Il tempo. Come guadagnarlo piuttosto che sprecarlo – 3/3

di Sergio Bertolami

Per dare una soluzione concreta all’agire dovremmo, dunque, comprendere la vera natura delle nostre attività. Se siamo capaci di affrontare una grande quantità di impegni possiamo definirci efficienti; ma quante volte riusciamo a completarli nei tempi giusti, così da definirci anche efficaci? La maggior parte di persone, in verità, tranquillizza la propria coscienza facendo solo un mucchio di cose, poco importa se siano produttive o meno. Sicuramente saranno importanti oppure urgenti, perché questi sono i due fattori principali che definiscono le attività. Ma solo l’urgenza è direttamente connessa al tempo, poiché l’importanza è sempre soggettiva: è legata cioè ad una attribuzione di valore. Il valore, scrive Franco Archibugi, «non è una proprietà fissa e inerente delle cose. È piuttosto una proprietà variabile la cui grandezza non dipende dalla natura della cosa in sé, ma da chi la valuta e dalle circostanze in cui è valutata». In altre parole sta ad ogni persona distinguere tra l’essenziale e il superfluo, così da definire le priorità. A questo proposito vale ricordare il principio di Pareto, che qualcuno conoscerà come “Legge 80/20”. Vilfredo Pareto afferma che «la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause». L’80% degli effetti, vale a dire, è determinato solo dal 20% delle cause. È un principio essenzialmente economico, ma è stato riformulato ed applicato a diverse situazioni. Nel nostro caso possiamo asserire che se il 20% della risorsa tempo genera l’80% del valore, escludendo le ore di sonno, solo per poco più di tre ore al giorno siamo davvero efficienti ed efficaci.

Tale esiguo valore dipende proprio dal modo in cui affrontiamo le attività. Quelle imposte dal sistema in cui agiamo e dagli imprevisti che dovremmo essere capaci di affrontare. Quelle, ben più importanti, inerenti alle scelte cui dare una risposta giusta e adeguata. Per aiutarci a gestire tutto ciò, potremmo richiamarci alla matrice di Dwight Eisenhower, che rappresenta il modo usuale d’impiegare il tempo. Ideata proprio da Ike, il presidente americano, che affermava risoluto: «Ciò che è importante raramente è urgente». La sua analisi si riferisce proprio all’urgenza e all’importanza delle attività. Collocando le urgenze sulle ascisse di una matrice righe per colonne e le rilevanze sulle ordinate, ne scaturiscono quattro criteri guida. Cose importanti e urgenti; cose importanti ma non urgenti; cose non importanti ma ritenute urgenti; cose per nulla importanti e niente affatto urgenti. Queste ultime, va da sé, sono da eliminare, poiché, pur rappresentando un’alta tentazione, producono perdita di tempo che si ripercuote su efficienza ed efficacia. Le urgenti-non-importanti generano solo “rumore”, per cui vanno gestite attribuendo loro il tempo giusto nel momento giusto. Sono materia da negoziare.

Le prime e le seconde attività costituiscono, dunque, quell’ottanta per cento del nostro tempo che non genera valore, ma che brucia quanto di meglio si ha nella vita. A ciò che invece conta davvero dedichiamo solo il venti per cento del tempo. Con un aggravante, determinato dall’urgenza piuttosto che dall’importanza. Per cui siamo immediatamente presi dalle cose urgenti ed importanti, e subito dopo dalle cose urgenti ma non importanti. Terzo interesse è toglierci di torno tutto ciò che in qualche modo crea fastidio. Solo in ultimo dedichiamo attenzione alle cose importanti della vita, le quali, come osserva Ike, non sono affatto urgenti. Queste attività che siamo portati a trascurare rappresentano tutto ciò che dovrebbe essere pianificato nei tempi lunghi. Ma proprio per questo rimandiamo continuamente ogni programma, poiché l’immediato è sempre più assillante. In realtà fare progetti non è avere la testa fra le nuvole, come la maggior parte di persone pensa, ma sapere quale direzione scegliere per costruire il futuro. Perché, senza ricorrere alla chiaroveggenza, questo è l’unico modo per prevederlo. Chi progetta e costruisce sa bene quanto la programmazione sia alla base delle soluzioni corrette. Persino Dio, architetto dell’universo, creò il mondo e tutto ciò che seguì «nel tempo che aveva fissato». Così è scritto nella Genesi. Come, più che scritto, è sottinteso che non solo il lavoro dovrà occupare tutto il nostro tempo. «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto».

La poesia visiva di Apollinaire

LIBRI D’ARTISTA.

Ne abbiamo già parlato: Stephane Mallarmé pubblicò “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard” nel 1897, anche se l’edizione definitiva si ebbe nel 1914 per le Editions de la Nouvelle Revue Francaise. Nel 1918, a conclusione del primo conflitto mondiale, Guillaume Apollinaire fa invece uscire “Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916”. Fortuna per noi, esiste internet, cosicché con un semplice gesto del dito indice potrete vedere e sfogliare l’edizione originale pubblicata per i tipi del Mercure de France. È impreziosita da un ritratto dell’autore, inciso su legno da René Jaudon, che riproduce un disegno di Pablo Picasso. Apollinaire è rappresentato con la testa bendata e la medaglia, essendo stato ferito nel corso della guerra.

Assegnato, quale sottotenente, alla 45.ma batteria del 38° Reggimento di artiglieria, è di stanza a Champagne. A partire da maggio 1915, sotto il fuoco degli obici, programma una piccola raccolta delle sue poesie più recenti e riesce persino a stamparne alla bene in meglio una sessantina di copie col titolo di “Case d’Armons”. Il processo tipografico lascia a desiderare, per cui costringe i compagni d’arme a ritoccare a mano le imperfezioni di ogni copia. Lui interviene con aggiunte e ripensamenti. Queste poesie, anticipano l’opera vera e propria che vedrà la luce nel 1918, lo stesso anno in cui Giuseppe Ungaretti lo troverà in fin di vita nel suo appartamento.

Apollinaire, come Ungaretti, è un poeta, non un artista. I suoi rivoluzionari componimenti non sono ancora l’esempio di un Libro d’artista, ma scuoteranno il mondo delle arti visive quanto quello della letteratura. I “Calligrammes” segnano il limite valicato tra poesia e arte. In una lettera indirizzata ad André Billy, Apollinaire commenta «Per quanto riguarda i Calligrammes, sono una idealizzazione della poesia dai versi liberi e una precisione tipografica nel momento in cui la tipografia è in procinto di concludere brillantemente la sua carriera, all’alba dei nuovi mezzi di riproduzione che sono il cinema e il fonografo». Per la verità la tipografia, con le veloci linotype, si sta aprendo anch’essa alla tecnologia, ma il poeta ignaro di ciò si mostra irretito da altre innovazioni industriali che legano parola, suono, immagine. E pensa che questi nuovi mezzi espressivi possano influenzare la sua stessa poesia, attraverso artifici come l’eliminazione della punteggiatura, l’abolizione della metrica, l’esultanza del verso libero, la meraviglia grafica del calligramma.

Così il suo componimento poetico utilizza il verso per formare un disegno ispirato al soggetto della stessa poesia. Parole che divengono immagini o immagini che divengono parole. Intendiamoci, Apollinaire non ha inventato il calligramma, perché il “carmen” figurato dei latini o la “τεχνοπαíγνια” (technopaignia) dei greci hanno precorso le attuali sperimentazioni della “poesia visiva”, della “poesia concreta”. Le avanguardie del primo Novecento – con particolare riferimento al cubismo letterario e poi alle correnti spagnole del creazionismo e dell’ultraismo – hanno il merito di avere rilanciato pratiche utilizzate in passato, ma in modo discontinuo.

Apollinaire lo fa a ridosso degli anni Venti e, come il Futurismo, esalterà il “movimento” quale parola chiave della sua poetica. Non certo il movimento di Baudelaire, a metà del secolo precedente, che lasciava al suo “flâneur” la scoperta della moderna Parigi. Piuttosto il movimento come simultaneità dei punti di vista che può offrire un foglio bidimensionale. La parola e il senso del discorso si scompongono e si ricompongono in una immagine dalla forma compiuta. Non occorre spiegare alcunché, perché il rapporto con il lettore è istantaneo. L’immagine è già nei suoi occhi perché il libro espone raffigurazioni. Gli artisti, che seguiranno, coglieranno interamente la lezione.

Il tempo. Come guadagnarlo piuttosto che sprecarlo – 2/3

di Sergio Bertolami

Dovremmo utilizzare il tempo come una vera risorsa; ma a differenza di altre, il tempo è la risorsa che sappiamo meno gestire. Proverò a chiarirlo, ricorrendo ad una serie di insegnamenti che teorici contemporanei hanno elaborato. Non sono risolutivi, soprattutto se non siamo inclini a condividerne i principi di fondo, per poi applicarli ai contesti più vari e articolati.

Una risorsa, nei momenti di necessità, fornisce un aiuto. Il tempo è indubbiamente una risorsa “preziosa”, ne abbiamo coscienza quando ci manca. È anche una risorsa “diffusa e democratica”: per tutti, ricchi o poveri, una giornata vale sempre 24 ore del nostro tempo. Per questo motivo è anche una risorsa “necessaria”, lo è sempre, qualunque cosa si faccia. Ma occorre fare attenzione: il tempo va usufruito subito, non possiamo immagazzinarlo, perché è una risorsa “deperibile”; risparmialo oggi non significa poterlo accumulare per adoperarlo domani. Ed è “infungibile”, perché non è una risorsa intercambiabile con altre risorse: può essere sostituito solo da altro tempo. Possiamo utilizzare tecnologie per risparmiare tempo o ricorrere al tempo degli altri per farci aiutare; ma non possiamo acquisire esperienze e saperi se non impegnando il nostro tempo personale in modo diretto. Allora, ci accorgiamo che il tempo è anche una risorsa “limitata”, non basta mai.

Tuttavia, per quanto il tempo sia ristretto, riusciamo a consumarlo senza accorgerci. La legge di Parkinson postula che «il lavoro si espande fino ad occupare tutto il tempo a disposizione per completarlo… più tempo a disposizione si avrà, più se ne sprecherà». Un esempio? Un vecchio proverbio diceva: «L’uomo più occupato è quello che ha tempo da perdere». Da questo è possibile comprendere come la gestione del tempo quotidiano sia anzitutto una questione di cultura più che di tecnica. Un’agenda elettronica che notifica un appuntamento va programmata: ciò significa prendere coscienza di come si è deciso d’impiegare il tempo. Quando, poi, l’avviso compare sul monitor, spesso ci rendiamo conto di essere “fuori tempo” e dovere rinviare l’impegno. Ecco allora che siamo portati a giustificare di essere sommersi da mille cose, magari insorte in modo inaspettato, magari da adempiere per una parola data, magari sapendo che sono cose perfettamente inutili ma non abbiamo saputo rispondere di no.

Mallarmé gioca a dadi

 

LIBRI D’ARTISTA.

Abbiamo scorso sommariamente alcuni esempi che anticipano di secoli il Libro d’artista, pur sempre rimanendo dei libri illustrati. Ma per un approccio ad esempi più recenti, pur semplificando notevolmente le possibili influenze, potremmo citare due poeti come Mallarmé e Apollinaire. L’uno a distanza di tempo dall’altro, infrangono la linearità del testo stampato e sperimentano una poesia visiva e un modo differente di leggere la composizione poetica. Mallarmé prelude “d’un colpo” alla surreale scrittura automatica, mentre Apollinaire, con i suoi ideogrammi, prende a disegnare oggetti che scaturiscono dal testo poetico. Sono gli anni legati al primo conflitto mondiale e l’opera di Apollinaire ne è un riferimento esplicito già dal titolo “Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916” che uscirà a conflitto ultimato nel 1918.

Cominciamo però da Stephane Mallarmé, del quale nel 1914 è pubblicato in volume, per le “Editions de la Nouvelle Revue Francaise”, la versione definitiva di un’opera apparsa in via sperimentale sulla rivista “Cosmopolis” nel 1897, un anno prima della sua morte. Il titolo è “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard“ (Un colpo di dadi mai abolirà il caso). Questo componimento poetico è un vero e proprio poema tipografico, tale da rivoluzionare la letteratura francese, poiché i versi rompono l’impostazione grafica tradizionale. Assumono nello spazio della pagina uno sviluppo libero. Ora a destra, ora a sinistra rispetto alla linea mediana. Con pause frequenti, rappresentate da più o meno ampi spazi bianchi, salti a gradini, per poi riunire le parole in blocchi. Potrete vedere (cliccando qui) l’effetto suggestivo nella riproduzione dell’originale conservato nella Biblioteca nazionale di Francia. Del poema di Mallarmé il 10 luglio 1914 furono tirate a Bruges cento copie numerate. Dieci esemplari non in vendita, su carta della “Papeterie de Monyal”, contrassegnate da numeri romani e le rimanenti 90 su “Vélein d’Arches”.

Per tratteggiare “Un coup de dés” affidiamoci alle parole di un commentatore d’eccezione, Paul Valery, che dopo aver veduto lo strabiliante testo, entusiasticamente scriveva: “…Mallarmé mi fece finalmente vedere come le parole erano sistemate sulla pagina. Mi sembrò di avere di fronte la forma ed il modello di un pensiero, posto per la prima volta in uno spazio circoscritto. Qui era lo spazio stesso che parlava, sognava, dava vita alle forme temporali. Aspettativa, perplessità, concentrazione, tutte erano cose visibili. Con i miei propri occhi ho potuto vedere i silenzi che le forme assumevano… Il mio sguardo si trovava di fronte a silenzi che stavano per materializzarsi… Mormorio, insinuazioni, folgore per gli occhi, era tutta una tempesta spirituale spinta di pagina in pagina fino al limite del pensiero, fino a un punto d’ineffabile rottura: là avveniva il prodigio; là proprio sulla carta, un indefinito bagliore di ultimi astri fremeva di infinita purezza in quel medesimo vuoto infracosciente in cui, come materia di specie nuova, suddivisa in gruppi, in file, in sistemi, ’coesisteva’ la Parola!”.

Il manoscritto del “Coup de dés” mostrato a Paul Valery era composto da grandi pagine quadrettate, al fine di poter disporre i versi nella precisa posizione che l’autore aveva indicato. Mallarmé coltivava il progetto di un’edizione di lusso della sua opera. Abbozzò a mano i caratteri che voleva fossero riprodotti nel testo a stampa. Dopo estenuanti ricerche di tipografia in tipografia, da Didot trovò finalmente il carattere in piombo che maggiormente si avvicinava alla sua idea. Interpellò, anche, l’amico Odilon Redon – precursore del simbolismo pittorico – perché si occupasse delle illustrazioni.
Il quale, in una lettera del 28 aprile del 1898 gli scriveva: “Vollard mi ha fatto vedere una carta eccezionale: credo che potremmo tentare la stampa delle litografie su carta bianca, cioè sulla carta stessa del testo; voglio usare un tratto leggero, biondo pallido, per non contrastare l’effetto dei caratteri tipografici né la novità del loro impiego. Ho delle lastre già trattate, questo per farvi capire che mi metterò molto presto all’opera…”

Nonostante ciò la splendida edizione di rottura, rispetto a tutte le convenzioni consolidate, non vide mai la luce e gli estimatori dovettero accontentarsi di acquistare all’asta i fogli delle bozze tirate a stampa. Tuttavia quanto è stato pubblicato tra il 1897 e il 1914 è bastato affinché le avanguardie del primo Novecento potessero svolgere le loro sperimentazioni, tanto da aprire la strada alla “poesia visiva” e alla “poesia sonora”.

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Il tempo. Come guadagnarlo piuttosto che sprecarlo – 1/3

Kairòs, copia ispirata al bronzo di Lisippo
e conservata nel Museo di Antichità di Torino

di Sergio Bertolami

In queste poche righe proverò a parlare del tempo, non certo per dare una risposta ad un tema filosofico universale, quanto piuttosto per riflettere su come più opportunamente potremmo impiegarlo nel quotidiano. Per questo comincerei con la fatidica domanda: «Che cos’è il tempo?». Nelle Confessioni, Agostino d’Ippona così risponde «Quando nessuno me lo chiede, lo so, ma, se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so più». Agostino concentra le sue considerazioni proprio sul vivere una realtà di per se dinamica, perché, dice, «tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Infatti questi tre tempi sono in qualche modo nell’animo, né vedo che abbiano altrove realtà: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione diretta, il presente del futuro l’attesa». Il tempo è, dunque, un’estensione del tutto umana; concepibile solo all’interno della volontà creatrice di Dio, che a differenza nostra non ha né un “prima” né un “dopo”, ma è eterno. Mentre il tempo che ha principio e fine è una sua creatura ma sta a noi gestirlo. A noi che è dato da vivere, dall’alfa all’omega.

In questi passaggi di riflessione è racchiusa una concezione del tempo che la classicità grecoromana aveva già esplorato, legandola oltretutto alla divinità, come indica Agostino. Per meglio dire, a una poliedricità del divino. Per i greci, Aion rappresenta il tempo infinito dell’eternità; Kronos il tempo sequenziale del passato/presente/futuro. I romani doppiano i greci con Eone e Saturno. Ciò che dell’antichità meraviglia è la profondità che non riusciamo più a percepire, indotti a intendere i protagonisti della mitologia come figurine distanti da noi e spesso risibili. Sono in realtà allegorie, attraverso cui rendere tangibili concetti spesso oscuri. Concetti che al contrario andrebbero approfonditi e spiegati. Se ci riferiamo, per esempio, a un famoso epigramma di Posidippo, ci accorgeremmo che un terzo dio soprassedeva il tempo, oltre ad Aion e Kronos. Lo rappresenta Lisippo nel IV secolo in un bassorilievo in bronzo [nell’immagine una copia in marmo]. Si tratta di Kairòs, divinizzazione  di un concetto centrale nel pensiero greco: il tempo  opportuno e conveniente, il momento propizio. La personificazione romana è declinata al femminile: Occasio, e la divinità antitetica si chiama Pœnitentia, poiché persa la buona occasione, l’opportunità favorevole, non rimane che subirne la conseguente penitenza.

Kairòs ed Occasio sono ambedue numi difficili da riconoscere. Hanno piedi alati, il volto coperto da un folto ciuffo sulla fronte e il capo così raso da rendere impossibile afferrarli dal retro per i capelli una volta sfuggiti. L’immagine allegorica dimostra che, perso il momento propizio, non potremo che rammaricarci. È possibile, però, rimediare, sapendone trarre un’esperienza e capacitarci che le opportunità vanno colte immediatamente. Per farlo occorre riflettere che, se nel passato il tempo era considerato influente in quanto scandito dai ritmi naturali (la notte e il giorno, l’estate e l’inverno, la semina e il raccolto), nel vivere odierno è divenuto imprescindibile.

Là dove l’arte si evidenzia

 

LIBRI D’ARTISTA.

Ruscha con Twenty-six gasoline stations (1963) o Every Building on the Sunset Strip (1966) oppure Dieter Roth con Daily Mirror (1970), danno avvio al nuovo genere contemporaneo di espressione artistica. Seguono a ruota le prime pubblicazioni del movimento internazionale che sotto la denominazione Fluxus riunirà oltre ad artisti, anche architetti, compositori o designers. Si hanno così i libri di George Maciunas che di Fluxus è il fondatore, o le opere del Minimalismo di Solomon “Sol” LeWitt o del Concettualismo espresso da Joseph Kosuth o Timm Ulrichs.

Eppure mi piace mostrare come questo interesse per il libro, quale medium artistico, è suggerito da una chiara serie di antecedenti che riscontriamo nella storia più remota. Perché c’è sempre un prima nelle cose e nulla si origina all’improvviso, ma da opportunità latenti d’ispirazione. Potremmo in questo modo essere ricondotti ai pittogrammi rupestri preistorici, alle tavolette cuneiformi sumere o a quelle cerate romane, oppure ai papiri egiziani, ai libri aztechi o tibetani. Senza spingermi tanto indietro nel tempo, mi basta citare certi libri che, pur mantenendo la loro qualità di “opere di contenuto”, ne ricercano una forma differente giustificando una vera e propria indagine sulle altrettanto valide “qualità fisiche”.

Tale ricerca è parte della storia dell’arte, dal momento che le raffigurazioni del libro divengono tanto importanti quanto il testo. È vero, si obietterà che la loro unica funzione era quella di decorare il documento che accompagnavano. Ma non stiamo parlando ancora di veri e propri libri d’artista, ma di avvertimenti, di segnali, che si svilupperanno nel tempo, quando una sensibilità matura riuscirà a coglierli. Un chiaro esempio è riscontrabile nei libri di canti gregoriani, miniati dai monaci nel corso del Medioevo. Capilettera ornati da fiori o da scene, bordi decorati da “ramage”, tutti con la stessa funzione decorativa.

Ma la ricerca e l’osservazione si spingono oltre il margine del foglio e incidono sulla struttura. Nel Codex Rotundus (o codice rotondo) la forma si fa circolare e – rispetto ai grandi codici sacri da deporre su imponenti leggii d’altare – questo libro riduce le dimensioni, giacché la sua funzione primaria è quella di essere trasportato facilmente. È infatti un “Libro d’Ore”, composto nel 1480 a Bruges e conservato nella Biblioteca della Cattedrale di Hildesheim in Germania. Ha solo nove centimetri di diametro ed è riccamente illustrato per scandire le ore liturgiche ricorrenti nei diversi momenti dell’anno. Libri come questo erano imprescindibili nelle comunità religiose e nelle famiglie abbienti che potevano sostenere l’onere di acquistarne un esemplare. Ma l’Europa più colta del tempo annovera anche opere manoscritte, come quella del Beato di Liébana i cui “Commentari” furono miniati a partire dal secolo IX in vari monasteri spagnoli. Oppure il Libro d’Ore di Maria di Navarra (sec. XIV) dipinto da Ferrer Bassa o il bellissimo “Très Riches Heures du Duc de Berry”, capolavoro della pittura franco-fiamminga del XV secolo, opera dei Fratelli Limbourg.

Tutti libri artistici, dunque, e non ancora d’artista. Ma seguite il mio ragionamento e presto ci arriveremo.

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DOMANDE & RISPOSTE: Cosa è un’entasis?


In italiano la chiamiamo semplicemente “èntasi“, in greco “èntasis” (ἔντασις), che tradotto letteralmente significa “tensione, sforzo”, per Vitruvio “gonfiezza della colonna”. È un termine tecnico, utilizzato da architetti e storici dell’arte per definire quell’ingrossamento del fusto di una colonna, che compare a circa un terzo dalla base. Se osserviamo infatti una colonna, noteremo che sovente si presenta rastremata, ossia affusolata verso l’alto, con un suo diametro massimo alla base (imoscapo) e uno minimo alla sommità (iposcapo). A questa progressiva riduzione verso l’alto della circonferenza del fusto, si aggiunge l’entasis, ossia un più o meno accentuato rigonfiamento in prossimità della base.

Colonne doriche del tempio di Era a Paestum con rastremazione ed entasi (entasis, in greco).

Questo ingrossamento indica uno sforzo di “tensione”, che richiama alla memoria le antiche colonne quando dovevano sopportare il peso sovrastante della trabeazione. Tale peso era distribuito uniformemente, ad esempio, sulle singole colonne di un peristilio, grazie ai capitelli, i quali sotto il profilo statico hanno la funzione di convogliare i carichi in asse alla colonna stessa. Lo sforzo di tensione è semplicemente apparente nell’architettura in pietra, poiché le colonne sono sovradimensionate rispetto ai carichi effettivi; ma era al contrario reale nell’architettura di epoca tardo antica, quando i templi erano costruiti quasi interamente di legno. Sappiamo infatti che un tronco di legno male si presta ad essere utilizzato per reagire a quello che i tecnici chiamano “carico di punta”. Pertanto sotto uno sforzo di compressione si deforma proprio alla base, in altri termini si schiaccia, determinando una deformazione delle fibre e una conseguente dilatazione della circonferenza: fenomeno che potrebbe preannunciare la rottura.

Non è da escludere, quindi, che nell’architettura classica, realizzata in pietra, l’origine dell’entasis sia da ricercarsi nella “mimesi”, ovvero nella imitazione, del fenomeno elastico o plastico delle primitive strutture lignee. Elastico, se consideriamo una deformazione che aumenta progressivamente, ma che potrà fare tornare il pilastro ligneo allo stato iniziale, una volta scaricata la struttura. Come nel caso di una struttura precaria: un puntellamento, un ponteggio. È fenomeno plastico, nel caso in cui la deformazione diviene permanente con il tempo, perché il carico rimane stabile: ad esempio in un tempio o in altre costruzioni. L’entasis non è sempre presente nelle colonne antiche. Infatti nel caso del dorico arcaico o dell’architettura etrusca molte volte l’entasis può essere totalmente assente, oppure al contrario può essere fortemente accentuata.

Partenone – Pianta e correzioni ottiche

Oltre a queste spiegazioni di ordine statico, secondo alcuni studiosi, l’entasis serviva a correggere le deformazioni ottiche tipiche di una architettura, come quella greca, interamente leggibile con un solo colpo d’occhio: una serie di colonne circondano il naòs, (la cella sacra) e sostengono il sistema di copertura. Guardando i loro templi, i greci, attenti ai fenomeni naturali, hanno percepito che la serie ripetitiva delle colonne, tutte allineate, dà origine a particolari effetti visivi di curvatura dello stilobate (piano di spiccato delle colonne) e ad un assottigliamento ottico del fusto. L’entasis, con il suo rigonfiamento, corregge il gioco di alterazione della vista.

Questi studi sono stati considerati dai trattatisti, a cominciare da Vitruvio Pollione (De Architettura) fino agli scrittori rinascimentali, che ne hanno dettato norme precise. Ad esempio le specifiche classiche di Vignola (Regola delli cinque ordini dell’architettura) stabiliscono che tutte le colonne siano affusolate correttamente, e contemporaneamente rigonfie, per sembrare visivamente corrette; altrimenti la colonna una volta installata presenterà un’apparenza ricurva. La posizione ed il grado di questa curvatura, chiamata appunto entasis, varia con l’ordine architettonico. Tuttavia, nonostante le indicazioni dei trattati di architettura, nelle realizzazioni pratiche di colonne in pietra, la soluzione estetica, scissa dalle concrete imposizioni fisiche delle colonne lignee, è sempre stata dovuta alla sensibilità artistica di ciascun progettista.

L’Entasi della Colonna

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di pramit marattha da Pixabay

Cos’è un libro d’artista?

 

LIBRI D’ARTISTA.

Risponderei: il libro d’artista è il mezzo espressivo di un lavoro artistico. Tutti saprebbero identificare un lavoro artistico guardando un quadro. Nel nostro caso specifico il mezzo prescelto per esprimere un’idea è il libro. Col progetto Black & White di Experiences, ad esempio, il libro è pubblicato in edizione limitata e numerata, ma abbiamo tanti altri autori che hanno prediletto la medesima strada. La maggior parte, però, ha preferito il libro come esemplare singolo, per questo motivo si usa indicarlo con l’espressione francese di “unique”. Sull’oggetto libro, l’autore ha, quindi, lavorato per dare vita ad un’opera d’arte che ha valore “di per sé stessa”.

In realtà gli artisti si sono occupati per secoli di libri unici come i manoscritti o multipli come quelli prodotti a stampa. Ciò nonostante il libro d’artista si è imposto come un nuovo genere legato alle “Belle Arti” solo nella seconda metà del XX secolo. Il libro d’artista è, perciò, l’opera d’arte di un artista visivo che usa, nella preparazione dei suoi lavori, un formato standard di libro oppure un supporto ispirato a qualsiasi mezzo di trasmissione scritto, come è possibile ritrovarlo nella storia. Basti pensare a tavolette d’argilla, a materie vegetali, a conchiglie, ossa, pergamene, carta, metalli. Un esempio di questa usualità con i supporti storici potrebbe essere la ricerca di Gerard de Brénnel, artista che assomma nei suoi lavori influenze, spagnole e francesi, tratte dalla plastica, dall’incisione o dalla serigrafia. Uno dei suoi lavori è nella immagine che accompagna questo articolo.

Una cosa è certa, a metà del XX secolo, gli artisti hanno iniziato a sperimentare mezzi, formati, nonché materiali, meno usuali, così da trovare strade alternative ai tradizionali generi di espressione, quali pittura, scultura od opere grafiche. Interessati dal supporto “libro”, hanno iniziato a utilizzare questo mezzo antico (legato fino ad allora ai testi letterari) per un uso assolutamente nuovo di sperimentazione artistica. Vedremo – se mi seguirete – qualche esempio antico e moltissimi esemplari della produzione contemporanea.

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