14- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Risveglio

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Risveglio

Quella notte avevo subito una grossa umiliazione: di quelle che ci colgono in mezzo alla gente senza che la gente se ne accorga. Continuammo a sorridere, io e i miei interlocutori, come se nulla fosse avvenuto, e per loro infatti nulla era avvenuto: semplicemente era stata detta una parola che per tutti, me compreso, era uno scherzo. Ma un attimo dopo respiravo a fatica e me ne stavo aggobbito nel mio angolo, stordito e assorto come uno smemorato. Fortuna che nessuno mi badò, e tutti pensavano a parlare e farsi ascoltare. Riuscii anzi poco dopo a interloquire anch’io: cercai di riportare il discorso alla frase di prima; se fosse debolezza, o una sfida alla mia angoscia, non so.

Quando tutti se ne furono andati, io che pure mi mostravo assonnato e cascante, accompagnai verso casa l’amico P. L’amico taceva di buon umore e, visto che non parlavo, mi sbirciava incuriosito. Io mi chiedevo perché mi fossi messo con lui; e anelavo la solitudine del ritorno per abbandonarmi all’avvilimento e toccarne il fondo. C’era qualcosa di non detto tra noi, e la cautela dell’amico inconsapevole aggiungeva disagio alla mia disperazione. Perché quella notte ero davvero disperato.

— E domani, che fai? — disse l’amico, quando fummo per fermarci.

Non so che cosa gli risposi; forse soltanto uno dei gesti d’impazienza abituali tra noi. Dové credere che il malumore mi venisse dal sonno, e se ne andò sul marciapiede echeggiante. Io tesi l’orecchio ai suoi passi, quasi fingendomi che il suo allontanarsi fosse l’ultima voce della vita che mi lasciava, e trovando in questa fantasia come un sollievo disperato. Poi mi volsi e ripresi la strada, abbandonato a me stesso.

Era notte di giugno, e l’oscurità palpitava. Io misuravo la mia angoscia a tanta dolcezza, e scavavo scavavo a ogni passo nel mio dolore come se tutta la tenebra ne fosse intrisa e bastasse avanzare per sentirsene addosso il peso sempre più intollerabile. M’accorsi a un tratto – e mi fermai – che mi era caduta di mente l’innocua parola da cui tutto era cominciato. Ero fermo sul marciapiede di una piazza dove una fontana borbottava. Quel rumore mi parve futile, pure nel suo incanto. Nulla ormai poteva abolire la realtà miserabile della mia esistenza. Della dolcezza dell’ora coglievo soltanto il silenzio, il profumo, la calma. Era notte avanzata, e avevo vagabondato più del solito per distrarre nella novità della cosa la mia umiliazione. Non potevo rassegnarmi all’idea che mi sarei svegliato l’indomani e nel breve dormiveglia dell’alba mi sarei ritrovato in cuore, prima ancora di aprire le palpebre, questo tormento familiare. Ero stanco e indolorito a un punto, che potevo soltanto rimettermi attraverso uno sforzo, una rottura.

Decisi allora di attendere il giorno per le strade, di fare io stesso il giorno, giacché tutta la città era deserta e il cigolìo di qualche carro lontano non era cosa di città ma di campagna. Già il tepore del cielo non accennava più a un’ora notturna. Ripresi a camminare guardandomi intorno, dirigendo i miei pensieri avviliti sul brusio di un mulinello di foglie, sulla nera trasparenza del cielo. Nacque così tra me e la notte un’intimità vaga – vaga, perché ben altro mi pesava nell’anima, e le case, i lampioni deserti, la volta del cielo, mi trascorrevano intorno in silenzio come bava di vento. Nel silenzio il mio grande dolore taceva quasi assopito in vece del corpo. Io continuavo a camminare; passavo viuzze, piazze, viali; tendevo a giungere alla fine di quella strada interminabile, che sarebbe cessata soltanto nel mattino. Avendo uno scopo non temevo più il tempo, e la solitudine stessa aboliva la passata coscienza di me. Il mattino non mi avrebbe più colto a tradimento come usa; l’ora insolita che vivevo ne aveva già assorbito ogni amarezza, e io gli andavo incontro come a qualcosa di mai visto e di mio. Lo salutai dietro una casa di sobborgo.

Quando si svolse e inondò le strade, io cominciavo a rallentare il passo. Ora potevo anche fermarmi e assaporare la stanchezza, abbandonandomi alle voci che lo chiamavano fresche. Ma fermandomi, smettendo di evocarlo e andargli incontro, esso sarebbe diventato una mattina come le altre, come avevo già temuto nella notte. Perciò continuai ad avanzare, opponendo al residuo dolore la mia instancabile volontà di veglia. Passai le ultime case, giunsi a un ponte; di là dal ponte cominciava la campagna. Fissai in fondo alla pianura un’osteria minuscola e bruna e mi disposi a raggiungerla.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

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