Una pagina di Marcel Proust mi torna alla mente per consolarmi all’idea di perdere tempo nell’ennesima riunione perfettamente inutile. A sopportare due o tre ore di chiacchiere provo, come Proust, una specie di rimorso, di rimpianto per non avere indugiato nella tranquillità del mio studio, per non essere rimasto a fantasticare, con in sottofondo la Rêverie di Debussy. Perché vado? Per amicizia. Proust annotava che quanti hanno la fortuna di un lavoro creativo hanno anche il dovere di vivere per sé. «L’amicizia è una dispensa da questo dovere, un’abdicazione a sé stessi. Persino la conversazione, che dell’amicizia è il modo d’esprimersi, è una divagazione superficiale, che non ci fa acquistare nulla. Possiamo conversare tutta una vita senza far altro che ripetere all’infinito il vuoto di un minuto, mentre il cammino del pensiero, nel lavoro solitario della creazione artistica, si snoda in profondità, l’unica direzione che non ci sia preclusa, e nella quale ci sia dato anzi progredire – sebbene con maggior fatica – verso un risultato di verità». Non è che sia radicato nel convincimento quanto lo era Proust, ma come lui mi annoio a conversare «restando alla superficie di sé, invece di proseguire il viaggio di scoperte nel profondo». Così, a inizio d’anno, non farò voti di clausura, tutt’altro, perché ascoltare il pigolio delle “fanciulle in fiore” delizia anche me. Eviterò, però, di modellarmi «ad immagine e somiglianza degli altri anziché d’un io che da loro differisca». Inviterò selezionatissimi amici ad ascoltare musica, a discorrere su qualche brano di storia o di critica d’arte, a prodigarsi per il sociale, nel tentativo di scoprirci un pizzichino migliori di quanto usualmente siamo costretti ad essere.
Fonte immagine: Gustave Caillebotte Portraits à la campagne (1876) Musée Baron Gérard di Bayeux (Di Gustave Caillebotte – [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2133543 )