04- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – La Langa

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

La Langa

Io sono un uomo molto ambizioso e lasciai da giovane il mio paese, con l’idea fissa di diventare qualcuno. Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome – ripeto – sono ambizioso, volevo girar tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti: «Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là!» Certi giorni, studiavo con più attenzione del solito il profilo della collina, poi chiudevo gli occhi e mi fingevo di essere già per il mondo a ripensare per filo e per segno al noto paesaggio.

Così, andai per il mondo e vi ebbi una certa fortuna. Non posso dire di essere, più di un altro, diventato qualcuno, perché conobbi tanti che – chi per un motivo chi per un altro – sono diventati qualcuno, che, se fossi ancora in tempo, smetterei volentieri di arrovellarmi dietro a queste chimere. Attualmente la mia ambizione sempre insonne mi suggerirebbe di distinguermi, se mai, con la rinuncia, ma non sempre si può fare ciò che si vorrebbe. Basti dire che vissi in una grande città e feci perfino molti viaggi per mare e, un giorno che mi trovavo all’estero, fui lì lì per sposare una ragazza bella e ricca, che aveva le mie stesse ambizioni e mi voleva un gran bene. Non lo feci, perché avrei dovuto stabilirmi laggiù e rinunciare per sempre alla mia terra.

Un bel giorno tornai invece a casa e rivisitai le mie colline. Dei miei non c’era più nessuno, ma le piante e le case restavano, e anche qualche faccia nota. Lo stradone provinciale e la piazzetta erano molto piú angusti di come me li ricordavo, più terra terra, e soltanto il profilo lontano della collina non aveva scapitato. Le sere di quell’estate, dal balcone dell’albergo, guardai sovente la collina e pensai che in tutti quegli anni non mi ero ricordato di inorgoglirmene come avevo progettato. Mi accadeva se mai, adesso, di vantarmi con vecchi compaesani della molta strada che avevo fatta e dei porti e delle stazioni dov’ero passato. Tutto questo mi dava una malinconia che da un pezzo non provavo più ma che non mi dispiaceva.

In questi casi ci si sposa, e la voce della vallata era infatti ch’io fossi tornato per scegliermi una moglie. Diverse famiglie, anche contadine, si fecero visitare perché vedessi le figliole. Mi piacque che in nessun caso cercarono di apparirmi diversi da come li ricordavo: i campagnoli mi condussero alla stalla e portarono da bere nell’aia, i borghesi mi accolsero nel salottino disusato e stemmo seduti in cerchio fra le tendine pesanti mentre fuori era estate. Neanche questi tuttavia mi delusero: accadeva che in certe figliole che scherzavano imbarazzate riconoscessi le inflessioni e gli sguardi che mi erano balenati dalle finestre o sulle soglie quand’ero ragazzo. Ma tutti dicevano ch’era una bella cosa ricordarsi del paese e ritornarci come facevo io, ne vantavano i terreni, ne vantavano i raccolti e la bontà della gente e del vino. Anche l’indole dei paesani, un’indole singolarmente fegatosa e taciturna, veniva citata e illustrata interminabilmente, tanto da farmi sorridere.

Io non mi sposai. Capii subito che se mi fossi portata dietro in città una di quelle ragazze, anche la più sveglia, avrei avuto il mio paese in casa e non avrei mai più potuto ricordarmelo come adesso me n’era tornato il gusto. Ciascuna di loro, ciascuno di quei contadini e possidenti, era soltanto una parte del mio paese, rappresentava una villa, un podere, una costa sola. E invece io ce l’avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi, non più per dire «Conoscete quei quattro tetti?», ma per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non esisteva nulla.

Non so chi ha detto che bisogna andar cauti, quando si è ragazzi, nel fare progetti, poiché questi si avverano sempre nella maturità. Se questo è vero, una volta di piú vuol dire che tutto il nostro destino è già stampato nelle nostre ossa, prima ancora che abbiamo l’età della ragione.

Io, per me, ne sono convinto, ma penso a volte che è sempre possibile commettere errori che ci costringeranno a tradire questo destino. È per questo che tanta gente sbaglia sposandosi. Nei progetti del ragazzo non c’è evidentemente mai nulla a questo proposito, e la decisione va presa a tutto rischio del proprio destino. Al mio paese, chi s’innamora viene canzonato; chi si sposa, lodato, quando non muti in nulla la sua vita.

Ripresi dunque a viaggiare, promettendo in paese che sarei tornato presto. Nei primi tempi lo credevo, tanto le colline e il dialetto mi stavano nitidi nel cervello. Non avevo bisogno di contrapporli con nostalgia ai miei ambienti consueti. Sapevo ch’erano lì, e soprattutto sapevo ch’io venivo di là, che tutto ciò che di quella terra contava era chiuso nel mio corpo e nella mia coscienza. Ma ormai sono passati degli anni e ho tanto rimandato il mio ritorno che quasi non oso più prendere quel treno. In mia presenza i compaesani capirebbero che li ho giocati, che li ho lasciati discorrere delle virtù della mia terra soltanto per ritrovarla e portarmela via. Capirebbero adesso tutta l’ambizione del ragazzo che avevano dimenticato.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

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