Con
Galileo Galilei, il primo a
formulare il metodo scientifico,
si fa chiarezza nella ricerca.
Egli, infatti, cancella quelle
teorie strumentali, proprie della
filosofia, come la ricerca delle
essenze primarie (le famose
“qualità”), che svilivano
l’importanza del mondo reale,
trasformandolo in semplici
rappresentazione quantitativa del
mondo delle idee.
Alla
matematica promossa dalla
sillogistica classica, egli
affianca l'osservazione empirica.
Con Galileo fanno parte della
scienza solo quelle conoscenze
derivate dall’osservazione e
dall’esperienza. Egli pone come
legge primaria della natura la
matematica, che, però, può
chiarirsi solo attraverso la
sperimentazione sugli oggetti
naturali a disposizione.
La
sperimentazione è così importante
nel metodo che tutt’oggi teoria e
sperimentazione sono inscindibili.
I modelli teorici formulati
spiegano delle osservazioni
sperimentali, che, a loro volta,
porteranno ad ulteriori
osservazioni e sperimentazioni.
Tra le caratteristiche di queste
vi è la riproducibilità: un
esperimento è valido solo se
riproducibile in ogni laboratorio
del mondo.
Tuttavia,
esistono scienze che non possono
verificare sperimentalmente molti
fenomeni naturali, come
l’Astronomia o la meteorologia,
che si avvalgono oggi della
possibilità di sperimentazione
digitale. Un altro caso eclatante
è la teoria dell’evoluzione di
Charles Darwin. Non potendo
riprodurre in laboratorio
l’evoluzione teorizzata (avremmo
bisogno di milioni di anni), si
applica la sperimentazione
“indiretta”, su reperti fossili,
analisi genetiche o la ricerca su
microrganismi con cicli
riproduttivi brevissimi.
Il metodo
scientifico proposto da Galilei
trovò, anche, delle alternative.
Il contemporaneo Francesco Bacone
gli contrappose un metodo che
portò alla corrente induttivista,
a cui aderì anche Newton. Al suo
metodo (l'Organum)
egli relazionava tutte le
descrizioni e le teorie sul mondo,
nella necessità di evitare
“pregiudizi” (gli
Idòla)
che potevano distorcere la reale
percezione e conoscenza.
Anche
Cartesio propose una sua teoria
basata sul
problema del metodo.
Egli
intendeva
riportare la disciplina
scientifica alla certezza,
contrapposta alle opinioni o
correnti filosofiche, troppe di
numero e spesso gratuite.
La
filosofia kantiana e l’evoluzione
ottocentesca
Contro la
filosofia di David Hume, che
sosteneva che leggi scientifiche,
come quella di causa-effetto, non
erano oggettive, ma dipendevano da
un istinto del tutto soggettivo
basato sull’abitudine, si pose il
filosofo Immanuel Kant, verso la
fine del Settecento.
Secondo Kant
la conoscenza non proviene
dall'esperienza, ma è innata a
priori. Egli riprendeva,
sostanzialmente, le teorie
filosofiche di Aristotele e
Tommaso d’Aquino. Spingendosi
oltre, egli sottolineò
l’importanza fondamentale della
ragione, che giocava, a suo
avviso, un ruolo attivo nella
conoscenza. In essa la ragione non
si limita a raccogliere i dati
sensibili, ma li sintetizzano (li
definì
giudizi
sintetici a priori),
unificando la molteplicità delle
impressioni. Non dipendendo da
queste ultime, i concetti
estrapolati scientificamente
divenivano anche
a
priori.
Le
asserzioni scientifiche erano,
pertanto, di natura critica e
deduttiva. Kant, infatti,
individuava nella nostra mente
delle categorie trascendentali,
che con le percezioni provenienti
dai sensi
si
attivano. Elaborandole e
producendo, quindi, una conoscenza
con carattere di universalità,
necessità e oggettività.
Per le sue
teorie il filosofo Immanuel Kant,
dividendo soggetto conoscente e
oggetto, detto noumeno, viene
inserito da alcuni nella corrente
del realismo.
Claude
Bernard, nel 1866, pubblica il
testo
Introduction à l'étude de la
médecine expérimentale,
dove propone di applicare un
metodo sperimentale anche per la
medicina.
Il proposito
del lontano Cartesio, che
sosteneva e congetturava uno stato
di certezza della scienza, viene
ripreso e sviluppato dal
positivismo (vedi Comte) in tutto
l’Ottocento. Con l’apparire, però,
delle prime scienze umane e
sociali, verso la fine del secolo,
il metodo scientifico rientrò in
discussione.
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