello archetipico del più perverso fra i personaggi shakespeariani, la personificazione del male fine a sé stesso, così come lo vedeva, fra i tanti, anche Benedetto Croce, o anche l’“onesto”, per dirla come l’ingenuo Otello, che esemplifica alla perfezione la spregiudicatezza cara a Machiavelli di cui dovrebbero munirsi gli uomini politici.

Se è vero che nomen omen quando sono gli altri ad attribuircelo, tanto più lo sarà quando il nome lo si sceglie di propria iniziativa. Escludendo che abbia voluto chiamarsi in tal modo perché vuole apparirci provocatoriamente spregevole (mi pare evidente che Jago appartenga alla schiera di coloro che, con disposizione peraltro sanissima, preferiscono piacere piuttosto che repellere), dovremo pensare che ci sia qualcosa di machiavellico in lui? Potrebbe anche essere, non certo nel senso che ha dato corpo alla stereotipata caratterizzazione shakesperiana, naturalmente, ma in quello che tende a concepire il proprio muoversi nello scacchiere del mondo non come evenienza dettata da fattori più o meno casuali o da volontà altrui più o meno determinanti, ma come effetto di un’avveduta strategia personale. Non è cinico Jago, né un arido calcolatore, ma hai ugualmente l’impressione che riesca a mantenere sempre il polso delle situazioni in cui si trova: nell’affrontarle non manca mai di sapere già in partenza cosa vuole fare e dove vuole andare a parare, mai azzardando salti al buio o voli senza rete anche quando sembrerebbe esattamente il contrario. È un pregio fra i più lodevoli, sia ben chiaro, non certo un difetto per cui additarlo. Misura un’intelligenza, una ragion pratica di cui troppo spesso gli artisti ritengono di potere fare a meno, privilegiando altre qualità che non sempre a buon diritto andrebbero valutate più importanti.
Nessuno, poi, potrebbe lecitamente sospettare che Jago si sia fatto stratega per mascherare delle carenze di base, un po’ come capita con certi cantanti che strillano e si acconciano in modo eccentrico per farci dimenticare che non sanno cantare. Jago “canta” scultura in modo formidabile, davvero improbo tenergli il passo da un punto di vista strettamente tecnico-artigianale. Si è formato trovando in sé stesso quell’accademia che l’istituzione non riusciva a fornirgli fino in fondo, perseguendo come motivo pressante della sua ispirazione l’ineludibilità del confronto con l’antico, col mestiere dello scolpire così come codificato dal Rinascimento – mai dimenticare che la scultura è stata la sua arte primigenia che ha finito per nutrire tutte le altre – fino al secolo scorso, con l’idea della centralità del genere umano e della nobiltà della sua forma che un tale magistero intellettualmente sottende. Ben presto, però, Jago si convince che non basta ammirare per imparare. Bisogna farlo, a un certo punto, per sfidare, come in fondo facevano i grandi maestri che non volevano emulare gli antichi, volevano superarli, facendo scaturire da questo intento la modernità nel suo valore più autentico. Modernità che in tempi più recenti ha avuto altre manifestazioni su cui dovrebbe comunque fondarsi il bagaglio dell’artista contemporaneo, capaci di spostare il baricentro dell’espressione artistica dall’opera in senso stretto, chiusa entro determinate caratteristiche fisiche, all’orizzonte allargato dell’operazione – la concettualizzazione, la performance, l’happening, la diversificazione logistica e mediatica – che la contiene o anche la oltrepassa, quando non la ritiene più necessaria.

Così, accanto a uno Jago più libero da rimandi nei confronti di altro da sé stesso, tendenzialmente simbolista, nella forma più sensibile alla levigata scorrevolezza delle superfici, si sviluppa quello diventato più noto, lo scultore titanico che vuole vincere il tempo stabilendo una perfetta equazione fra passato e presente, tendenzialmente realista, se è lecito definire tali anche scultori piuttosto tradizionalisti e non per questo sgraditi alla critica anche più à la page quali Ron Mueck o Charles Ray, nella forma più incline a una certa durezza di trattamento con effetti anche di definizione marcata, talvolta con i segni dello scalpello lasciati volutamente a vista per fornire compiaciuto risalto al metodo e alla fatica del lavoro affrontato. Prendiamo, per esempio, un’opera come il Figlio velato. Dal punto di vista scultoreo, si tratta dell’ennesima competizione stabilita – è così anche con la sui generis michelangiolesca Pietà a Santa Maria in Montesanto e con la prossima, berniniana, ma anche giambolognesca Aiace e Cassandra, per dire di altri casi non meno evidenti – con un famoso capolavoro del passato, il Cristo velato di Giuseppe Sammartino nella Cappella Sansevero a Napoli, che sviluppava fino alle estreme conseguenze un espediente tecnico-espressivo inventato dal veneto Antonio Corradini, la resa delle forme umane intraviste attraverso un velo aderente, quasi da Simbolismo preconizzato. Virtuosismo puro, quello di Sammartino, così sovrumano da fare immaginare che il velo non fosse stato scolpito nel marmo, altrimenti si sarebbe spezzato per forza, ma ottenuto attraverso un bagno chimico pietrificante escogitato dal principe alchimista Raimondo di Sangro, committente dello scultore. Non avrei dubbi sul fatto che proprio questo sia stato il motivo di maggiore attrazione avvertito da Jago: quel Cristo non incarna sé stesso come Dio fattosi uomo, ma in quanto opera d’arte. E lì il prodigio, lo spettacolo della metamorfosi resa permanente – è il tema centrale affrontato da Sammartino, il corpo che si fa spirito allo stesso modo di come la materia si fa arte – ancora in grado di lasciare a bocca aperta a due secoli e mezzo dal suo allestimento. Se si è veri scultori, bisogna sapere fare altrettanto. Ma non facendo un altro Cristo, sarebbe banale, inutile, puro divertissement personale. E senza limitarsi a fare solo una scultura, ci vuole – eccola la modernità che irrompe sulla semplice continuità con l’antico,
modificandone il significato – l’operazione attorno, mediatica innanzitutto, ma non solo, anche ideologica, concettuale, sociale, in modo tale da fare di tutto ciò che accompagna e segue la creazione un evento partecipato a misura delle persone dei nostri giorni, quelle che comunicano più o meno ossessivamente online. Si cambia innanzitutto il soggetto apparente (quello vero è l’arte, s’intende), non un adulto ma un bambino, uno dei diversi trattati da Jago in modi che non si sono certo proposti di passare sotto silenzio (si pensi al feto del First Baby portato all’astronauta Luca Parmitano nello spazio, oppure il neonato gigante collocato a sorpresa nella napoletana Piazza del Plebiscito, ingiuriato dai meno tolleranti). Si comincia a New York perché in Italia non si riesce, e già questo accende l’attenzione. Si carica, Jago, si sente al centro di un’impresa che in molti avrebbero giudicato impossibile da replicare o troppo megalomane, si sforza di trasmettere il senso di quanto sta azzardando a un uditorio virtuale che ha modo di seguirlo al lavoro dallo smartphone o dal computer di casa propria per ottenerne in cambio approvazione, incoraggiamento, consenso, da parte dei giovani soprattutto, come se lo scultore fosse un rapper che si rivolgesse a loro. Finalmente l’opera è pronta, l’operazione, invece, ancora deve avere seguiti importanti, in questo senso finendo anche per prevalere sulla scultura vera e propria. Scultura che nel confrontarsi col capolavoro di Sammartino lo interpreta per volerne fornire una versione al passo con i tempi, riducendo al minimo l’incidenza del corpo umano (il bimbo di Jago, per quanto possa essere commovente supporlo defunto, non manca di mostrare una certa mancanza di grazia, come se non voglia attirare più di tanto) per lasciare il ruolo del protagonista al più artistico degli elementi, un velo qui caratterizzato da panneggi per nulla morbidi e acquosi come nel Cristo, ma angolari e metallici come in precedenti niente affatto intuibili in Sammartino per non dire in Corradini, cominciando dagli esempi borgognoni di Claus Sluter a cui non poco dovette la successiva rivoluzione pittorica dei Van Eyck. Nello scolpire a misura di mondo globale, insomma, Jago sembra rinunciare all’italianità in senso stretto, preferendo un respiro più internazionale che allude anche a culture artistiche diverse, non certo meno rispettabili della nostra. L’operazione, intanto, va avanti. Potrebbe essere venduto, il Figlio velato: gli aspiranti acquirenti non mancherebbero. A non volere finire subito nelle mani di un unico compratore, potrebbe essere concepito come l’equivalente di un fondo di investimento in cui un numero quanto mai ampio di acquirenti comprasse una quota di partecipazione, così come Jago, da uomo perfettamente calato nell’epoca dell’arte come nuova forma di finanza – in fondo è questa la sua novità più rilevante nel corso dell’ultimo quarantennio – che non si fa scrupolo a parlare apertamente di denaro quando c’è di mezzo il suo lavoro (del neonato gigante in Piazza Plebiscito ha detto: “ho lasciato per terra un milione di euro”), ha già pensato in altre situazioni. Ma in questo caso, l’operazione segue un altro corso, meno venale: il Figlio velato accompagna il ritorno di Jago in Italia, a Napoli, dove va a vivere e lavorare nel quartiere popolare di Sanità, di cui sarebbe diventato presto un emblema. La statua viene collocata, spettacolarmente, al centro della Cappella dei Bianchi nella chiesa di San Severo fuori le mura, a diventare una seconda Cappella Sansevero. Viene eletta a simbolo di una resurrezione cercata, quella di un intero quartiere e della sua gente, il Figlio finirà per vincere la morte in cui ora è ancora immerso. Il fine è raggiunto, la consacrazione avvenuta, il consenso ottenuto, il senso di comunità con i napoletani stabilito: Jago adesso può davvero considerarsi il nuovo Sammartino, il nuovo Sluter, ma anche chiunque altro con cui voglia confrontarsi, come un falso Zelig che in realtà non vuole imitare mai nessuno. E adesso, afferma Jago, concedendo forse troppo alla retorica, ma con convinzione sincera, l’opera non è più solo mia, è di tutti quelli che hanno partecipato anche solo emotivamente alla sua vicenda e che si sono fatti coinvolgere nella sua narrazione trovandone una forma di godimento anche minima. Perché l’arte, da sola, non può più esistere, per quanto grande possa essere. Esiste la vita, e l’arte nella vita.


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