05- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Vecchio mestiere

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

Vecchio mestiere

A quei tempi ero occupatissimo e vivevo con dei carrettieri. La testa mi risuona ancora degli urli grossi di comando e del cigolìo delle martinicche. Tenevamo il nostro raduno nel cortile e sotto l’androne di un certo stallaggio che, le sere di partenza, era una bolgia di lanterne e di voci irose come staffilate. Fantesche e garzoni che ci davano l’avvio, anelavano a vederci in strada, perché soltanto allora potevano fermarsi sulla soglia a respirare: lo schiocco delle nostre fruste era la loro liberazione.

Anche per noi la staffilata larga, sparata fuori dell’androne sul fianco dei cavalli, era il segnale che cominciavano la condotta e la notte. Di primo buio ci si accompagnava, se faceva stellato, a due a tre sulla banchina della strada, avendo l’occhio al cavallo di testa e alle biforcazioni, perché la carovana va come un treno e tutto sta che sia incamminata bene. Poi cominciavano i più vecchi a restare indietro e montare sui vari carri; noi giovanotti s’aveva sempre qualche discorso da finire e un’ultima sigaretta da chiedere. Ma si saltava sui sacchi anche noi alla fine e il dormiveglia cominciava.

Quante notti passai così accovacciato sui sacchi, dondolandomi negli occhi la lanterna che nel dormiveglia non distinguevo piú se era appesa sotto il carro precedente o se fosse per caso la mia. Ci si sentiva trasportare, si sentiva tutto il carro e il cavallo muoversi e stirarsi sotto; certi tratti dello stradale li riconoscevo ai sobbalzi. Secondo che il carro passava sotto una costa, o in mezzo a un campo, davanti a un portico, a un muro, o sopra un ponte, l’eco dello strepito delle ruote variava: era una voce che teneva compagnia piú della sonagliera che i cavalli agitavano dimenando il capo. Era una voce che, appena il freddo dell’alba ci svegliava, tornava a farsi sentire incessante, mutata secondo la strada percorsa; e prima ancora che un’occhiata alla campagna o alle case ci dicesse dov’eravamo, ci tranquillava con la sua monotonia. Disteso sui sacchi, ciascuno di noi non ascoltava che il suo carro, ma indovinava nei vari cigolii che l’accompagnavano la presenza degli altri; e in certi momenti che nella campagna tutto taceva, si levava la testa dal sacco e si stava sospesi finché non si vedeva una lanterna dondolare a fior di terra, o un tintinnìo e lo strepito delle altre ruote sulla polvere non giungeva a rassicurare.

Con tanta strada che feci in quegli anni, dormii quasi sempre. Dormii di notte e dormii di giorno, sotto il sole, sotto la pioggia, raggomitolato o seduto. I vecchi conducenti dicono che da giovani si dorme volentieri sul carro perché si è più forti e più sani e si cede al sonno: a me piaceva viaggiare in carovana perché c’era sempre qualche vecchio che vegliava e pensava lui alla strada. Che cosa c’era di più bello che svegliarsi avanti giorno in vista dell’abitato e non avere il tempo di stirarsi che i carri si fermavano e tutti si scendeva a bere una volta e mangiare un boccone? Intanto veniva chiaro, e all’osteria pareva che lo sapessero: spalancavano le imposte di legno e si sporgevano le donne, a braccia larghe, chiamando i garzoni. Secondo con chi eravamo in condotta, si faceva la tavolata o si caricava di aglio o di acciuga la pagnotta e via subito. L’uno e l’altro aveva il suo bello. Ma si capisce che fermarsi era meglio; tanto più quando davanti all’osteria ci aspettavano altri carri che avevano già fatto accendere il fuoco. Allora si mangiava forte, seduti intorno alla tavola, dicendo ognuno la nostra; si facevano tappe di mezz’ora, si andava e veniva nel cortile a dare il fieno e abbeverare; le ragazze dell’osteria venivano sullo scalino a contarci. Allora sí che aver dormito faceva piacere: veniva voglia di cantare (gli altri cantano la sera, noialtri si cantava al mattino).

I vecchi dicono che tutto piace di quegli anni perché allora si è giovani, ma io, che di mestieri ne ho fatto qualcuno, sono sicuro che niente è più bello di una condotta ben pagata. Le strade, le osterie, i cavalli e le campagne sembravano messi lì soltanto per noi. Quel mangiare appena giorno, prima che gli altri fossero in piedi, dopo una nottata di strada, era una gran cosa, e adesso che non faccio più questa vita ci vuol altro che il canto del gallo per farmi saltar su con tanta smania di mangiare, di andare e discorrere, quanta ne avevo allora. È vero che adesso sono grigio, ma se il mondo fosse quello di una volta e potessi disporre, saprei io su che carro montare e arrivare appena giorno all’osteria, svegliare tutti quanti e far la tappa. Se ci sono ancora le osterie e le tappe.

Ma ormai devono essere morti anche i cavalli. È da un pezzo che non vedo più per le strade i tiri rinterzati di una volta. Di notte, adesso, quando non prendo sonno neanch’io, posso sì tendere l’orecchio quanto voglio, eppure mai che mi succeda di sentire rotolare una condotta e avvicinarsi i cavalli e un carrettiere gridare. Adesso di notte si sentono passare le macchine, e la roba la spediscono col treno: faranno più presto ma non è più un mestiere. Finirà che sulle strade crescerà l’erba, e le osterie chiuderanno.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

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