Al Grand Palais di Parigi il critico Vauxcelles in gabbia tra le bestie feroci

di Sergio Bertolami

40 – L’affermazione dei Fauves al Salon d’Automne del 1905

Chi ricorda il critico d’arte Louis Vauxcelles? Colui che offrì lo spunto per definire cage aux fauves (gabbia delle belve) la sala nella quale erano esposte 39 scandalose tele dipinte da un gruppo di giovani artisti francesi? Gli organizzatori della terza edizione del Salon d’Automne di Parigi – che tenne aperti i battenti del Grand Palais dal 18 ottobre fino al 25 novembre del 1905 – decisero di unire nella stessa sala VII le opere di numerosi ex allievi di Moreau. L’allestimento dell’esposizione era curato dall’architetto Charles Plumet, che pensò bene di usare un criterio di ripartizione stilistica. Criterio che garantì il successo della manifestazione. Nella sala contigua alla VII, spiccava invece un dipinto di Henri Rousseau il Doganiere dal titolo significativo Il leone affamato si getta sull’antilope.

Henri Rousseau il Doganiere, Il leone affamato si getta sull’antilope, 1905

Più che i soggetti ad impressionare per la loro aggressività era l’uso di colori violenti – come fece notare il Journal de Rouen – accostati in modo stridente, lontani da ogni realtà oggettiva. La veemenza cromatica e la libertà d’espressione saltavano agli occhi. Tele tanto scandalose che persino Emile Loubet, Presidente della Repubblica francese, si rifiutò d’inaugurare l’esposizione. In un’atmosfera di scandalo sapientemente orchestrato, la sala VII, in cui si trovavano le opere sotto accusa, fu ritenuta inaccettabile da tutta la critica. La stampa battezzò quelle opere – firmate Henri Matisse, Albert Marquet, André Derain, Maurice de Vlaminck, Kees van Dongen, Charles Camoin, Henri-Charles Manguin, Jean Puy – nei modi più fantasiosi. Camille Mauclair ebbe l’impressione di “un barattolo di vernice gettato in faccia al pubblico”, Marcel Nicolle le paragonò a “giochi barbari e ingenui” di bambini, altri – nomi meno illustri, giornalisti improvvisati e di provincia – parlarono di “campioni informi”, di “pennelli deliranti”, di “un miscuglio di cera di bottiglia e piume di pappagallo”. La nota più mirata fu quella del supplemento dedicato all’evento da L’Illustration del 4 novembre che concludeva con una frecciata: «purtroppo manca il colore», inconveniente che il bianco e nero della rivista non rendeva l’abuso coloristico, impossibile colmare con le sole parole. (Le due pagine della rivista)

Collocato al centro della sala, solo un piccolo busto in marmo, classicheggiante, modellato con delicata sapienza da Albert Marque, fece scrivere al critico Louis Vauxcelles: “È Donatello tra le bestie”. L’espressione divenne così popolare che la sala fu presto ribattezzata “la gabbia degli animali selvatici” e, per estensione, la pittura degli artisti che vi esponevano fu definita fauvista. Così il termine fauvisme prese ad indicare il movimento artistico francese che ricevette il battesimo ufficiale proprio a quel Salon d’Automne di Parigi dell’anno 1905. Dell’articolo, uscito sul supplemento al quotidiano Gil Blas del 17 ottobre 1905 – il giorno prima dell’apertura ufficiale, per invitare gli spettatori alla visita – i libri parlano, ma pochi lo hanno letto. Sono andato perciò a reperire quel numero. Non è stato difficile trovare le due pagine dedicate al Salon, rispetto alle otto dell’intero giornale, e ho tradotto il testo riguardante la famigerata sala VII per leggerlo insieme. 

Stralcio dal supplemento a
Gil Blas del 17 ottobre 1905


Sala VII

«Sala arci-chiara, degli audaci, degli oltraggiosi, dei quali vanno decifrate le intenzioni, lasciando il diritto di ridere ai furbi e agli stupidi, critica troppo facile. E c’è una quantità di Indipendenti, Marquet e compagnia, un gruppo che si tiene così fraternamente unito come, nella generazione precedente, Vuillard e i suoi amici.

Raggiungiamo senza indugio M. Matisse [nota: M. sta per Monsieur, come dire il signor Matisse]. Ha coraggio, perché il suo invio – lo sa del resto – avrà la sorte di una vergine cristiana consegnata alle bestie del Circo. M. Matisse è uno dei pittori più espressivamente dotati di oggi, avrebbe potuto ottenere facili “bravo!” [applausi]: preferisce affondare, vagare in una ricerca appassionata, chiedere al puntinismo più vibrazioni, luminosità. Ma la preoccupazione per la forma ne risente.

M. Derain [il signor Derain] sussulterà; spaventa gli Indipendenti. Penso che sia più un artista da manifesti che un pittore. Il pregiudizio del suo immaginario virulento, la facile giustapposizione di elementi complementari, sembrerà ad alcuni un’arte volutamente infantile; riconosciamo, però, che i suoi Battelli abbellirebbero allegramente la parete della cameretta di un bambino. M. de Vlaminck epinalizza [nota: il signor de Vlaminck riproduce immagini colorate come quelle di Epinal ]; la sua pittura, che sembra terribile, è in fondo da bravissimo bambino. M. Ramon Pichot si distingue dai coloristi cupi o allegri della Spagna, suoi compatrioti, che non hanno affatto il senso del caricaturale; la cosa più fastidiosa è che difficilmente comprendiamo se è un caricaturista di proposito; si diverte, è un Dewambez, un Jean Veber madrileno; eppure, il suo Notturno è grazioso ed esatto.

La signorina Jelka-Rosen usa colori ribes molto acidi, la sua fantasia è comunque decorativa. M. Girieud è un lirico che stilizza ingrandendole ortensie, peonie, zinnie e physalis del Jardin des Suppliçes [nota: Il giardino dei supplizi, romanzo ironico di Octave Mirbeau]; ama i tessuti sontuosi, i mosaici, i personaggi leggendari. La sua tavolozza è sgargiante. Di quale luce è bagnata questa donna

seminuda che sonnecchia su un divano di vimini! Il sole di Saint-Tropez accarezza la sua pelle pallida e umida; il suo corpo pesante riposa, beato, all’aria aperta, vivificato dal soffio salato del mare che si intravede attraverso i rami.

Nessuno esimerà M. Marquet dal rimprovero di ripetersi: la sua gioiosa serie di Agay, di Saint-Tropez, di Antehor, non ricorda in alcun modo le sponde desolate che ha fatto ammirare al Salon des Indépendants. Ecco le rocce rosse, di Agay e di Trayas, che puntano nell’azzurro glauco del mare, e i pini di un verde metallico, e le colline dell’Esterel, le barche a vela del porto di Saint-Tropez, le case rosa. La fattura è grossa, grassa, di taglio originale, e che difficilmente ricorda (tranne un quasi inevitabile riavvicinamento con le Rocce Rosse di Guillaumin), l’ambientazione nella cornice delle altre analisi del Sud. Eppure, ho trovato i “Marquets” di Parigi più profondi e commoventi; la dura aridità di questo Sud di cartone mi urta. Forse M. Marquet è il miglior narratore degli aspetti settentrionali.

M. Camoin, anche lui se n’è andato a Saint-Tropez. Sono volati tutti lì, come uno stormo di uccelli migratori. Era la primavera del 1905, una valorosa piccola colonia di pittori che dipingevano e chiacchieravano in questo paese incantato: Signac, Cross, Manguin, Camoin, Marquet; vicino a loro, a Cagnes, d’Espagnat e il maestro Renoir. M. Camoin costruiva quadri traboccanti di sano e denso vigore; è il brulicante mercato della cittadina marittima, il taglio quasi giapponese dei graniti di Agay, il porto di Cassis e lo sfarfallio arancione dei riflessi tremolanti nell’acqua azzurra. Audaci e sicure opposizioni; una franchezza netta, diretta, di un colore che non tradisce; e, a volte, fantasie divertenti, questo Ombrellone, sotto il quale sorride una coraggiosa principessa circondata da un alone di luci policrome, mollemente intorpidita nel prendere il sole.

Al centro della sala, un torso di bambino, e un piccolo busto in marmo, di Albert Marque, che modella con delicata scienza. Il candore di questi busti sorprende, in mezzo all’orgia dei toni puri: Donatello tra le bestie».

Ora, finalmente, possiamo parlare con cognizione di causa. Abbiamo letto che la critica troppo facile che sfocia in risata Vauxcelles la lascia ai pettegoli e agli stupidi. In questa sala VII sono raccolte le opere di un gruppo di amici fraternamente unito, una quantità di pittori Indipendenti, che fanno capo ad Albert Marquet. Nella primavera precedente gli stessi pittori erano presenti al Salon des Indépendents, esposizione d’arte annuale che dal 1884 offriva visibilità agli artisti di Parigi in assenza di una giuria e, per contro, senza alcun premio. Il riferimento a Marquet è solo di comodo per il critico, perché dire Marquet è come dire Henri Matisse. Si erano conosciuti nell’ottobre del 1892 frequentando i corsi alla Scuola di Arti Decorative di Parigi. Avevano fatto presto amicizia e Matisse, di cinque anni più grande, aveva preso sotto la sua ala protettrice questo giovane forestiero come lui (Marquet di Bordeaux e Matisse di Le Cateau-Cambrésis), un po’ complessato, canzonato per il suo accento e soprannominato l’inglese per via dei suoi occhiali particolari. I due amici avevano poi abbandonato le arti decorative per migrare alle Beaux-Arts di Parigi, seguendo l’insegnamento libero di Gustave Moreau, che si definiva un vecchio simbolista interessato soprattutto alla tecnica pittorica. Scriveva Roger Marx sulla Revue Encyclopédique del 25 aprile 1896: «Tutti coloro che intendono svilupparsi secondo la propria individualità si sono riuniti sotto l’egida di Gustave Moreau». Con Moreau i due amici si legano ad alcuni di quei pittori che ritroviamo nella nostra sala VII: con Henri Manguin e soprattutto Charles Camoin. Gli altri li incontrano per la prima volta, dopo la morte di Moreau, nelle aule di disegno dell’Académie Julian, dell’Académie Carrière o dell’accademia privata Camillo, in rue de Rennes: sono André Derain, Pierre Laprade, Jean Puy, Maurice de Vlaminck. Nel 1925 Matisse ricorderà questi anni di apprendistato e di povertà: «Non avevamo abbastanza per pagarci una birra». Quando, ad esempio, si legge che Marquet e Matisse collaborarono alle decorazioni del Grand Palais per l’Esposizione di Parigi del 1900 – quella descritta all’inizio di queste pagine sull’Arte del Novecento – bisogna focalizzare l’idea che i due amici avevano accettato, chiarisce sempre Matisse, di «spazzolare chilometri di ghirlande sui soffitti del Grand Palais». Una mansione estenuante e sottopagata, tanto da non potere, tolte le spese alimentari, neppure acquistare certi colori costosi come i gialli e rossi di cadmio per dipingere, nel tempo libero dal lavoro, le proprie tele.

Gustave Moreau, Autoritratto (1850)

Vauxcelles, dunque, cita Marquet, ma lascia fuori Monsieur Matisse, che giudica esplicitamente uno dei pittori espressivamente più dotati da ottenere facili approvazioni da parte della critica specializzata. La sua recensione ondeggia tra l’elogio e l’ironia. Matisse è encomiabile per il suo coraggio col quale si spinge in modo vago in una ricerca appassionata della novità. Una novità che chiaramente non convince il critico di Gil Blas, che preferirebbe il candore classicheggiante del piccolo busto ispirato a Donatello piuttosto che quel macello di colori sgargianti. Matisse, si ostina a fare parte di questo Circo, rischiando di essere sacrificato come una vergine cristiana votata al martirio e consegnata alle bestie feroci. Derain, gioca troppo facilmente con i suoi colori, sembra un pittore da manifesti con cui arredare una stanza per bambini. Similmente de Vlaminck sembra un colorista che usa stampini, come gli artigiani indaffarati a colorare le stampe di Epinal che tanto successo riscuotono, fra gli amanti delle arti popolari. Manguin sembra fare, invece, enormi progressi, ma subisce ancora la fascinazione di Cézanne, anzi non si è ancora tolto di dosso il suo odore.

Louis Vauxcelles, schizzo di Jules Chéret, 1909

Gli articoli, come quelli del sarcastico Vauxcelles e dei suoi pari, ebbero l’esito inaspettato di unire in una corrente degli artisti che non avevano alcuna intenzione di fondare un movimento unitario come in Germania la Brücke. Artisti che non avevano un programma d’intenti, ma solo affinità espressive. Avevano un denominatore comune da intravvedere nella componente pointilliste, nell’influsso di Gauguin, nelle mostre d’arte islamica e dei primitivi, indirizzati verso una ricerca individuale dagli effetti cromatici utilizzati con libertà totale. Ecco allora distinguere una nuova formazione costituita dall’accorpamento di almeno tre gruppi. Il primo è formato, sicuramente, dagli allievi dell’atelier di Gustav Moreau e della serie di successive accademie frequentate. Nel secondo gruppo distinguiamo Derain e de Vlaminck che avevano preso sede a Chatou sulle rive della Senna. Appartengono al terzo gruppo tutti coloro di Le Havre che si aggiunsero a breve, come Friesz, Dufy, Braque. Tra quelli rimasti staccati, il più vicino ai Fauves è Kees van Dongen. Ma possiamo includere anche Valtat, Rouault, lo scultore Maillot, Pascin e persino un giovanissimo Picasso che ben presto metterà in crisi l’intero fauvismo. Quasi come programma del nuovo sodalizio scriveva Othon Friesz: «Dare l’equivalente della luce solare con una tecnica fatta di orchestrazioni colorate, trasposizioni passionali (che hanno come punto di partenza l’emozione diretta sulla natura) le cui verità e le cui teorie si elaborano attraverso ricerche ardenti ed entusiasmanti».

Al Grand Palais di Parigi il Salon d’Automne del 1905

Quando Vauxcelles si accorse di avere dato una spinta unificatrice non mancò di descrivere di nuovo i Fauves: «Un movimento che ritengo pericoloso (nonostante la grande simpatia che nutro per i suoi autori) sta prendendo forma in un piccolo gruppo di giovani. È stata istituita una cappella, officiano due preti superbi. MM. Derain e Matisse; poche decine di catecumeni innocenti hanno ricevuto il battesimo. Il loro dogma è uno schematicismo vacillante che vieta modellazioni e volumi in nome dell’astrazione pittorica del non so cosa. Questa nuova religione non mi attrae che a malapena. Io non credo in questo Rinascimento […] M. Matisse, fauve-in-chief; M. Derain, sostituto fauve; MM. Othon Friesz e Dufy, fauves presenti […] e M. Delaunay (un allievo quattordicenne di M. Metzinger…), fauvelet infantile. (Vauxcelles, Gil Blas, 20 marzo 1907)».

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

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