20- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Le case

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Le case

Sono un uomo solo che lavora, e tutte le settimane aspetta la domenica. Non dico che questo giorno mi piaccia, ma faccio festa come tutti perché un riposo ci vuole. Una volta, quand’ero ancora ragazzo, pensai che, se avessi lavorato anche la domenica, sarei diventato uomo piú presto degli altri, e mi feci dare la chiave dell’officina. Tutte le macchine erano ferme, ma io preparavo il lavoro del lunedí in poco tempo, e poi giravo nello stanzone vuoto tendendo l’orecchio e godendomela. Mi piaceva specialmente che potevo andarmene quando volevo e non facevo come i miei colleghi che in quell’ora giravano in bicicletta, all’osteria o in collina.

Anche adesso la gente alla domenica va fuori di città. Le vie si vuotano come un’officina. Io passo il pomeriggio camminandoci, e ce ne sono di quelle dove in mezz’ora non si vede un’anima. Sembra che tetti marciapiedi e muri, e qualche volta i giardini, siano stati fatti soltanto per un uomo come me, che ci passa e ripassa e se li guarda venire incontro e allontanarsi, come succede delle colline e degli alberi in campagna.

C’è sempre qualche via piú vuota di un’altra. Alle volte mi fermo a guardarla bene, perché in quell’ora, in quel deserto, non mi pare di conoscerla. Basta che il sole, un po’ di vento, il colore dell’aria siano cambiati, e non so piú dove mi trovo. Non finiscono mai, queste vie. Non par vero che tutte abbiano i loro inquilini e passanti, e che tutte se ne stiano cosí zitte e vuote. Piú che quelle lunghe e alberate della periferia dove potrei respirare un po’ d’aria buona, mi piace girare le piazze e le viuzze del centro, dove ci sono i palazzi, e che mi sembrano ancora piú mie, perché proprio non si capisce come tutti se ne siano andati.

È successo con gli anni che non cerco piú compagnia come facevo una volta. Ma le domeniche allora erano un giorno diverso dagli altri. C’era di bello allora che ci si diceva: — Vieni quest’oggi nel tal posto, — e ci andavamo discorrendo. Si facevano strade nuove, si finiva in qualche cortile: io mi voltavo per riconoscermi e non sempre ci riuscivo. Ciccotto aveva la mia età, ma era a lui che piaceva girare nei cortili vuoti e salire delle scale dove non era mai salito, suonare alla porta e attaccare discorso con chi apriva. Io gli andavo dietro, e a quel tempo non credevo che suonasse a certe porte per la prima volta. Se l’avessi creduto, non sarei salito con lui. Aveva un’arte, specialmente se ci aprivano donne e bambini, di dire qualcosa che voleva risposta, e di parola in parola entravamo in casa scherzando e ci stavamo fino a sera. Diceva che la gente alla domenica s’annoia, e che chi da mezzo pomeriggio è chiuso in casa e non sente e non vede nessuno è ben contento di discorrere con chiunque. Io credo che di certe donne, che ci davano anche da bere, lui s’informasse prima.

Quegli anni c’era chi andava in barca, chi prendeva la bicicletta e si fermava soltanto all’osteria, chi aspettava le ragazze davanti al cinema. Da quando conobbi Ciccotto, queste cose mi parevano stupide e non osavo piú farle né parlargliene. Con lui, se si raccontava una cosa, non bastava che fosse capitata, bisognava che gli andasse a sangue; e ascoltava guardando in terra, con la faccia di chi ride di tutt’altro. Siccome era piccolotto e quasi gobbo, dispiaceva umiliarlo, e cosí succedeva che dipendevo da lui.

C’erano case dove entrava chiedendo degli inquilini di prima e raccontando che venivamo apposta da fuori. Quando una donna grassa ci apriva, le raccontava che in passato in quell’alloggio lui aveva abitato e ne era sperso. Altre volte voleva affittare e si faceva condurre dappertutto, fin sul balcone. Diceva che lo mandava il portinaio. Non gli piacevano le case dove stavano ragazze giovani.

Gli uomini, la sera, sono tutti all’osteria, ma uomini o donne che venissero ad aprire, il gioco gli riusciva sempre e scendevamo la scala ridendo. Nel discorso Ciccotto la vinceva lui, e le donne grasse che non escono e se ne stanno alla finestra a rinfrescarsi, ci dicevano sulla porta di tornare a trovarle la domenica dopo.

Ci tornavamo. Ma a nostro gusto, uno due mesi dopo. A Ciccotto piaceva capitare in un momento che la nostra conoscenza non fosse piú sola, avesse la famiglia, una vicina, dei conoscenti in casa, e allora intratteneva tutti, si metteva a scherzare, faceva star sulle spine la donna, chiedeva da bere lodando la bella accoglienza dell’altra volta. Finiva sempre che la donna lo prendeva da parte e gli faceva gli occhiacci, gli gridava qualcosa, aveva una crisi di soffoco. E Ciccotto era il primo a slacciarle il vestito.

Ridevo con Ciccotto tornando a casa ma non sapevo perché ridessi. Mi sentivo piú leggero, piú libero, come quando si esce dal teatro; lasciavo che Ciccotto parlasse, parlavo anch’io, ci piaceva indovinare i misteri e i pasticci di quella gente, inventarci le storie piú strambe, ma insomma ero contento che fosse finita. Forse ridevo proprio per questo, e solo per ingenuità aiutavo Ciccotto. Lui che in officina faceva il turno di notte, aveva per divertirsi anche la mattina dei giorni feriali, e certe conoscenze le coltivava allora per godersele meglio. A me che discutevo sovente, diceva che dovevo ancora girarne di case per conoscere le donne d’età. — Sei un ragazzo, – diceva; – non lo sai che i ragazzi sono i piú cercati?

Ma, per convincermi che ero un ragazzo, non mi portò dalla sua tabaccaia del pianterreno (avevamo attaccato discorso sotto la finestra una sera; faceva tanto caldo che lei aveva spento la luce e ci chiese di andarle a prendere il gelato; ci andai io. Ciccotto rimase sotto a parlarle). Salimmo invece una scala di quelle viuzze del centro che una volta erano palazzi e adesso sembrano cantine. C’era un cortile silenzioso e su per la scala che pareva scavata nella pietra mi fermai a guardare il cielo dalle finestrette. Fin lassú era arrivato Ciccotto. Ci stavano le cameriere di un palazzo che aveva il portone su un’altra strada. Ci aprí una ragazza con cappello e borsetta che gridò: — Caterina! — e senza dirci una parola ci passò in mezzo e scese la scala. Ciccotto era già entrato, parlava; io guardai dietro a lei, tanto m’era piaciuta. Non chiesi a Ciccotto chi fosse, perché avevo paura che la richiamasse e le facesse chi sa che discorso, ma entrai contento in una casa di dove uscivano ragazze simili.

Caterina era la solita donnetta grassa che piaceva a Ciccotto, e ci fermammo tutti e tre in una stanza che prendeva luce dal soffitto. Aspettai che parlassero, ma Ciccotto s’era buttato in poltrona e si guardava le unghie; Caterina sedette appoggiando i gomiti al tavolo. In un angolo sotto un’arcata buia c’era un letto disfatto.

— Siamo povere serve, — disse Caterina guardandomi.

Borbottai che la stanza era comoda e tutta per loro. Caterina scosse il capo e levando gli occhi all’insú disse che a volte ci pioveva. Feci una smorfia per divertirla, ma Ciccotto che ci osservava disse qualcosa, non ricordo, forse «Muoviti» o «Non ci dài nulla?», e la donna si alzò di sussulto, girò indecisa per la stanza, pareva scontenta o assonnata; poi andò verso il letto, cercò in un comodino e tornò con un pacchetto di sigarette, a carta d’argento, che mi tese, e siccome esitavo, lo posò aperto sul tavolo. Ciccotto intanto si era alzato e accostato a una porta chiusa, e pareva ascoltasse. Caterina, buttato il pacchetto, sussultò come volesse dir qualcosa e si trattenne a stento. Ciccotto, voltandosi, la colse in quel gesto, ma mi sembrò non farne caso, venne invece al tavolo, si prese una sigaretta e l’accese. Allora Caterina disse: — Aspettatemi: torno, — aprí quella porta e corse via.

Nel tempo che stemmo soli – un momento – Ciccotto mi guardò come chi è lí per ridere, ma non rideva. — Non ho mai visto le finestre nel soffitto, — dissi. Lui guardò in su, ma pensava a tutt’altro. — Hai capito? — mi chiese. Per non offenderlo dissi: — Sta’ attento —. In quel momento rientrò Caterina, Ciccotto alzò le spalle.

Caterina tornava con una bottiglia di liquore, che posò sul tavolo. Andò a cercare in un armadio tre bicchieri e li riempí adagio, voltandosi a invitarci con un sorriso franco. Bevemmo tutti e tre, e Ciccotto schioccò la lingua. Allora anche Caterina si fece accendere la sigaretta e sedette fumando e facendosi vento.

Discorremmo per un pezzo e Ciccotto la stuzzicava chiedendole se aveva molte visite, giacché teneva le sigarette e i liquori. Caterina non era una stupida e ribatteva con vivacità. Cosí, con le gambe accavallate, non sembrava una serva. Mi accorsi che nel momento ch’era uscita dalla stanza, s’era cambiata la gonna, e anche le labbra le aveva piú rosse. Ciccotto la fece parlare dei suoi tempi, e ne dissero tante. Io la stavo a sentire sbalordito. Caterina doveva essere stata la moglie o la donna di gran signori: parlava di quando le venivano in casa gli amici e l’orchestra e ballavano tutte le sere. Bevevamo ridendo. Ciccotto si guardò intorno una volta e borbottò: — Non ci sentono qui? — Caterina alzò le spalle tutta incalorita e rispose che non c’era nessuno.

Mi chiedevo perché Ciccotto avesse avuto quel riguardo. Intanto il discorso voltò sui padroni, e Ciccotto le chiese se la vedova si era sposata. — T’interessa? — ribattè Caterina con tutt’altra faccia. Ciccotto rideva. Io allora chiesi da quanto tempo si conoscevano, e Ciccotto cominciò a raccontare. Raccontando guardava lei, malizioso. Disse che un giorno era comparsa in quella stanza la padrona, la vedova, una domenica che la casa era vuota (Caterina arrossí e si agitò), che li aveva trovati in quel letto, e senza spaventarsi aveva detto a lui di vestirsi in sua presenza, e lui l’avrebbe fatto ma Caterina gli tirava le coperte sulla testa, con quel caldo: gelosa come tutte le donne. Io stavo a sentire guardandolo, per non guardare Caterina, e dissi: — Poi ti sei vestito?

Qui Caterina, esasperata, gridò: — Tu! Ti vestivi sicuro. Non è la faccia che ti manca —. Ciccotto rideva. Caterina s’era coperta la faccia con le mani.

Io lo giuro che volevo andarmene. Ma invece guardavo quella porta, e non sapevo che dire. Ciccotto si alzò per versarsi da bere. Al movimento, Caterina levò la testa – rossa con gli occhi enormi, sembrava volesse sbranarlo. — Va’ di là, va’ di là, non è uscita, – gridò a voce bassa. – È piú sporca di te che sei venuto a cercarla.

Ciccotto finí di versare e posò la bottiglia. Stette un momento come incerto, soprapensiero. Poi ritornò a sedersi e disse a me: — Queste donne non escono mai.

Caterina ci guardava, ancora sussultante. — Dovrebbe darvi una finestra, – osservò Ciccotto. – Una finestra sulla strada. Ne ha tante —. Caterina alzò le spalle, scontrosa. — Quella non sta alle finestre, – disse ancora Ciccotto; – non ne ha bisogno.

Caterina borbottò qualcosa. Si asciugò la bocca col fazzoletto e guardava me. Sembrava che l’avesse con me. Feci il gesto di alzarmi e volevo dire: — Sarà meglio che vada, quando lei saltò in piedi e mi offrí un altro bicchierino.

Non trovai le parole e restai. Caterina adesso taceva offesa, e Ciccotto ci guardava tranquillo. La stanza era piena di luce.

— Ecco, – disse Ciccotto, – dovrebbe tornare la Lina. Sono giovani e andrebbero d’accordo.

Dal discorso capii che la Lina era l’altra ragazza, quella ch’era uscita entrando noi. Caterina disse che l’altra stava sí alla finestra e che era sfacciata. — Ma la Lina a lui piace, – disse Ciccotto. – Lui non sa quel che è buono —. Io guardavo il mio bicchiere e tendevo l’orecchio. Mi era venuta una speranza. Ma non si sentivano passi.

Chiesi quando tornava la Lina. — Voi dovete parlare, – dissi. – Io non c’entro —. Questa volta mi ero alzato e ci riuscivo. Caterina mi ficcò in tasca delle sigarette perché finissi il pomeriggio. Feci la scala senza voltarmi, e solo in piazza respirai.

Fu quello il primo pomeriggio che girai per la città vuota. L’idea che adesso conoscevo Lina, e che in quel momento Ciccotto faceva all’amore mi agitava, mi esaltava. Ero un poco ubriaco. Ero giovane, e tutto mi sembrava cosí facile. Non sapevo ancora ch’ero contento perché solo.

Quella sera, mentre aspettavo Ciccotto in piazza, guardai la finestra della sua tabaccaia, e me la risi. Ciccotto era proprio canaglia. Poi, quando arrivò, chiacchierammo di tutto. Mi spiegò quel che fanno e che dicono le donne gelose. Mi disse che al mondo non sanno far altro, tant’è vero che passano il tempo alla finestra, magari dietro le persiane. Bisogna conoscerle, e un giovanotto le conosce a ogni modo. Viene un’età, diceva, che lo aspettano dietro la porta come le gatte.

Ma adesso pensava alla sua tabaccaia e non voleva piú salire da Caterina. Mi disse di andarci solo, magari di sera. Io non ebbi il coraggio. Gironzolai sotto i balconi del palazzo, sperando di vedere la Lina affacciata. Ma le vetrate erano chiuse; tutto il mattino della domenica successiva restarono chiuse, e fu Ciccotto che mi disse che d’estate tutta quanta la famiglia andava al mare. — Anche le serve? — Anche loro.

Non capivo: Caterina era tanto gelosa, e una settimana prima di andarsene non ne aveva parlato. — Sono cosí, le donne, — disse Ciccotto.

Lui non era piú l’uomo di prima: non faceva piú il gioco di tornare con me per le scale dove si era cominciato a ridere. Non si staccava dalla piazza, passava tutte le domeniche intorno alla tabaccheria. La tabaccaia era l’unica donna che non lo lasciasse entrare in casa; gli parlava, anche di sera, dalla finestra del pianterreno, lo mandava a prendere il gelato; stavano zitti delle mezz’ore ascoltando morire i passi di chi traversava. Questa donna aveva forse trent’anni, ma sembrava ne avesse quaranta, tanto sapeva comandare e dar risposta.

Io, da solo, far la vita di prima non c’ero tagliato. Mi accontentavo di vedere Ciccotto all’officina; e andavo a spasso, mi ero fatto qualche collega, sapevo ancora divertirmi, ma non ero piú quello. Si sa com’è in casa: se uno dorme di giorno, lo svegliano, e poi da casa all’officina dall’officina a casa non è piú un vivere. Cominciai quell’estate a girare da solo, tutto il tempo che avevo, le strade e le piazze, e passare per quelle viuzze e cercare la Lina che invece era al mare. Speravo, non so come, di vedermela un giorno spuntare davanti. Quando le vie sono deserte, tutto può succedere. Mi fermavo sugli angoli.

E poi, non c’era solo la Lina. Ciccotto ne conosceva tante, di donne. Viene un’età che ti corrono dietro, lo diceva sempre. Di salire le scale, di farle parlare, di cercare, d’insistere, d’innamorarle, non ero capace. Ci riusciva Ciccotto, ch’era quasi gobbo; io sapevo che bastava aspettare.

Ma poi Ciccotto si sposò. Non me lo disse nemmeno: lo seppi da mia sorella. La tabaccaia lo faceva venir matto, e sposarla fu l’unico modo per entrarle in casa. Lui fino alla fine non mi disse mai altro se non ch’era troppo gelosa, ch’era una bella donna grassa e se a me non piaceva. — Per prendere in giro una donna, – diceva, – bisogna non dargliela vinta —. La sposò quasi di nascosto perché lei era vedova e gli diceva sempre che rimaritandosi avrebbe perduto i clienti. Ma, appena maritata, mise lui dietro il banco. Io allora risi di Ciccotto, come tutti ne risero, e finí che litigammo e ci vedemmo soltanto quando passavo sulla piazza. Ma adesso ci sono dei giorni, qualche domenica, che lo invidio.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

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