Per questo conclusivo giorno di luglio e per tutto il mese di agosto 2016 Experiences pubblicherà citazioni, quasi fossero esercizi minimi per la mente e lo spirito.
IO SONO CULTURA. Quest’anno la faccina demodé in copertina al rapporto annuale di Fondazione Symbola e Unioncamere, alla 6ª edizione, zittisce le malelingue. Cultura e creatività, nello scenario internazionale, sono considerati uno dei motori primari delle economie avanzate. “Cultura e istruzione” sono l’undicesima priorità del programma Juncker e Silvia Costa che presiede la Commissione Cultura del parlamento Europeo afferma che «è arrivato il momento per rimettere al centro i valori della cultura, della creatività, dell’educazione e del dialogo interculturale». I pilastri fondanti sono presto detti: il patrimonio culturale, le imprese creative e culturali, il Digital Single Market e il capitale umano. Quando si affrontano simili argomenti la mente dei più corre alla cultura scolastica, ma il perimetro di attività è ben più complesso. Il Rapporto 2016 prende in considerazione due dimensioni. Il “core cultura”, cioè il nucleo di elaborazione vera e propria, e l’area circostante di attività “creative driven”, l’unica in crescita, ossia il manifatturiero “evoluto” e l’artigianato artistico. Ora bisogna sviluppare il cuore centrale del sistema, composto da quattro macro-domini: industrie creative (architettura; comunicazione e branding; design) industrie culturali (film, video, radio-tv; videogiochi e software; musica; libri, stampa ed editoria) patrimonio storico-artistico, performing arts e arti visive. Si aprono spazi enormi di elaborazione e d’impegno; ma necessita una considerazione. Se l’economia culturale e creativa può mobilitare i giovani, occorre evitare formule di lavoro tanto flessibili da trasformarsi in precariato ad oltranza. Il capitale umano è la più grande risorsa che abbiamo.
di Sergio Bertolami
Per dare una soluzione concreta all’agire dovremmo, dunque, comprendere la vera natura delle nostre attività. Se siamo capaci di affrontare una grande quantità di impegni possiamo definirci efficienti; ma quante volte riusciamo a completarli nei tempi giusti, così da definirci anche efficaci? La maggior parte di persone, in verità, tranquillizza la propria coscienza facendo solo un mucchio di cose, poco importa se siano produttive o meno. Sicuramente saranno importanti oppure urgenti, perché questi sono i due fattori principali che definiscono le attività. Ma solo l’urgenza è direttamente connessa al tempo, poiché l’importanza è sempre soggettiva: è legata cioè ad una attribuzione di valore. Il valore, scrive Franco Archibugi, «non è una proprietà fissa e inerente delle cose. È piuttosto una proprietà variabile la cui grandezza non dipende dalla natura della cosa in sé, ma da chi la valuta e dalle circostanze in cui è valutata». In altre parole sta ad ogni persona distinguere tra l’essenziale e il superfluo, così da definire le priorità. A questo proposito vale ricordare il principio di Pareto, che qualcuno conoscerà come “Legge 80/20”. Vilfredo Pareto afferma che «la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause». L’80% degli effetti, vale a dire, è determinato solo dal 20% delle cause. È un principio essenzialmente economico, ma è stato riformulato ed applicato a diverse situazioni. Nel nostro caso possiamo asserire che se il 20% della risorsa tempo genera l’80% del valore, escludendo le ore di sonno, solo per poco più di tre ore al giorno siamo davvero efficienti ed efficaci.
Tale esiguo valore dipende proprio dal modo in cui affrontiamo le attività. Quelle imposte dal sistema in cui agiamo e dagli imprevisti che dovremmo essere capaci di affrontare. Quelle, ben più importanti, inerenti alle scelte cui dare una risposta giusta e adeguata. Per aiutarci a gestire tutto ciò, potremmo richiamarci alla matrice di Dwight Eisenhower, che rappresenta il modo usuale d’impiegare il tempo. Ideata proprio da Ike, il presidente americano, che affermava risoluto: «Ciò che è importante raramente è urgente». La sua analisi si riferisce proprio all’urgenza e all’importanza delle attività. Collocando le urgenze sulle ascisse di una matrice righe per colonne e le rilevanze sulle ordinate, ne scaturiscono quattro criteri guida. Cose importanti e urgenti; cose importanti ma non urgenti; cose non importanti ma ritenute urgenti; cose per nulla importanti e niente affatto urgenti. Queste ultime, va da sé, sono da eliminare, poiché, pur rappresentando un’alta tentazione, producono perdita di tempo che si ripercuote su efficienza ed efficacia. Le urgenti-non-importanti generano solo “rumore”, per cui vanno gestite attribuendo loro il tempo giusto nel momento giusto. Sono materia da negoziare.
Le prime e le seconde attività costituiscono, dunque, quell’ottanta per cento del nostro tempo che non genera valore, ma che brucia quanto di meglio si ha nella vita. A ciò che invece conta davvero dedichiamo solo il venti per cento del tempo. Con un aggravante, determinato dall’urgenza piuttosto che dall’importanza. Per cui siamo immediatamente presi dalle cose urgenti ed importanti, e subito dopo dalle cose urgenti ma non importanti. Terzo interesse è toglierci di torno tutto ciò che in qualche modo crea fastidio. Solo in ultimo dedichiamo attenzione alle cose importanti della vita, le quali, come osserva Ike, non sono affatto urgenti. Queste attività che siamo portati a trascurare rappresentano tutto ciò che dovrebbe essere pianificato nei tempi lunghi. Ma proprio per questo rimandiamo continuamente ogni programma, poiché l’immediato è sempre più assillante. In realtà fare progetti non è avere la testa fra le nuvole, come la maggior parte di persone pensa, ma sapere quale direzione scegliere per costruire il futuro. Perché, senza ricorrere alla chiaroveggenza, questo è l’unico modo per prevederlo. Chi progetta e costruisce sa bene quanto la programmazione sia alla base delle soluzioni corrette. Persino Dio, architetto dell’universo, creò il mondo e tutto ciò che seguì «nel tempo che aveva fissato». Così è scritto nella Genesi. Come, più che scritto, è sottinteso che non solo il lavoro dovrà occupare tutto il nostro tempo. «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto».
Ingredienti per 4 persone
20 bignè da farcire
per la crema:
75 gr di pistacchi tritati
250 gr di latte
50 gr di zucchero
25 gr di amido di grano
100 gr conserva di zucca
per la salsa:
500 gr di succo d’anguria
25 gr di amido di mais
100 gr di zucchero
5 gr di cannella in polvere
1 bustina di vaniglia
15 gr di acqua di gelsomino
per guarnire:
20 gr di cioccolato
uno spruzzo di pistacchi tritati
Possiamo considerare questo dolce una sorta di profiterol, realizzato però con ingredienti tipicamente siciliani. D’altra parte la grande cucina e la grande pasticceria tra Sette e Ottocento si ispirava al gusto della Corte francese. Ma attenzione, perché la glassa finale affonda le proprie radici sulla tradizione araba.
Date vita ad una crema, unendo latte tiepido, amido di grano e zucchero; in ultimo cospargetela con il trito di pistacchi e la conserva di zucca (la cosiddetta zuccata). Questa crema costituirà la farcitura di piccoli bignè, che disporrete a piramide, su di un raffinato piatto da portata per dolci.
Contemporaneamente preparate una salsa con la quale ricoprire i bignè. Gli ingredienti (cui farete raggiungere lentamente l’ebollizione e poi raffreddare), sono il succo di anguria e l’acqua profumata al gelsomino, l’amido di mais, lo zucchero, la cannella e la vaniglia: i medesimi ingredienti del gelo di melone, qui utilizzati in un trionfo di sapori. Guarnite con riccioli di cioccolata e pistacchi tritati.
[Fotografia tratta dalla rivista “A Tavola”, rielaborata graficamente da Sebastiano Occhino]
Ingredienti per 8 persone
1 fetta di pan di Spagna di 200 gr ca.
60 gr di marmellata di arance amare
50 gr di Cointreau
150 gr di cioccolato di copertura
100 gr di croccante
150 gr di albumi
300 gr di zucchero
poco zucchero a velo
per il biscuit:
2 uova, 75 gr di zucchero
1 bustina di vaniglia
250 gr di panna
Questo biscuit è il non plus ultra della leggerezza: una nuvola bianca in un insieme di “inganni” propriamente barocchi, laddove l’apparentemente morbido è in realtà croccante, e l’apparentemente caldo nasconde con un composto ghiacciato.
In una ciotola ponete due uova, zucchero e vaniglia; poi battete a lungo, in ultimo aggiungete la panna montata. Versate il tutto in uno stampo preferibilmente metallico, che avete avuto cura di raffreddare preventivamente e che ora tornerete a riporre in freezer. Lasciate consolidare il composto per cinque ore. Quindi sformate il biscuit e cospargetelo del croccante pestato (di nocciole e mandole tostate e caramellate); poi ricopritelo con cioccolato fuso e riponetelo ancora una volta in freezer.
Preparate un piano di pan di Spagna, imbevuto di Cointreau e cosparso uniformemente di marmellata di arance amare. Trasferite il pan di Spagna su un sostegno di cartone e, quando il biscuit sarà ben freddo, ponetevelo sopra.
A lato, realizzate una meringa, battendo a neve albumi e zucchero. Versate il composto sul biscuit fino a ricoprire anche la base e spolverizzate con zucchero a velo. Mettete in forno, contate tre minuti esatti. Servite immediatamente: la meringa bollente sorprenderà per il suo contenuto gelato.
[Fotografia tratta dalla rivista “A Tavola”, rielaborata graficamente da Sebastiano Occhino]
LE ISOLE EOLIE.
Si racconta che un principe greco trovò riparo sulle isole dell’arcipelago. Questi era talmente bravo a prevedere il tempo grazie all’osservazione delle nuvole e dal movimento dei fumi provenienti dai vulcani del luogo, che gli isolani, che vivevano per lo più di pesca, lo mitizzarono a tal punto da farne una figura del tutto superiore.. Il principe si chiamava Eolo, fu facile confonderlo con Eolo, il dio greco dei venti. L’arcipelago prese perciò il nome di Eolie, ossia isole dei venti.
L’arcipelago situato di fronte a Milazzo, sulla costa tirrenica della provincia di Messina, è d’origine vulcanica e presenta due vulcani in attività come Stromboli e Vulcano. Per la sua unicità, le Eolie sono state nominate Patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO. Sono visitate ogni anno da più di 200.000 turisti per la loro bellezza. Le isole dell’arcipelago sono sette (a cui si aggiungono isolotti e scogli affioranti dal mare) e per la precisione:
Alicudi
Filicudi
Lipari
Panarea
Salina
Stromboli
Vulcano
Sono raggiungibili tramite aliscafi e traghetti, oltre che da Milazzo, Sant’Agata di Militello e Messina, anche da Palermo, Reggio Calabria e Napoli. Esistono anche collegamenti a richiesta con elicottero dagli aeroporti di Catania e Reggio Calabria
Tutte le foto presenti nelle Gallery delle Isole Eolie sono tratte dall’archivio di Wikimedia Commons. Per ogni riferimento fotografico consultare il sito.
LIBRI D’ARTISTA.
Ne abbiamo già parlato: Stephane Mallarmé pubblicò “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard” nel 1897, anche se l’edizione definitiva si ebbe nel 1914 per le Editions de la Nouvelle Revue Francaise. Nel 1918, a conclusione del primo conflitto mondiale, Guillaume Apollinaire fa invece uscire “Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916”. Fortuna per noi, esiste internet, cosicché con un semplice gesto del dito indice potrete vedere e sfogliare l’edizione originale pubblicata per i tipi del Mercure de France. È impreziosita da un ritratto dell’autore, inciso su legno da René Jaudon, che riproduce un disegno di Pablo Picasso. Apollinaire è rappresentato con la testa bendata e la medaglia, essendo stato ferito nel corso della guerra.
Assegnato, quale sottotenente, alla 45.ma batteria del 38° Reggimento di artiglieria, è di stanza a Champagne. A partire da maggio 1915, sotto il fuoco degli obici, programma una piccola raccolta delle sue poesie più recenti e riesce persino a stamparne alla bene in meglio una sessantina di copie col titolo di “Case d’Armons”. Il processo tipografico lascia a desiderare, per cui costringe i compagni d’arme a ritoccare a mano le imperfezioni di ogni copia. Lui interviene con aggiunte e ripensamenti. Queste poesie, anticipano l’opera vera e propria che vedrà la luce nel 1918, lo stesso anno in cui Giuseppe Ungaretti lo troverà in fin di vita nel suo appartamento.
Apollinaire, come Ungaretti, è un poeta, non un artista. I suoi rivoluzionari componimenti non sono ancora l’esempio di un Libro d’artista, ma scuoteranno il mondo delle arti visive quanto quello della letteratura. I “Calligrammes” segnano il limite valicato tra poesia e arte. In una lettera indirizzata ad André Billy, Apollinaire commenta «Per quanto riguarda i Calligrammes, sono una idealizzazione della poesia dai versi liberi e una precisione tipografica nel momento in cui la tipografia è in procinto di concludere brillantemente la sua carriera, all’alba dei nuovi mezzi di riproduzione che sono il cinema e il fonografo». Per la verità la tipografia, con le veloci linotype, si sta aprendo anch’essa alla tecnologia, ma il poeta ignaro di ciò si mostra irretito da altre innovazioni industriali che legano parola, suono, immagine. E pensa che questi nuovi mezzi espressivi possano influenzare la sua stessa poesia, attraverso artifici come l’eliminazione della punteggiatura, l’abolizione della metrica, l’esultanza del verso libero, la meraviglia grafica del calligramma.
Così il suo componimento poetico utilizza il verso per formare un disegno ispirato al soggetto della stessa poesia. Parole che divengono immagini o immagini che divengono parole. Intendiamoci, Apollinaire non ha inventato il calligramma, perché il “carmen” figurato dei latini o la “τεχνοπαíγνια” (technopaignia) dei greci hanno precorso le attuali sperimentazioni della “poesia visiva”, della “poesia concreta”. Le avanguardie del primo Novecento – con particolare riferimento al cubismo letterario e poi alle correnti spagnole del creazionismo e dell’ultraismo – hanno il merito di avere rilanciato pratiche utilizzate in passato, ma in modo discontinuo.
Apollinaire lo fa a ridosso degli anni Venti e, come il Futurismo, esalterà il “movimento” quale parola chiave della sua poetica. Non certo il movimento di Baudelaire, a metà del secolo precedente, che lasciava al suo “flâneur” la scoperta della moderna Parigi. Piuttosto il movimento come simultaneità dei punti di vista che può offrire un foglio bidimensionale. La parola e il senso del discorso si scompongono e si ricompongono in una immagine dalla forma compiuta. Non occorre spiegare alcunché, perché il rapporto con il lettore è istantaneo. L’immagine è già nei suoi occhi perché il libro espone raffigurazioni. Gli artisti, che seguiranno, coglieranno interamente la lezione.
FERROVIE DELLO STATO. Se dovete oltrepassare lo Stretto non ci contate, prendete un Pullman. Ma se volete vedere i luoghi della cultura siciliana affidatevi alla Fondazione FS, che in collaborazione con Trenitalia e Regione Siciliana, vara il progetto “I binari della Cultura. Sicilia Estate 2016, itinerari turistici in treno storico”. Treno storico significa: come riciclare quanto giaceva in magazzino. Diciotto treni d’epoca consentiranno di visitare i fiori all’occhiello della Sicilia Orientale. Con la “Centoporte”, carrozze degli anni ‘30, trainate da una locomotiva diesel d’epoca D445 si scoprirà il Val di Noto, culla del Patrimonio Unesco. Con le vecchie automotrici ALn 668.1600 raggiungerete la Valle dei Templi, il Giardino della Kolymbethra, Porto Empedocle. Con le carrozze tipo 1959 trainate dalla locomotiva storica E646, costeggiando lo Jonio tra mare ed Etna sarete a Taormina. Viaggi volutamente lenti, per apprezzare incantevoli paesaggi che i secoli hanno lasciato. Ecco come organizzare un’estate solamente riciclando. “Absit iniuria verbo”, sia detto cioè senza offesa, se uso il termine riciclare. Perché oltre ai treni si potrebbero riciclare anche le idee. In questi stessi mesi, dalla stazione parigina di Saint-Lazare potete prendere il “Treno degli impressionisti”. La sede di partenza ricorda i dipinti di Monet e da qui si può raggiungere Giverny-Vernon, oppure Rouen o Le Havre. All’interno delle carrozze sono collocati pannelli descrittivi, viaggiando verso la Normandia di Pissarro, Degas, Renoir. Se avete tablet o smartphone, grazie a hotspot Wi-Fi e codici QR, accedete ai siti web, per arricchire le conoscenze prima di visitare i luoghi dal vivo. «Nous sommes ici. Bon voyage».
di Sergio Bertolami
Dovremmo utilizzare il tempo come una vera risorsa; ma a differenza di altre, il tempo è la risorsa che sappiamo meno gestire. Proverò a chiarirlo, ricorrendo ad una serie di insegnamenti che teorici contemporanei hanno elaborato. Non sono risolutivi, soprattutto se non siamo inclini a condividerne i principi di fondo, per poi applicarli ai contesti più vari e articolati.
Una risorsa, nei momenti di necessità, fornisce un aiuto. Il tempo è indubbiamente una risorsa “preziosa”, ne abbiamo coscienza quando ci manca. È anche una risorsa “diffusa e democratica”: per tutti, ricchi o poveri, una giornata vale sempre 24 ore del nostro tempo. Per questo motivo è anche una risorsa “necessaria”, lo è sempre, qualunque cosa si faccia. Ma occorre fare attenzione: il tempo va usufruito subito, non possiamo immagazzinarlo, perché è una risorsa “deperibile”; risparmialo oggi non significa poterlo accumulare per adoperarlo domani. Ed è “infungibile”, perché non è una risorsa intercambiabile con altre risorse: può essere sostituito solo da altro tempo. Possiamo utilizzare tecnologie per risparmiare tempo o ricorrere al tempo degli altri per farci aiutare; ma non possiamo acquisire esperienze e saperi se non impegnando il nostro tempo personale in modo diretto. Allora, ci accorgiamo che il tempo è anche una risorsa “limitata”, non basta mai.
Tuttavia, per quanto il tempo sia ristretto, riusciamo a consumarlo senza accorgerci. La legge di Parkinson postula che «il lavoro si espande fino ad occupare tutto il tempo a disposizione per completarlo… più tempo a disposizione si avrà, più se ne sprecherà». Un esempio? Un vecchio proverbio diceva: «L’uomo più occupato è quello che ha tempo da perdere». Da questo è possibile comprendere come la gestione del tempo quotidiano sia anzitutto una questione di cultura più che di tecnica. Un’agenda elettronica che notifica un appuntamento va programmata: ciò significa prendere coscienza di come si è deciso d’impiegare il tempo. Quando, poi, l’avviso compare sul monitor, spesso ci rendiamo conto di essere “fuori tempo” e dovere rinviare l’impegno. Ecco allora che siamo portati a giustificare di essere sommersi da mille cose, magari insorte in modo inaspettato, magari da adempiere per una parola data, magari sapendo che sono cose perfettamente inutili ma non abbiamo saputo rispondere di no.