06- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Insonnia

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

Insonnia

Quando rientravo avanti l’alba sull’aia (rincasavo da feste, da discorsi, da avventure) sapevo che mio padre era là, sotto la macchia nera del noce, e stava immobile, da chi sa quanto tempo, guardando in mezzo agli alberi, dardeggiando gli occhi, sempre sul punto di uscire sotto le stelle. Io sbucavo dal prato e attraversavo l’aia (avrei potuto passare dal portico e non esser veduto), ma era meglio se capiva subito che non volevo nascondermi e quando il buio sarebbe diradato sapesse già ch’ero tornato da un pezzo. Il noce riempiva mezzo il cielo, ma un gran tratto dell’aia restava scoperto e biancheggiava: io passavo su quel bianco, e la notte era tanto serena che mi vedevo sotto i piedi la mia ombra.

Attraversavo quel bianco senza guardare dalla parte del noce, perché se avessi guardato avrei dovuto fermarmi e mio padre mi avrebbe chiamato dicendo qualcosa e uscendo fuori. Mio padre non dormiva di notte perché era vecchio e gli pareva di perdere il tempo. Diceva che il tempo non passato sui beni è tutto sprecato. Nel cuore della notte scendeva dal letto (ci saliva che non era ancor buio), e cominciava a girare, entrava nella stalla vuota, raddrizzava un tridente, raccoglieva una paglia. Da quando le mie sorelle si erano sposate non ci restava che una vigna: due giornate di costa che lui di giorno zappava e di notte sorvegliava dall’aia. Un tempo (quand’eravamo bambini), già mezzo addormentati nel letto lo sentivamo toccare la corda nella stalla e spalancare la porticina che strideva raschiando. Allora quel rugghio ci pareva una minaccia, la voce vera di nostro padre, che insonne vegliava e nella notte esponeva la casa ai tremendi pericoli che un rumore improvviso può suscitare nel buio. Avremmo voluto che la porticina gli si richiudesse alle spalle, per sentirci piú sicuri in fondo ai letti, dove il nostro cuore batteva. Eravamo sempre vissuti in quella casa dove un rumore voleva dire un estraneo.

Adesso sbucavo sull’aia ridendo, e sapevo che mio padre mi aspettava sotto il noce. A volte mi accompagnava qualcuno fin sulla strada sotto la vigna: discorrevamo dell’ultima bottiglia, di quel che s’era fatto e si doveva fare. — A domani, – dicevo. – A domani, — e quell’altro si allontanava a passi lunghi, sotto le piante, anche lui verso casa. In tre passi salivo il sentiero e vedevo il gran noce e mi ritrovavo sull’aia di tutte le notti. Passavo senza fermarmi, davanti all’ombra di mio padre. Sentivo che mi guardava e voleva parlarmi. Non mi voltavo, arrivavo alla porta, e l’incontro era rimandato a un’altra volta.

Di giorno mio padre aveva le sue idee e si sfogava con la mamma e gridava con me. C’erano sempre dei lavori inutili e bisognava farli per amore della pace: si legavano fascine e si vangava. Mio padre chiedeva non tanto che noi ci chinassimo a faticare, quanto che gli fossimo intorno e girassimo sull’aia a fargli credere che c’era lavoro per tutti. Da quando le mie sorelle si erano sposate e gli affittavano la vigna, a casa nostra era una morte, non si vedeva piú nessuno, anche la stalla era vuota. Certi giorni mi annoiavo come quando ero ragazzo e nessuno veniva a giocare. Pigliavo nei campi bruscamente e dicevo che andavo in paese; andavo invece da mia sorella e le chiedevo di darmi un lavoro purchessia: non mi dava lavoro, ma di là passava sempre qualcuno e si discorreva a sazietà.

— Cos’avete fatto? — mi chiedeva a cena mio padre, e non bisognava rispondergli che avevamo chiacchierato, perché cominciava a gridare e a prendersela con la mamma che ci aveva messi al mondo così. Non con me. Venendo notte, non se la prendeva più con me, non osava affrontarmi. Era sempre sul punto di uscire dall’ombra, ma ogni volta io passavo, con la giacchetta sotto braccio, divagato e deciso, tendendo l’orecchio alle voci dei grilli, e nulla succedeva. Succedeva soltanto che, una volta entrato in casa, la mamma mi chiamava, con la sua voce soffocata, dal letto (neanche lei non dormiva piú molto, alla sua età) e voleva sapere se mio padre era sempre sull’aia, sapere che cosa faceva, se aveva detto che rientrava. La tranquillavo borbottando, le dicevo che ero io e che faceva sereno. Rispondevo cosí spazientito, che sembravo mio padre. Era il mese di agosto e non c’era da pigliarsela se un vecchio non voleva dormire. La mamma a poco a poco taceva, ma neanch’io riuscivo a prender sonno (mi agitavano il vino e i discorsi della notte). Fuori c’era la campagna, c’eran le strade deserte, l’indomani col sole sarebbe stata un’altra cosa; ma intanto la smania di finirla, di prendere un treno, di andare in città e fare una vita piú da uomo, non mi lasciava dormire. Anche mio padre era scappato giovanotto, e lui se n’era andato a piedi perché ai suoi tempi non c’era ancora la ferrovia. Ma dopo un anno era tornato. Io non volevo tornare mai più.

La notte della Madonna rincasai ch’era mattino, e una volta tanto il sentiero del prato mi parve diverso dal solito. Mio padre uscì dalla stalla mentre facevo colazione sulla porta.

— Com’è andata la festa?

— Ho trovato il Nanni, – dissi masticando. – Abbiamo parlato.

— Che cosa può dire quel vagabondo…

— Niente. Mi prende insieme a lavorare quando voglio.

Mio padre si fermò irresoluto; aveva in mano una cavezza e la posò sulla finestra. Ancora un anno prima me l’avrebbe appioppata sulla schiena. Ma adesso era inutile, e si voltò verso la stalla di dove usciva la mamma passandosi una mano sugli occhi. Io lasciai che gridassero e intanto guardavo l’ombra lunga del noce.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

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