Lungo i binari della cultura

 

FERROVIE DELLO STATO. Se dovete oltrepassare lo Stretto non ci contate, prendete un Pullman. Ma se volete vedere i luoghi della cultura siciliana affidatevi alla Fondazione FS, che in collaborazione con Trenitalia e Regione Siciliana, vara il progetto “I binari della Cultura. Sicilia Estate 2016, itinerari turistici in treno storico”. Treno storico significa: come riciclare quanto giaceva in magazzino. Diciotto treni d’epoca consentiranno di visitare i fiori all’occhiello della Sicilia Orientale. Con la “Centoporte”, carrozze degli anni ‘30, trainate da una locomotiva diesel d’epoca D445 si scoprirà il Val di Noto, culla del Patrimonio Unesco. Con le vecchie automotrici ALn 668.1600 raggiungerete la Valle dei Templi, il Giardino della Kolymbethra, Porto Empedocle. Con le carrozze tipo 1959 trainate dalla locomotiva storica E646, costeggiando lo Jonio tra mare ed Etna sarete a Taormina. Viaggi volutamente lenti, per apprezzare incantevoli paesaggi che i secoli hanno lasciato. Ecco come organizzare un’estate solamente riciclando. “Absit iniuria verbo”, sia detto cioè senza offesa, se uso il termine riciclare. Perché oltre ai treni si potrebbero riciclare anche le idee. In questi stessi mesi, dalla stazione parigina di Saint-Lazare potete prendere il “Treno degli impressionisti”. La sede di partenza ricorda i dipinti di Monet e da qui si può raggiungere Giverny-Vernon, oppure Rouen o Le Havre. All’interno delle carrozze sono collocati pannelli descrittivi, viaggiando verso la Normandia di Pissarro, Degas, Renoir. Se avete tablet o smartphone, grazie a hotspot Wi-Fi e codici QR, accedete ai siti web, per arricchire le conoscenze prima di visitare i luoghi dal vivo. «Nous sommes ici. Bon voyage».

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Il tempo. Come guadagnarlo piuttosto che sprecarlo – 2/3

di Sergio Bertolami

Dovremmo utilizzare il tempo come una vera risorsa; ma a differenza di altre, il tempo è la risorsa che sappiamo meno gestire. Proverò a chiarirlo, ricorrendo ad una serie di insegnamenti che teorici contemporanei hanno elaborato. Non sono risolutivi, soprattutto se non siamo inclini a condividerne i principi di fondo, per poi applicarli ai contesti più vari e articolati.

Una risorsa, nei momenti di necessità, fornisce un aiuto. Il tempo è indubbiamente una risorsa “preziosa”, ne abbiamo coscienza quando ci manca. È anche una risorsa “diffusa e democratica”: per tutti, ricchi o poveri, una giornata vale sempre 24 ore del nostro tempo. Per questo motivo è anche una risorsa “necessaria”, lo è sempre, qualunque cosa si faccia. Ma occorre fare attenzione: il tempo va usufruito subito, non possiamo immagazzinarlo, perché è una risorsa “deperibile”; risparmialo oggi non significa poterlo accumulare per adoperarlo domani. Ed è “infungibile”, perché non è una risorsa intercambiabile con altre risorse: può essere sostituito solo da altro tempo. Possiamo utilizzare tecnologie per risparmiare tempo o ricorrere al tempo degli altri per farci aiutare; ma non possiamo acquisire esperienze e saperi se non impegnando il nostro tempo personale in modo diretto. Allora, ci accorgiamo che il tempo è anche una risorsa “limitata”, non basta mai.

Tuttavia, per quanto il tempo sia ristretto, riusciamo a consumarlo senza accorgerci. La legge di Parkinson postula che «il lavoro si espande fino ad occupare tutto il tempo a disposizione per completarlo… più tempo a disposizione si avrà, più se ne sprecherà». Un esempio? Un vecchio proverbio diceva: «L’uomo più occupato è quello che ha tempo da perdere». Da questo è possibile comprendere come la gestione del tempo quotidiano sia anzitutto una questione di cultura più che di tecnica. Un’agenda elettronica che notifica un appuntamento va programmata: ciò significa prendere coscienza di come si è deciso d’impiegare il tempo. Quando, poi, l’avviso compare sul monitor, spesso ci rendiamo conto di essere “fuori tempo” e dovere rinviare l’impegno. Ecco allora che siamo portati a giustificare di essere sommersi da mille cose, magari insorte in modo inaspettato, magari da adempiere per una parola data, magari sapendo che sono cose perfettamente inutili ma non abbiamo saputo rispondere di no.

Una sontuosa cena barocca – 5/7

ROSA DI FILETTO. 

Ingredienti per 8 persone

1 filetto di manzo senza testa di circa 1,5 kg
10 prugne secche
140 gr di cipolle
150 gr di carote, olio, burro, sale, pepe
100 gr di Marsala secco
100 gr di brodo

 Con un bel trancio di filetto, formate una sfera, battendo con la mano la carne, con delicatissimi colpi. Per mantenerne la forma, legate e sistemate il filetto, unto con una noce di burro, in una teglia ben oleata. Disponete le cipolle e le carote tagliate in fettine sottili; aggiungete sale e pepe e passate in forno caldo a 200° per non più di quindici minuti, cosicché la carne risulti ancora rosata.

Inumidite con vino Marsala e quindi con il brodo di carne. Poi rimettete la teglia ancora in forno per un’ora.

Quando la carne sarà cotta al punto giusto, toglietela dal forno e lasciatela assestare e raffreddare per circa venti minuti. Ora tagliatela a spicchi regolari: basta incidere, senza arrivare fino alla base, la sfera di carne con una croce e successivamente con una seconda croce in diagonale, in modo da formare otto spicchi semiaperti, che ricordano una rosa sbocciata.

Ponete la rosa che avrete ottenuto su di un piatto di servizio, guarnite con verdure cotte al vapore, come ad esempio nastri di carote. I singoli piatti potranno essere inumiditi con il fondo di cottura ben caldo, sgrassato e filtrato, servito in apposita salsiera.

[Fotografia tratta dalla rivista “A Tavola”, rielaborata graficamente da Sebastiano Occhino]

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La città ideale del Rinascimento

 

PROSPETTIVE.

Di solito gli ideali non vanno d’accordo con la realtà, anche se molti ci hanno provato. Si dice: è solo un’utopia. Questo valeva anche per il concetto di “Città ideale” ideato nel Cinquecento. Nelle Corti, infatti, fu molto discusso, disegnato e dipinto, ma poco fu realizzato. Pura e semplice fantasia? Se pensiamo, però, che la realtà che viviamo oggi, sarebbe stata considerata un’utopia in epoca rinascimentale, nasce spontanea una riflessione: con il tempo, anche le utopie si potrebbero realizzare davvero. È solo una questione di perseveranza storica (di fantasia e creatività).

 

Il Tema
Il vero dibattito sul rapporto tra urbanistica del tempo e l’utopia di una città ideale, lo registriamo in periodo umanistico e rinascimentale. Molte furono le realizzazioni architettoniche ispirate al concetto teorico da parte degli architetti ed artisti dell’epoca, ma pochissime furono le realizzazioni concrete. In linea teorica l’utopia della città ideale si legò ad altre tematiche molto dibattute: la centralità dell’uomo nella natura, la riscoperta della cultura e dell’arte greco-romana, l’imitazione dell’arte classica. Ritroviamo quest’ultima negli studi di Vitruvio (nel famoso De architectura) e nelle ricerche dell’Accademia della Virtù (a cui partecipò anche il Vignola e Claudio Tolomei). Nell’Accademia si svilupparono tematiche rilevanti, come l’organizzazione prospettica, che trattava i fondamenti della teoria delle proporzioni e della misura architettonica.

Il rilancio umanistico della città, come ambiente distinto dalla natura, in diretto rapporto con la dignità e l’agire dell’uomo, messo quest’ultimo al centro dell’indagine filosofica, apre tutta la stagione rinascimentale. L’artificialità dello spazio urbano (ben diverso dalla natura), inteso come spazio dell’opera e dell’esperienza umana, lo rese passibile d’astrazione idealistica, fino ad oggettualizzarlo in una visione utopistica. Le città-stato dell’Umanesimo, che poi sono le “città del principe”, contengono in sé funzionalità ed estetica. Le diverse arti e l’immagine del signore coincidono complessivamente nell’immagine cittadina. Non come somma di interventi singoli dei cittadini, ma in un unico rapporto urbano.

Il concetto di  città-stato corrisponde con quello di comunità civica, quindi simbolo della vita associata che vi si svolge. Da qui l’astrattezza dell’architettura diviene ideale o idealizzabile. Perciò, amministrate politicamente da signorie cittadine (e dalla comunità locale) tali città possedevano tutta la novità e la rappresentatività di un unico concetto di città idealizzabile. Per rappresentare la propria immagine, il sogno dei principi passò, quindi, dal castello o dal palazzo, a quello di una intera città, tale da divenire funzionalmente ed esteticamente perfetta. Così la città ideale aveva come finalità architettonica l’equilibrio, l’ordine, la funzionalità e la razionalità formale, che potesse essere rappresentazione e traduzione concreta della perfezione della guida politica del principe.

Tali aspirazioni, nel XV secolo, portarono, oltre alla progettazione di nuove città, anche all’apertura di nuove prospettive nella città, al suo ampliamento, alla sua trasformazione, e nella maggior parte dei casi al semplice abbellimento. Nel XVI secolo le forti tensioni politiche e militari in tutta Europa, portarono ad irrobustire le proprie difese. Nacquero castelli dalla geometria perfetta (come quella idealizzata), che finirono per trasformare i centri urbani secondo linee e direttrici più regolari. Tuttavia, nell’urgenza militare, alcuni signori diedero vita a città o cittadelle militari. Ne è un esempio la città-fortezza di Terra del Sole, costruita al termine del Cinquecento, per decisione di Cosimo I de’ Medici. In particolare, tra le città-fortezza ben si colloca il castello a forma di stella e l’abitato di Palmanova.

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Mallarmé gioca a dadi

 

LIBRI D’ARTISTA.

Abbiamo scorso sommariamente alcuni esempi che anticipano di secoli il Libro d’artista, pur sempre rimanendo dei libri illustrati. Ma per un approccio ad esempi più recenti, pur semplificando notevolmente le possibili influenze, potremmo citare due poeti come Mallarmé e Apollinaire. L’uno a distanza di tempo dall’altro, infrangono la linearità del testo stampato e sperimentano una poesia visiva e un modo differente di leggere la composizione poetica. Mallarmé prelude “d’un colpo” alla surreale scrittura automatica, mentre Apollinaire, con i suoi ideogrammi, prende a disegnare oggetti che scaturiscono dal testo poetico. Sono gli anni legati al primo conflitto mondiale e l’opera di Apollinaire ne è un riferimento esplicito già dal titolo “Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916” che uscirà a conflitto ultimato nel 1918.

Cominciamo però da Stephane Mallarmé, del quale nel 1914 è pubblicato in volume, per le “Editions de la Nouvelle Revue Francaise”, la versione definitiva di un’opera apparsa in via sperimentale sulla rivista “Cosmopolis” nel 1897, un anno prima della sua morte. Il titolo è “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard“ (Un colpo di dadi mai abolirà il caso). Questo componimento poetico è un vero e proprio poema tipografico, tale da rivoluzionare la letteratura francese, poiché i versi rompono l’impostazione grafica tradizionale. Assumono nello spazio della pagina uno sviluppo libero. Ora a destra, ora a sinistra rispetto alla linea mediana. Con pause frequenti, rappresentate da più o meno ampi spazi bianchi, salti a gradini, per poi riunire le parole in blocchi. Potrete vedere (cliccando qui) l’effetto suggestivo nella riproduzione dell’originale conservato nella Biblioteca nazionale di Francia. Del poema di Mallarmé il 10 luglio 1914 furono tirate a Bruges cento copie numerate. Dieci esemplari non in vendita, su carta della “Papeterie de Monyal”, contrassegnate da numeri romani e le rimanenti 90 su “Vélein d’Arches”.

Per tratteggiare “Un coup de dés” affidiamoci alle parole di un commentatore d’eccezione, Paul Valery, che dopo aver veduto lo strabiliante testo, entusiasticamente scriveva: “…Mallarmé mi fece finalmente vedere come le parole erano sistemate sulla pagina. Mi sembrò di avere di fronte la forma ed il modello di un pensiero, posto per la prima volta in uno spazio circoscritto. Qui era lo spazio stesso che parlava, sognava, dava vita alle forme temporali. Aspettativa, perplessità, concentrazione, tutte erano cose visibili. Con i miei propri occhi ho potuto vedere i silenzi che le forme assumevano… Il mio sguardo si trovava di fronte a silenzi che stavano per materializzarsi… Mormorio, insinuazioni, folgore per gli occhi, era tutta una tempesta spirituale spinta di pagina in pagina fino al limite del pensiero, fino a un punto d’ineffabile rottura: là avveniva il prodigio; là proprio sulla carta, un indefinito bagliore di ultimi astri fremeva di infinita purezza in quel medesimo vuoto infracosciente in cui, come materia di specie nuova, suddivisa in gruppi, in file, in sistemi, ’coesisteva’ la Parola!”.

Il manoscritto del “Coup de dés” mostrato a Paul Valery era composto da grandi pagine quadrettate, al fine di poter disporre i versi nella precisa posizione che l’autore aveva indicato. Mallarmé coltivava il progetto di un’edizione di lusso della sua opera. Abbozzò a mano i caratteri che voleva fossero riprodotti nel testo a stampa. Dopo estenuanti ricerche di tipografia in tipografia, da Didot trovò finalmente il carattere in piombo che maggiormente si avvicinava alla sua idea. Interpellò, anche, l’amico Odilon Redon – precursore del simbolismo pittorico – perché si occupasse delle illustrazioni.
Il quale, in una lettera del 28 aprile del 1898 gli scriveva: “Vollard mi ha fatto vedere una carta eccezionale: credo che potremmo tentare la stampa delle litografie su carta bianca, cioè sulla carta stessa del testo; voglio usare un tratto leggero, biondo pallido, per non contrastare l’effetto dei caratteri tipografici né la novità del loro impiego. Ho delle lastre già trattate, questo per farvi capire che mi metterò molto presto all’opera…”

Nonostante ciò la splendida edizione di rottura, rispetto a tutte le convenzioni consolidate, non vide mai la luce e gli estimatori dovettero accontentarsi di acquistare all’asta i fogli delle bozze tirate a stampa. Tuttavia quanto è stato pubblicato tra il 1897 e il 1914 è bastato affinché le avanguardie del primo Novecento potessero svolgere le loro sperimentazioni, tanto da aprire la strada alla “poesia visiva” e alla “poesia sonora”.

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Hugo Pratt, tra Conrad e Melville – 1/5

 

PITTORI DI CARTA.

Hugo Pratt nacque a Rimini nel 1927, con il nome Hugo Eugenio. Nella sua vita non si è limitato ai fumetti, anche se è per quello che è conosciuto maggiormente, ma ha scritto anche romanzi e saggi. È, con il suo Corto Maltese, tra i fumettisti italiani più conosciuti in ambito internazionale ed è apprezzato e considerato tra i maggiori di tutti i tempi. Suo padre Rolando Pratt, pur romagnolo, era di origine inglese, mentre la madre, Evelina Genero, era figlia del poeta dialettale veneziano Eugenio Genero. Hugo Pratt, pur avendo soggiornato per sei anni in Africa Orientale Italiana, con la famiglia, si legherà maggiormente alla Venezia della madre. La città lagunare, di fatto, gli rimase sempre nel cuore, tanto da divenire la location di ben due fumetti: L’angelo della finestra d’oriente e Favola di Venezia (Sirat Al-Bunduqiyyah).

Il periodo della Seconda guerra mondiale, che segnerà un momento importante della sua generazione, fu anche per lui ricco di avvenimenti e molto “avventuroso”. Con la caduta, nel 1942, dell’Africa Orientale Italiana, l’intera famiglia Pratt fu internata nel campo di concentramento in Francia. dove il padre morì nel 1942. Grazie all’intervento della Croce Rossa, la famiglia fu liberata e poté tornare in patria. A Città di Castello Hugo frequentò, per un breve periodo, un Collegio militare. Quando, nel 1943, fu firmato l’armistizio di Cassibile, entrò nell’esercito della Repubblica sociale, addirittura nel battaglione Lupo della Xª Flottiglia MAS. Ma non vi rimase a lungo. Nell’autunno del 1944 stava per essere fucilato dalle stesse SS, che lo sospettavano di doppio gioco con il nemico. Pratt riuscì a sfuggire, rifugiandosi nell’Italia meridionale, già liberata. Per la sua ottima conoscenza sia dell’italiano che dell’inglese, venne impiegato come interprete dall’esercito alleato fino al termine della guerra.

Hugo Pratt, cresciuto con i romanzi di James Oliver Curwood, Zane Gray e Kenneth Roberts, aveva una buona conoscenza del fumetto americano. Grande era la sua voglia di narrare storie e di rappresentarle graficamente. Così con degli amici, Mario Faustinelli e Alberto Ongaro, fondò a Venezia la rivista “Albo Uragano”, che, nel 1947, si chiamò “Asso di Picche – Comics”, dal nome del personaggio (Asso di Picche) inventato dallo stesso Pratt. Il buon successo dell’albo, che catalizzava giovani autori, gli permise di conoscere e collaborare con Dino Battaglia, Rinaldo D’Ami e Giorgio Bellavitis. La rivista intanto realizzò un buon risultato di vendite soprattutto in Argentina, tanto che Pratt si trasferì (insieme ad un piccolo gruppo di amici collaboratori) nel paese sudamericano, invitato dalla Editorial Abril di Cesare Civita di Buenos Aires, dove risiedette per 13 anni.

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Eravamo a cavallo… ora siamo a mare

 

L’ARCHEOLOGIA NAVALE fa “nuove scoperte” e mette a tacere persino Virgilio, il quale, nel II libro dell’Eneide, narra dell’esule Enea, che descrive alla regina Didone lo stratagemma messo in atto dagli Achei per concludere i dieci anni di guerra con Troia. Fingendo di tornare in patria, lasciano sulla spiaggia, quale dono agli dei, un colossale cavallo di legno costruito da Epeo con l’aiuto di Atena, e si nascondono nella vicina isola di Tenedo. È pura leggenda, legata a un mito tramandato attraverso resoconti orali. Ma una disputa di lunga durata asserisce che tale versione dei fatti, nata intorno al VII secolo a.C., sarebbe errata. L’ultimo a intervenire, in ordine di tempo, è l’archeologo Francesco Tiboni, ricercatore dell’Università di Aix-en-Provence e Marsiglia. Sostiene che sarebbe frutto della traduzione inesatta del termine “hippos” con “equus” (cavallo). In realtà, l’epica macchina, adoperata dai greci per espugnare Troia, era una particolare nave di origine fenicia con la polena a testa di cavallo e per questo denominata “hippos”. «Che quello realizzato da Epeo fosse un marchingegno per abbattere le mura e non un cavallo, lo sa bene chiunque non voglia attribuire ai Frigi un’assoluta dabbenaggine. Tuttavia, la leggenda ci dice che è un cavallo» (Pausania). Ce lo siamo domandati un po’ tutti come mai questi troiani si siano portati dentro casa il nemico. Ora il dubbio si accresce. Perché Tiboni dovrebbe spiegare, per quale ragione una nave dovesse essere trascinata a braccia oltre la cinta muraria, anziché i cittadini riversarsi a mare per festeggiare il dono rinvenuto. L’archeologia navale non dovrebbe esibire reperti ripescati, anziché ripescare libere interpretazioni lessicali?

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Il tempo. Come guadagnarlo piuttosto che sprecarlo – 1/3

Kairòs, copia ispirata al bronzo di Lisippo
e conservata nel Museo di Antichità di Torino

di Sergio Bertolami

In queste poche righe proverò a parlare del tempo, non certo per dare una risposta ad un tema filosofico universale, quanto piuttosto per riflettere su come più opportunamente potremmo impiegarlo nel quotidiano. Per questo comincerei con la fatidica domanda: «Che cos’è il tempo?». Nelle Confessioni, Agostino d’Ippona così risponde «Quando nessuno me lo chiede, lo so, ma, se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so più». Agostino concentra le sue considerazioni proprio sul vivere una realtà di per se dinamica, perché, dice, «tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Infatti questi tre tempi sono in qualche modo nell’animo, né vedo che abbiano altrove realtà: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione diretta, il presente del futuro l’attesa». Il tempo è, dunque, un’estensione del tutto umana; concepibile solo all’interno della volontà creatrice di Dio, che a differenza nostra non ha né un “prima” né un “dopo”, ma è eterno. Mentre il tempo che ha principio e fine è una sua creatura ma sta a noi gestirlo. A noi che è dato da vivere, dall’alfa all’omega.

In questi passaggi di riflessione è racchiusa una concezione del tempo che la classicità grecoromana aveva già esplorato, legandola oltretutto alla divinità, come indica Agostino. Per meglio dire, a una poliedricità del divino. Per i greci, Aion rappresenta il tempo infinito dell’eternità; Kronos il tempo sequenziale del passato/presente/futuro. I romani doppiano i greci con Eone e Saturno. Ciò che dell’antichità meraviglia è la profondità che non riusciamo più a percepire, indotti a intendere i protagonisti della mitologia come figurine distanti da noi e spesso risibili. Sono in realtà allegorie, attraverso cui rendere tangibili concetti spesso oscuri. Concetti che al contrario andrebbero approfonditi e spiegati. Se ci riferiamo, per esempio, a un famoso epigramma di Posidippo, ci accorgeremmo che un terzo dio soprassedeva il tempo, oltre ad Aion e Kronos. Lo rappresenta Lisippo nel IV secolo in un bassorilievo in bronzo [nell’immagine una copia in marmo]. Si tratta di Kairòs, divinizzazione  di un concetto centrale nel pensiero greco: il tempo  opportuno e conveniente, il momento propizio. La personificazione romana è declinata al femminile: Occasio, e la divinità antitetica si chiama Pœnitentia, poiché persa la buona occasione, l’opportunità favorevole, non rimane che subirne la conseguente penitenza.

Kairòs ed Occasio sono ambedue numi difficili da riconoscere. Hanno piedi alati, il volto coperto da un folto ciuffo sulla fronte e il capo così raso da rendere impossibile afferrarli dal retro per i capelli una volta sfuggiti. L’immagine allegorica dimostra che, perso il momento propizio, non potremo che rammaricarci. È possibile, però, rimediare, sapendone trarre un’esperienza e capacitarci che le opportunità vanno colte immediatamente. Per farlo occorre riflettere che, se nel passato il tempo era considerato influente in quanto scandito dai ritmi naturali (la notte e il giorno, l’estate e l’inverno, la semina e il raccolto), nel vivere odierno è divenuto imprescindibile.

Una sontuosa cena barocca – 4/7


MEDAGLIONI DI PESCESPADA. 

Ingredienti per 6 persone

6 fettine di pesce-spada (circa 600 grammi)
50 gr di parmigiano
20 gr di pane grattugiato
130 gr d’olio extrav. di oliva
130 gr di pomodoro tagliato a dadini
1 mazzetto di prezzemolo
1 mazzetto di basilico
50 gr di burro, farina, sale

per lo zabaglione di basilico:
1 spicchio d’aglio, 10 foglie di basilico
4 grammi di pepe
2 grammi di cardamomo
60 gr di aceto bianco, 2 tuorli
150 gr di burro fuso, sale

Ecco un modo più elaborato di presentare il pesce spada, che non in tranci, e con l’aggiunta del tradizionale pangrattato condito con formaggio come nelle più popolari braciolettine. Evidentemente la cucina dei monsù appagava non solo la gola, ma anche l’occhio. Ponete quattro delle sei fettine di pesce spada su di una carta oleata imburrata, in modo tale da formare uno strato pressoché regolare. Spennellate con burro fuso.

Le due fettine rimanenti tritatele finemente e conditele con un pizzico di sale, olio, pangrattato, parmigiano, una mistura tritata di prezzemolo e basilico. Versate il composto sulle fettine e distribuitelo in modo uniforme. Quindi, con l’aiuto della carta oleata, arrotolate il preparato, formato dalle fettine di pesce spada e dal suo ripieno. Comporrete un rollè, che legherete per mantenerlo in forma. Passate nella farina e friggete in padella. Quando sarà rosolato, ponetelo a scolare su di un foglio assorbente, come un tempo la carta da pasta. Quando sarà freddo affettatelo.

Per impreziosire il piatto potete servirlo con uno zabaione al basilico. È semplice da preparare. In una casseruola fate bollire dell’aceto bianco per tre minuti circa, al quale avrete aggiunto aglio, basilico, pepe e cardamomo. Filtrate con un setaccio il liquido e ponete la ciotolina a bagnomaria. Aggiungete due tuorli d’uovo e montaleli, finché non saranno divenuti cremosi. Togliete la ciotolina dall’acqua e unite allo zabaione del burro fuso e tiepido. Infine salate. Delle crudités di verdure potranno colorare il piatto di servizio.

[Fotografia tratta dalla rivista “A Tavola”, rielaborata graficamente da Sebastiano Occhino]

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