Palazzo Pitti: Fragili tesori dei principi – Le vie della porcellana tra Vienna e Firenze

Fragili tesori dei principi – Le vie della porcellana tra Vienna e Firenze
Tesoro dei granduchi di Palazzo Pitti
dal 13 novembre al 10 marzo

Quando il Conte Carlo Ginori nel 1737 chiamò al suo servizio Carlo Wendelin Anreiter de Ziernfeld, pittore austriaco specializzato in porcellana,non badò certo a spese. Nei documenti è scritto che “… si obbliga questo a condurlo con la sua Moglie, e Creature a sue spese in Toscana ed ivi pagargli fiorini seicento all’anno, con più dargli con la sua famiglia quartiere, e solo ad esso Ziernfeld la tavola con vino, e di così continuare a tenerlo con tale assegnamento anni sei”.

Insomma, quello stipendio favoloso, cui si aggiungevano vitto (con vino) e alloggio per lui, la moglie e i 10 figli, più gli altri 3 che nacquero durante la sua permanenza in Italia, servivano ad assicurarsi il più valente artista del genere sulla piazza europea: è evidente la volontà di Carlo Ginori di puntare senza indugio, per la manifattura di Sesto Fiorentino, a una qualità altissima, garantendosi inoltre relazioni strettissime con l’opificio viennese fondato nel 1718 da Claudius Innocentius Du Paquier. L’effetto fu che entrambe le produzioni ebbero un ruolo decisivo nella trasmissione di motivi decorativi, forme e tecniche artistiche che di fatto influirono nella definizione del gusto dell’epoca.

Di tutto questo, e di molto altro racconta la mostra Fragili tesori dei Principi. Le vie della porcellana tra Vienna e Firenze, curata da Rita Balleri, Andreina d’Agliano, Claudia Lehner-Jobst e realizzata in collaborazione con la collezione del Principe di Liechtenstein (Vaduz–Vienna).

Le opere esposte – porcellane, ma anche dipinti, sculture, commessi in pietra dura, cere, avori, cristalli, arazzi, arredi e incisioni – offrono un fertile dialogo tra le arti, per celebrare la magnificenza della porcellana durante il Granducato di Toscana sotto la dinastia lorenese. Ai prestiti hanno contribuito istituzioni nazionali e internazionali e i più importanti musei europei e statunitensi, oltre a diverse collezioni private.

L’energia imprenditoriale del Marchese Ginori, senatore fiorentino, spaziava su ampi orizzonti, e le porcellane prodotte riflettevano un gusto internazionale, che poteva sì tener conto della tradizione fiorentina, ma anche degli influssi del lontano Oriente e in particolare cinesi, e che cercava di soddisfare committenti esigenti in Italia e all’estero. Per prosperare, la manifattura doveva aprirsi anche alle novità provenienti da fuori, e l’atmosfera e la produzione artistica – a Doccia, ma in generale nella Firenze dei Lorena erano dunque improntate a un criterio di eccellenza cosmopolita. La porcellana non fa eccezione, e diventa non solo lo specchio di quanto veniva sperimentato nelle altre forme d’arte, ma riflette altresì tutta una serie di abitudini e mode sociali, in un’epoca di grandi cambiamenti, anche alimentari. Nel 1663 i Medici si procacciarono per primi, importandola dalla Spagna, la cioccolata, e fu subito amore. Come sottolinea in catalogo il Direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt,  la cioccolata e il caffè “resero necessaria la creazione di nuovi oggetti e di vasellame, che possiamo immaginarci tintinnare e splendere nel Kaffeehaus fatto erigere apposta a Boboli su progetto di Zanobi del Rosso, terminato nel 1785 circa (e che riaprirà a breve, dopo una campagna di restauri). Un altro gioiello architettonico voluto da Pietro Leopoldo, rotondo e bombato, ispirato al barocchetto viennese: è una costruzione di mattoni e calce, ma da lontano sembra una fantasia in porcellana di Doccia, quasi una chicchera gigante, con una cupoletta per coperchio”.

“La collaborazione europea e un pensiero che travalica i confini nazionali – dichiara Johann Kräftner, direttore del LIECHTENSTEIN. The Princely Collections, Vaduz–Vienna – si manifestano nelle vicende delle due Manifatture, appartenenti a una storia comune di governo e collezionismo confluite in questa stessa rassegna espositiva che si deve all’attuale cooperazione tra le due istituzioni e i loro collaboratori e collaboratrici. Una mostra che ripercorre questa lunga storia non a Vienna, dove venne già esaminata nella esposizione Barocker Luxus Porzellan del 2005, bensì a Firenze, dove le idee hanno trovato un comune terreno fertile”.

Palazzo Chiericati e Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari: Il Trionfo del colore

Mostra “Il Trionfo del colore. Da Tiepolo a Canaletto e Guardi
Vicenza e i capolavori dal Museo Pushkin di Mosca
Palazzo Chiericati e Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari
Dal 23 novembre 2018 al 10 marzo 2019

I capolavori della grande stagione settecentesca dell’arte veneta patrimonio del Museo Pushkin di Mosca tornano eccezionalmente in Italia per essere ammirati dal 23 novembre al 10 marzo nella mostra “Il Trionfo del Colore. Da Tiepolo a Canaletto e Guardi. Vicenza e i Capolavori dal Museo Pushkin di Mosca”. 

I capolavori della grande stagione settecentesca dell’arte veneta patrimonio del Museo Pushkin di Mosca tornano eccezionalmente in Italia per essere ammirati dal 23 novembre al 10 marzo nella mostra “Il Trionfo del Colore. Da Tiepolo a Canaletto e Guardi. Vicenza e i Capolavori dal Museo Pushkin di Mosca”. 

L’esposizione avrà luogo a Palazzo Chiericati, sede del museo civico e alle Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari, sede museale di Intesa Sanpaolo a Vicenza dove sarà esposta la Madonna con i santi Ludovico di Tolosa, Antonio di Padova e Francesco di Assisi di Giambattista Tiepolo, incorniciata dalla collezione di dipinti del Settecento veneto conservata nel Palazzo vicentino, tra i quali il celebre corpus di dipinti di Pietro Longhi. 

La mostra, che sino ad ottobre è visitabile al Museo Pushkin, è prodotta da MondoMostre e congiuntamente promossa dal Comune di Vicenza, il Museo delle Belle Arti A.S. Pushkin di Mosca e Intesa Sanpaolo, in doppia veste di sponsor per entrambe le sedi e di partner culturale, grazie alla propria sede museale vicentina. La curatela è di Victoria Markova, capo Dipartimento di cultura italiana del Museo Pushkin, insieme al Prof. Stefano Zuffi, storico dell’arte con la consulenza scientifica del Prof. Giovanni Carlo Federico Villa. 

I dipinti provenienti dal Pushkin saranno coprotagonisti di un’affascinante narrazione con trenta opere dello stesso ambito e periodo, selezionate dall’ampio patrimonio dei Musei Civici di Vicenza, ricco di oltre 50.000 pezzi, e dal patrimonio di Intesa Sanpaolo conservato a Palazzo Leoni Montanari, sede vicentina delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo. Il percorso creerà un racconto capace di mettere in scena lo sviluppo dell’arte veneta del Settecento e il suo impatto deflagrante sull’arte europea, con artisti attivi in ogni angolo del vecchio Continente: apprezzati, imitati, seguiti, collezionati; abili nel muoversi in ogni ambiente ed eseguire soggetti sacri e profani che saranno modello per le generazioni successive.

In attesa del nuovo allestimento della sezione Sette-Ottocentesca di Palazzo Chiericati, la mostra costituirà un importante momento per le opere della collezione provenienti dalla Pinacoteca stessa, poiché torneranno a poter essere esposte in Italia dopo oltre un decennio. Il percorso conduce all’interno di quel magico momento dell’arte europea che fu il Settecento veneziano e veneto, reso eterno dai suoi protagonisti quali Giambattista Tiepolo, Giambattista Pittoni, Luca Carlevarijs, Giambattista Piazzetta, Antonio Giovanni Canal detto Canaletto, Francesco Guardi e Pietro Longhi. 

Si potrà fruire della bellezza delle loro opere nelle due sedi della mostra ma anche in chiese, palazzi e ville della città e del territorio. Percorrendo gli Itinerari appositamente messi a punto dagli organizzatori. Tra le tappe il Palladio Museum e le tre ville a pochi minuti da Vicenza e che rappresentano i maggiori capolavori ad affresco del Settecento europeo: Villa Valmarana ai Nani, Villa Cordellina e Villa Zileri che, anche per le pitture che li adornano, sono “Patrimonio dell’Umanità”.

“Abbiamo fatto conoscere all’ampio pubblico moscovita e russo l’arte veneta e i tesori d’arte della nostra Pinacoteca e di Palazzo Leoni Montanari – sottolinea Francesco Rucco, Sindaco di Vicenza – Ora offriamo ai veneti e ai nostri turisti la possibilità di ammirare i tesori dell’arte veneziana oggi patrimonio del Pushkin e avere un “saggio” di quanto il museo civico di Palazzo Chiericati offrirà stabilmente non appena ne sarà completato il nuovo allestimento”.

L’eccezionalità di questa mostra è data dalla possibilità di contemplare, tutti insieme, oltre cinquanta capolavori di cui una parte significativa appare sui manuali di storia dell’arte. In una straordinaria avventura visiva che consente di percepire appieno una grande stagione che ha visto la nostra arte – con Giambattista Tiepolo, ma anche Sebastiano Ricci, Pittoni e Canaletto – essere esempio assoluto per quella occidentale.

“Il Trionfo del colore mette insieme i principali valori che fondano il Progetto Cultura della nostra Banca, a partire dalla valorizzazione delle straordinarie collezioni d’arte Intesa Sanpaolo e dalla condivisione di iniziative con prestigiose istituzioni nazionali e internazionali. Abbiamo portato al museo Pushkin i nostri dipinti del Settecento veneto ed ora ammiriamo i capolavori provenienti da Mosca e quelli conservati nella Pinacoteca civica di Vicenza. Si conferma così un rapporto di profondo dialogo e scambio culturale sia con la Russia, sia con l’amministrazione di Vicenza, dove ha sede la prima delle Gallerie d’Italia cui la Banca ha dato vita”, commenta Michele Coppola, Direttore Centrale Arte, Cultura e Beni Storici, Intesa Sanpaolo.

Trieste, Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale: Metlicovitz – L’arte del desiderio

Metlicovitz – L’arte del desiderio. Manifesti di un pioniere della pubblicità
Trieste, Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”
16 Dicembre 2018 – 17 Marzo 2019

150 anni fa nasceva a Trieste Leopoldo Metlicovitz, uno dei maestri assoluti del cartellonismo italiano. È lui l’autore di decine di manifesti memorabili, dedicati a prodotti commerciali e industriali, ma anche a grandi eventi come l’Esposizione internazionale di Milano del 1906, a famose opere liriche (Madama Butterfly, Manon Lescaut, Turandot) e a film dell’epoca del muto (primo fra tutti Cabiria, storico precursore del kolossal).
Assieme ad artisti quali Hohenstein, Laskoff, Terzi e al più giovane concittadino Marcello Dudovich, Metlicovitz (che di quest’ultimo fu il “maestro”) operò per decenni alle Officine Grafiche Ricordi di Milano, dopo un avvio come pittore paesaggista nella città natale e un apprendistato come litografo (professione ereditata dal padre) in uno stabilimento grafico di Udine.

Fu proprio grazie all’intuito di Giulio Ricordi, che Metlicovitz poté esplicare, dagli ultimi anni dell’Ottocento, tutte le proprie potenzialità espressive, non solo come grande esperto dell’arte cromolitografica, ma pure come disegnatore e inventore di quegli “avvisi figurati” (così chiamati allora) che, affissi a muri e palizzate, mutarono il volto delle città con il loro vivace cromatismo, segnando anche in Italia la nascita di quell’arte della pubblicità sintonizzata su quanto il “modernismo” internazionale andava proponendo nelle arti applicate sotto i vari nomi di Jugendstil, Modern Style, Art Nouveau, Liberty.

A lui la città di Trieste dedica, nel 150° anniversario della nascita, la prima grande retrospettiva monografica. Con il titolo “Metlicovitz. L’arte del desiderio. Manifesti di un pioniere della pubblicità”, resterà allestita al Civico Museo Revoltella e al Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” dal I6 dicembre 2018 al I7 marzo 2019, per poi passare al Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso dal 6 aprile al 18 agosto 2019.
La mostra è promossa e realizzata dal Comune di Trieste – Assessorato alla Cultura, Sport e Giovani – Area Scuola, Educazione, Cultura e Sport – Servizio Musei e Biblioteche in collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali – Polo Museale del Veneto – Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso e con il contributo della Regione Friuli Venezia Giulia.

La rassegna è curata dallo storico dell’arte e scrittore Roberto Curci e diretta da Laura Carlini Fanfogna, direttrice del Servizio Musei e Biblioteche, e da Marta Mazza, direttrice del Museo Nazionale Collezione Salce. Nella grande monografica rivive l’intero arco della produzione dell’artista. Le opere esposte, 73 manifesti (alcuni di dimensioni “giganti”), tre dipinti e una ricca selezione di “grafica minore” (cartoline, copertine di riviste, spartiti musicali ecc.), saranno organizzate in otto sezioni espositive, sette delle quali ospitate presso il Civico Museo Revoltella e una – la sezione dedicata ai manifesti teatrali per opere e operette – nella Sala Attilio Selva al pianterreno di Palazzo Gopcevich, sede del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”. Le opere provengono per la gran parte dal Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso (68 manifesti), oltre che dalle collezioni civiche (Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”) e da raccolte private.

“La produzione cartellonistica di Metlicovitz, così come quella dell’amico Dudovich, fu – sottolinea Roberto Curci – particolarmente intensa negli anni precedenti la Grande Guerra, con la creazione di autentici capolavori rimasti a lungo nella memoria visiva degli italiani e a tutt’oggi largamente citati e riprodotti in ogni studio sull’evoluzione del messaggio pubblicitario del Novecento. A questo eccellente artista, caratterialmente schivo ed estraneo ad ogni mondanità, alle prove – affascinanti per verve ed eleganza stilistica – da lui devolute sia a realtà commerciali come i popolari Grandi Magazzini napoletani dei Fratelli Mele sia all’universo musicale e teatrale, spiritualmente a lui congeniale (conoscente di Verdi, fu amico soprattutto di Puccini), è dedicata questa mostra che si propone di rappresentare il “tutto Metlicovitz”, straordinario cartellonista, certo, ma anche eccellente pittore ed efficace grafico e illustratore”.

La mostra è corredata da un raffinato catalogo, a cura di Roberto Curci e Marta Mazza (Lineadacqua Edizioni).

Verona, Galleria d’arte moderna A. Forti – L’amore materno

L’AMORE MATERNO alle origini della pittura moderna da Previati a Boccioni
Verona, Palazzo della Ragione, Galleria d’Arte Moderna A. Forti
07 Dicembre 2018 – 10 Marzo 2019
Mostra a cura di Francesca Rossi e Aurora Scotti

Angelo Morbelli, Alba felice, 1892-1893, olio su tela, 50 x 103 cm, Collezione privata

Il tema della maternità, in un momento nodale nell’arte italiana fra Otto e Novecento, è al centro della mostra L’amore materno alle origini della pittura moderna, da Previati a Boccioni proposta dai Musei Civici di Verona negli spazi della Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, dal 7 dicembre al 10 marzo 2019.
“La mostra, curata da Francesca Rossi e Aurora Scotti – dichiara l’assessore alla Cultura Francesca Briani –, è testimonianza dell’importante e proficua collaborazione tra i musei veronesi e i Musei Civici di Milano, il Mart di Rovereto e il Banco BPM. Inoltre, conferma l’impegno dell’amministrazione a sostenere iniziative culturali che si contraddistinguono per la rigorosa e puntuale attività di ricerca dedicata alle collezioni artistiche cittadine”.

L’esposizione è la prima che la città di Verona dedica agli esordi del Divisionismo italiano, con l’obiettivo di promuovere la conoscenza di uno dei periodi più creativi della storia dell’arte del nostro Paese e, allo stesso tempo, restituire un contesto e un fondamento critico di riferimento alle opere della Galleria d’Arte Moderna Achille Forti legate a tale ambito figurativo, a partire da S’avanza di Angelo Morbelli, capolavoro esposto nel percorso dedicato alla collezione civica.

Il fulcro della nuova esposizione è costituito dalla Maternità di Gaetano Previati, un capolavoro di grande formato e fortemente evocativo legato al tema “dell’amore materno” e proveniente dalle collezioni di Banco BPM. “Siamo particolarmente lieti e onorati di partecipare alla realizzazione di questa mostra – dichiara il presidente di Banco BPM Carlo Fratta Pasini – rendendo disponibile, per la prima volta a Verona, il monumentale dipinto di Previati e alcune delle opere più significative, tra quelle che fanno parte del nostro patrimonio artistico”.

Il dipinto esposto alla prima Triennale di Brera del 1891 suscitò un vivace dibattito oltre che sulla tecnica divisionista, anche sui possibili esiti simbolici della rappresentazione.
Il famoso artista-critico Vittore Grubicy, già attento sostenitore di Segantini, individuò nella tela di Previati il prototipo della pittura ‘ideista’.

“La nuova tecnica divisionista elaborata da Previati nel monumentale dipinto, puntava – spiega infatti Aurora Scotti – sulla separazione delle pennellate, ma anziché tendere alla piena tersità luminosa mirava ad agire sulla sensibilità dello spettatore, coinvolgendolo nella emozione psicologica dell’evento. A questo il maestro ferrarese si era preparato con un intenso esercizio su temi che sviluppavano la ‘pittura di affetti’ della Scapigliatura, al fine di evocare, attraverso il ductus stesso della pennellata, uno stato d’animo. Un cardine quindi della pittura di emozione e di sentimento, con un ampio spettro di riferimenti nella tradizione pittorica medioevale e moderna”.

Il percorso espositivo costruito attorno al grande dipinto propone celebri capolavori di Gaetano Previati, Medardo Rosso, Giovanni Segantini, Angelo Morbelli, Giuseppe Pellizza da Volpedo e Umberto Boccioni, capaci di restituire in maniera esemplare l’intensa stagione culturale che ha segnato il transito rivoluzionario della pittura italiana ottocentesca nella direzione europea dell’arte moderna d’avanguardia.
Da qui, la rigorosa selezione filologica di una quindicina di opere che mette in evidenza il confronto tra esiti e ricerche diverse contemporanee al maestro ferrarese, ma anche le ricadute e gli stimoli forniti da queste sperimentazioni alle avanguardie del primo Novecento.
Umberto Boccioni, in particolare, cercò un confronto diretto con Previati: la Maternità del Banco BPM rappresenta uno dei cardini del suo percorso critico come punto di riferimento in quel un puntiglioso programma di studio nella storia dell’arte che, dopo molteplici ricerche, lo portarono al Futurismo.

Alla definizione del progetto legato al tema dell’amore materno hanno inoltre contribuito generosamente tutti i prestatori che hanno così reso possibile la realizzazione della mostra fra cui il Museo Segantini di Saint Motitz. Un riconoscimento particolare va ai Musei Civici di Milano, alle Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco, alla Galleria d’Arte Moderna di Milano e al Mart di Rovereto: istituzioni che hanno collaborato attivamente all’elaborazione dei contenuti del progetto scientifico partecipando anche all’ideazione di un piccolo circuito virtuale sul tema dell’amore materno itinerante tra le sedi di Verona, Rovereto e Milano, che il visitatore troverà segnalato nel catalogo e nei fogli di sala dedicati a Le due madri di Segantini, della Galleria d’Arte Moderna di Milano, e all’Autoritratto con la madre di Giorgio de Chirico, del Mart di Rovereto. Tali opere sono da considerare a pieno titolo parte dell’esposizione.”

“L’esposizione – evidenzia Francesca Rossi – è arricchita da un contributo multimediale dedicato alle fasi di gestazione della Maternità di Previati.
Questa preziosa documentazione deriva dalla campagna di analisi scientifiche condotta con gli strumenti più avanzati delle nuove tecnologie presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze allo scopo di monitorare lo stato di conservazione dell’opera e di comprendere la singolarissima tecnica pittorica impiegata dall’artista”. Un vero dono per le prossime festività che l’Amministrazione offre alla città.

Venaria Reale (Torino) – Ercole e il suo mito

Ercole e il suo mito
Venaria Reale (Torino)
13 settembre 2018 – 10 marzo 2019
Sale delle Arti, II piano
Mostra organizzata da: Swiss Lab for Culture Projects e Consorzio Residenze Reali Sabaude, in collaborazione con AntikenMuseum di Basilea, MuseumsLandSchaft di Assia-Kassel e Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

La rassegna, curata da un comitato scientifico presieduto da Friedrich-Wilhelm von Hase e composto da Gabriele Barucca, Angelo Bozzolini, Paolo Jorio, Darko Pandakovic, Laura Pasquini, Gerhard Schmidt, Rüdiger Splitter, Claudio Strinati, Paola Venturelli, è organizzata da Swiss Lab for Culture Projects e Consorzio Residenze Reali Sabaude, in collaborazione, fra gli altri, con l’Antikenmuseum und Sammlung Ludwig di Basilea (CH), il Museumslandschaft di Hessen-Kassel (D), il Museo Archeologico Nazionale e il Museo Filangieri di Napoli.

L’esposizione illustra il mito dell’eroe greco e dei temi a esso legati, con un’ampia selezione di oltre 70 opere, tra ritrovamenti archeologici, gioielli, opere d’arte applicata, dipinti e sculture, manifesti, filmati e molto altro, provenienti da istituzioni pubbliche e da collezioni private, capaci di coprire un arco cronologico che, dall’antichità classica giunge fino al XX secolo.

L’iniziativa acquista un particolare significato alla luce dei lavori di restauro in corso della “Fontana d’Ercole”, fulcro del progetto secentesco dei Giardini della Reggia, un tempo dominata dalla Statua dell’Ercole Colosso, e da cui inizia idealmente la visita.
Il percorso alla Venaria si apre con una sezione che ripercorre l’origine del mito in epoca pagana, con una serie di ritrovamenti archeologici di grande pregio e raffinatezza, come vasi, anfore, coppe, realizzate nella regione greca dell’Attica tra il 500 e il 300 a.C., provenienti dall’Antikenmuseum di Basilea, che raffigurano diverse imprese canoniche dell’eroe; tra queste spiccano la monumentale anfora del Pittore di Berlino, una delle massime espressioni della ceramica ateniese e l’hydria (vaso) attribuita al Gruppo dei Pionieri.

La mostra prosegue con la parte che testimonia la diffusione della rappresentazione della leggenda erculea in àmbito romano, con alcune statuette in bronzo o in terracotta, oltre a una testa colossale di Ercole in riposo, copia della seconda metà del I secolo a.C. di un’opera di Lisippo risalente al 320/310 a.C.

O ancora, il calco in gesso del gruppo bronzeo di Ercole con la cerva di Cerinea di Lisippo dalla Skulpturhalle di Basilea o due intonaci dipinti provenienti dall’Augusteum di Ercolano, oggi conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che raffigurano Eracle con il Cinghiale e con il Leone di Nemea. Chiudono la sezione due coppe in argento realizzate da Gianmaria Buccellati, sbalzate e cesellate con le fatiche di Ercole, le cui forme si ispirano a quelle di altrettanti scyphus rinvenuti a Pompei nella casa del Menandro e di cui in mostra si possono vedere i passaggi di fabbricazione, ancor oggi identici a quelli antichi.

La mostra di Venaria analizza quindi il passaggio tra il mito pagano di Ercole e il recupero che ne fece il cristianesimo nel Medioevo, quando la figura del semidio dalla forza straordinaria e dal carattere esemplare è associata a quella del Salvatore, al punto che la discesa agli inferi di Ercole per strappare Alcesti a Thanatos, prefigura la discesa di Cristo nel Limbo per liberare le anime dei giusti, così come le sue vittorie contro gli animali mitologici annunciano la vittoria del Redentore sul demonio. In questa sezione s’incontra un prezioso cofanetto in avorio, prodotto da una bottega costantinopolitana nella prima metà dell’XI secolo, raffigurante l’eroe che strangola il leone e solleva Anteo, il gigante figlio di Poseidone e di Gea che perdeva la sua forza se non toccava terra, proveniente dal Museo Archeologico nazionale di Cividale del Friuli.

Una sala della residenza sabauda sarà inoltre dedicata alla persistenza del mito di Ercole in capolavori di arte decorativa, come ventagli, elmi, boccali, coppe, cassoni, e altro. Qui spicca un prezioso e raffinato boccale tratto da un monoblocco di avorio proveniente dalla Kunstkammer dei granduchi di Baden oggi conservato al Badisches Landesmuseum di Karlsruhe in Germania.

La celebrazione dell’eroe invincibile proseguirà in epoca moderna, attraverso le opere pittoriche e plastiche, a partire dal Rinascimento, come L’Apoteosi di Ercole (1539) delGarofalo, e proseguendo nel Seicento con la scultura di scuola romana Ercole Fanciullo con il serpente, pezzo molto suggestivo della Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli e nel Settecento con due pregevoli manufatti in terracotta dorata di Lorenzo Vaccaro, forse importanti committenze del vicerè spagnolo Don Gaspar de Haro allora a Napoli, e oggi custodite nel Museo Filangieri.

Un focus speciale sarà riservato a Gregorio de Ferrari, pittore del barocco genovese, qui per la prima volta con tutte le cinque grandi tele raffiguranti Ercole durante le sue più celebri fatiche e il momento in cui viene accolto nell’Olimpo, provenienti dalla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola di Genova.

Particolarmente interessanti saranno gli approfondimenti che analizzeranno, da un lato, la presenza della statuaria erculea nei giardini e dall’altro le piante a essa collegate, a cura di Darko Pandakovic, attraverso alcuni esempi che si ritrovano in parchi di residente private e di palazzi aristocratici, come Palazzo Pitti a Firenze, Le Tuileries a Parigi, il Castello di Powis in Gran Bretagna, o La Venaria stessa e, dall’altro, l’influenza che l’eroe ebbe nella storia dell’architettura, grazie a un video-passeggiata raccontata da Claudio Strinati.

La rassegna prosegue con una sezione dedicata alla città tedesca di Kassel, che ha nella gigantesca statua dell’eroe greco uno dei suoi simboli; dal suo museo provengono alcuni cammei del Sei/Settecento e in questa occasione verrà presentato un eccezionale filmato aereo della reggia e del parco che furono voluti da Guglielmo I d’Assia-Kassel.

Chiudono idealmente l’esposizione una curiosa sezione che, ricostruendo un’ambiente di foyer cinematografico anni ‘50/60, testimonia il rifiorire negli ultimi decenni dell’interesse sul mito di Ercole, con i grandi film, cosiddetti del “peplo”, prodotti a Cinecittà negli anni sessanta e poi ancora recentemente a Hollywood, che videro impegnati attori quali Giuliano Gemma o Arnold Schwarzenegger, oltre alla trasposizione in disegni animati di Walt Disney.

Senigallia (Ancona) – Dai monti azzurri all’Adriatico. Crivelli, Perugino, Giaquinto

Dai monti azzurri all’Adriatico. Crivelli, Perugino, Giaquinto
Senigallia (Ancona)
Palazzo del Duca
A cura di Stefano Papetti
Dal 19 ottobre 2018 al 3 marzo 2019

Senigallia torna ad accogliere i capolavori di alcuni grandi maestri che nel corso dei secoli hanno contribuito ad arricchire i centri adriatici con le loro opere, ospitando nelle sale di Palazzo del Duca la mostra curata da Stefano Papetti Perugino, Crivelli, Giaquinto. Dai Monti Azzurri all’Adriatico.

Attraverso una ricca selezione di opere provenienti dalla Pinacoteca Civica Fortunato Duranti di Montefortino e da altre istituzioni legate alla Rete Museale dei Sibillini, come la Pinacoteca “S. Gentili” di San Ginesio e la Pinacoteca Civica di Sarnano, luoghi peraltro segnati dai recenti eventi sismici, si illustrerà quel complesso processo di osmosi figurativa, che va dal centro fino alla costa marchigiana, e che Federico Zeri e Pietro Zampetti hanno definito cultura adriatica. Come afferma Stefano Papetti “si tratta di una stupefacente serie di capolavori che dialogano con il patrimonio artistico conservato a Senigallia, come la piccola tavola di Perugino, autore anche della monumentale ancona della chiesa di Santa Maria delle Grazie che attesta la grande diffusione del verbo peruginesco nel vasto territorio centro italiano, ma anche le tavole di Vittore Crivelli che testimoniano la fortuna dello stile forbito elaborato nelle fiorenti botteghe lagunari in continuo dialogo con il contesto adriatico.”

Un viaggio nella religiosità popolare marchigiana attraverso un affascinante percorso stilistico e iconografico che si dipana dai saloni di Palazzo del Duca con le grandi pale d’altare quattrocentesche fino agli ambienti più raccolti del piano nobile dove sono esposte le nature morte sei e settecentesche, alcune delle quali acquistate alla Fiera di Senigallia, collezionate da Fortunato Duranti, artista marchigiano precursore, in piena stagione romantica, della riscoperta dell’arte barocca. “Una mostra questa che intende aggiungere un tassello nella valorizzazione del nostro ricco patrimonio culturale colpito dal sisma e simbolo di un fertile crocevia di idee nei secoli” afferma Maurizio Mangialardi Sindaco di Senigallia.

Il percorso espositivo, che segue un ordine cronologico, inizia con la tavola Sant’Andrea e la Battaglia fra Ginesini e Fermani (1463ca) di Nicola di Ulisse da Siena nota come la “Battaglia della Fornarina” dal nome della fornaia che diede l’allarme dell’arrivo dei nemici e salvò il borgo di San Ginesio dalla distruzione e prosegue con la sublime Madonna orante, il Bambino e angeli musicanti di Vittore Crivelli a testimonianza del fortunato crocevia di artisti che dal Trecento ha legato Venezia e le Marche. 

A far da controcanto alla Pala di Senigallia del Perugino, che raffigura la Madonna in trono con Bambino e i Santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e Giacomo, oggi conservata presso la Pinacoteca Diocesana della città adriatica, il drammatico Cristo della Passione dello stesso Perugino che attesta la grande diffusione della sua cifra stilistica nel vasto territorio del centro Italia. Passando per Vincenzo Pagani, Antonio Romano, Simone De Magistris e Machisiano di Giorgio si arriva al Settecento con una serie di dipinti di Corrado Giaquinto, l’artista pugliese che ha operato nelle maggiori capitali italiane ed europee muovendo da Molfetta per poi approdare a Roma, Torino e Madrid dove riscosse incondizionati apprezzamenti per la leggiadria delle sue composizioni. Suo l’olio su tela La Maga che testimonia le storie e le leggende che popolano l’area dei Monti Sibillini.

In mostra anche le nature morte di affermati specialisti italiani del genere, opere di grande successo per il loro valore decorativo che nella mostra è testimoniato dalle tele di due pittori come Spadino e Cristoforo Munari.

Galleria Sabauda Torino – Van Dyck. Pittore di corte

Van Dyck. Pittore di Corte
Torino Galleria Sabauda
Curatori: Annamaria Bava, Maria Grazia Bernardini
16 Novembre 2018 – 17 Marzo 2019


Il 16 novembre 2018, nelle Sale Palatine della Galleria Sabauda, presso i Musei Reali di Torino, apre al pubblico la straordinaria mostra dedicata ad Antoon van Dyck (Anversa, 1599 – Londra, 1641), uno dei più grandi artisti del Seicento europeo, il miglior allievo di Rubens che rivoluzionò l’arte del ritratto del XVII secolo.

Personaggio di fama internazionale, gentiluomo dai modi raffinati, artista geniale e amabile conversatore, Van Dyck fu pittore ufficiale delle più grandi corti d’Europa.

Attraverso un percorso espositivo che si dispiega in quattro sezioni, 45 tele e 21 incisioni, la mostra Van Dyck. Pittore di corte intende far emergere l’esclusivo rapporto che l’artista ebbe con le corti italiane ed europee. Dipinse capolavori unici per elaborazione formale, qualità cromatica, eleganza e dovizia nella resa dei particolari, soddisfacendo le esigenze di rappresentanza e di status symbol delle classi dominanti: dagli aristocratici genovesi ai Savoia, dall’arciduchessa Isabella alle corti di Giacomo I e di Carlo I d’Inghilterra.

Le sue opere sono un modo per entrare nel fastoso universo seicentesco, per scoprire le ambizioni dei personaggi che si fecero ritrarre dalla “gloria del mondo”: così Carlo I amava definire il maestro fiammingo, per accrescere il lustro e il prestigio della corte.

Proprio in Italia, dove Van Dyck soggiornò per sei anni, dal 1621 al 1627, visitando numerose città e dove potè approfondire lo studio dell’arte italiana e in particolare quella veneta, avviò i contatti con l’aristocrazia genovese, i sovrani torinesi e i duchi di Firenze, committenti che lo condussero a specializzarsi nella ritrattistica. Formandosi sui modelli di Tiziano e rispondendo alle esigenze celebrative della committenza, Van Dyck elaborò un genere del tutto personale, caratterizzato da una grande perfezione formale. Opere come la Marchesa Elena Grimaldi Cattaneo, il Cardinale Guido Bentivoglio, Emanuele Filiberto Principe di Savoia, l’Arciduchessa Isabella Clara Eugenia in abito monastico, Il Principe Tomaso di Savoia Carignano, Carlo I e la Regina Enrichetta Maria sono esempi sublimi dei suoi ritratti che, per la naturalezza e spontaneità dei gesti, per la cura estrema nella resa dei materiali preziosi come sete e merletti, per le pennellate impalpabili che creano atmosfere vibranti e seducenti, esercitano ancora oggi un fascino irresistibile.

Grandi e importanti sono anche le tele dedicate ai miti, i cui racconti erano tanto in voga nell’iconografia del tempo, come Giove e Antiope, Amarilli e Mirtillo, Vertumno e Pomona e Venere nella fucina di Vulcano.

All’artista i Musei Reali di Torino e Arthemisia dedicano una grande esposizione incentrata sulla sua vasta produzione di ritratti e non solo: le opere, 45 dipinti e 21 incisioni, provengono dai musei italiani e stranieri più prestigiosi come la National Gallery di Washington, il Metropolitan Museum di New York, la National Gallery di Londra e la Collezione Reale inglese, la Scottish National Gallery di Edimburgo, il Museo Thyssen-Bornemiza di Madrid, il Kunsthistorishes Museum di Vienna, l’Alte Pinakotek di Monaco, il Castello Arcivescovile di Kromeriz presso Praga, le Gallerie degli Uffizi, i Musei Capitolini di Roma, la Ca’ d’Oro di Venezia, la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, il Palazzo Reale e i Musei di Strada Nuova di Genova, in dialogo con l’importante e corposo nucleo di capolavori della Galleria Sabauda.

La mostra è organizzata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Musei Reali di Torino e dal Gruppo Arthemisia, con il patrocinio di Regione Piemonte e Città di Torino.
La cura dell’esposizione è affidata ad Anna Maria Bava e Maria Grazia Bernardini e a un prestigioso comitato scientifico, composto da alcuni tra i più noti studiosi di Van Dyck quali Susan J. Barnes, Piero Boccardo e Christopher Brown.

L’iniziativa è sostenuta da Generali Italia attraverso Valore Cultura, il programma per promuovere l’arte e la cultura su tutto il territorio italiano e avvicinare un pubblico vasto e trasversale – famiglie, giovani, clienti e dipendenti – al mondo dell’arte attraverso l’ingresso agevolato a mostre, spettacoli teatrali, eventi e attività di divulgazione artistico-culturali con lo scopo di creare valore condiviso.

La mostra vede come special partner Ricola, sponsor tecnico Trenitalia e radio partner Radio Dimensione Suono.
L’evento è consigliato da Sky Arte.
Il catalogo è edito da Arthemisia Books.

LA MOSTRA
La prima sezione è dedicata alla formazione del giovane artista e al suo rapporto con Rubens.
Van Dyck, dopo un breve apprendistato presso l’attivissima bottega di Van Balen, iniziò una stretta collaborazione con Peter Paul Rubens, uno dei più grandi artisti del Seicento, che ebbe una influenza decisiva nell’elaborazione dei suoi modi stilistici. Per le sue straordinarie capacità, a diciotto anni Van Dyck entrò nella Gilda di Anversa e aprì una sua personale bottega, pur mantenendo la collaborazione con il maestro per grandi imprese pittoriche, fino alla sua partenza per l’Italia. Fin dalle sue prime opere, molto legate allo stile di Rubens, emerge un linguaggio originale e innovativo, caratterizzato da una vena poetica, lirica, che si differenzierà dallo stile epico del maestro.

La seconda sezione si sofferma sull’attività di Van Dyck in Italia. Dopo un breve soggiorno a Londra presso la corte di Giacomo I, Van Dyck giunse in Italia nel 1621, dove si trattene fino al 1627, visitando Venezia, Torino, Roma, Bologna, Firenze, Palermo e Genova. Nelle “regge repubblicane” genovesi si affermò il nuovo modo di ritrarre elaborato da Van Dyck, superbo, raffinato, maestoso e al contempo vivo e fortemente emotivo, confacendosi alle esigenze di celebrazione e ostentazione del ceto aristocratico. D’altronde fu proprio in Italia che l’artista seppe definitivamente creare il suo impalpabile ed elegante linguaggio grazie allo studio dell’arte italiana, in particolare dell’arte veneta e di Tiziano, come provano gli schizzi raccolti nel noto Sketchbook, conservato al British Museum e riprodotto in mostra. I primi ritratti realizzati in Italia da Van Dyck sono capolavori straordinari, come il Cardinale Bentivoglio (Firenze, Gallerie degli Uffizi) e la Marchesa Elena Grimaldi Cattaneo (Washington, The National Gallery of Art), entrambi esposti in mostra. Negli anni successivi, l’artista eseguì un numero cospicuo di ritratti e affinò l’attenzione verso la resa pittorica delle stoffe dai ricami preziosi, l’ambientazione atmosferica e lo studio psicologico dell’effigiato.

La terza sezione è dedicata gli anni anversesi, presso la corte di Isabella Clara Eugenia. Tornato ad Anversa nel 1627, divenne pittore di corte dell’arciduchessa Isabella Clara Eugenia, sostituendo Rubens. Ebbe occasione di lavorare anche per lo stadholder Frederik Hendrik, principe d’Orange, che collezionò vari dipinti dell’artista tra cui opere a soggetto mitologico come Amarilli e Mirtillo e Teti nella fucina di Vulcano. In questo periodo Van Dyck raffigurò molti personaggi dell’ambiente vicino a Isabella, una galleria eccezionale di dipinti e incisioni: queste ultime furono raccolte nel volume Iconographia e in mostra ne sono esposti 13 esemplari, provenienti dall’Istituto Centrale della Grafica, accanto ad altre 8 incisioni di collezione privata. Sono presenti anche i ritratti dell’arciduchessa Isabella in veste monacale, in un confronto tra Van Dyck e Rubens.

La quarta sezione illustra l’attività di Van Dyck presso la corte di Carlo I. Nel 1632 si trasferì a Londra, presso la corte di Carlo I, dove rimase fino alla morte prematura, avvenuta nel 1641, a parte qualche breve soggiorno ad Anversa e a Parigi. Fu presso la corte inglese che Van Dyck raggiunse il culmine della sua fama. Realizzò un numero sorprendente di ritratti del re, della regina, dei loro figli (come le due versioni de I tre figli maggiori di Carlo I in mostra) e un gran numero di personaggi che frequentavano assiduamente la corte del re d’Inghilterra, regalandoci un panorama davvero sorprendente di quella società: i sovrani sereni e potenti, i personaggi di grande eleganza e raffinatezza, sontuosamente abbigliati, ritratti di lords, duchi, principi, ladies, da cui poco si coglie delle difficoltà politiche che l’Inghilterra attraversava con Carlo I.

Mudec Milano – Paul Klee. All’origine dell’arte

La mostra Paul Klee. Alle origini dell’arte, a cura di Michele Dantini e Raffaella Resch, presenta un’ampia selezione di opere di Klee sul tema del “primitivismo”, con un’originale revisione di questo argomento che in Klee include sia epoche preclassiche dell’arte occidentale (come l’Egitto faraonico), sia epoche sino ad allora considerate “barbariche” o di decadenza, come l’arte tardo-antica, quella paleocristiana e copta, l’Alto Medioevo; sia infine l’arte africana, oceanica e amerindiana.

Il concetto di “primitivismo” in Klee assume connotazioni diverse rispetto a quelle comunemente utilizzate a proposito delle avanguardie storiche. L’interesse per tutto quanto, in arte, è “selvaggio” e “primitivo” si desta in Klee in coincidenza con il suo primo viaggio in Italia e la scoperta dell’arte paleocristiana a Roma, tra l’autunno del 1901 e la primavera del 1902.

In seguito al viaggio in Italia Klee si considererà un “epigono”: vale a dire ultimo nato, erede tardivo di un’illustre civiltà giunta al tramonto. E questa conclusione non lo abbandonerà mai in seguito, spingendolo a trasformare, come lui stesso racconta nei Diari, la delusione in “stile”. Ha origine qui, da un’esperienza in parte dolorosa al cospetto dell’Antico, la propensione di Klee alla beffa e al pastiche. L’artista cerca in opere d’arte “primitive” e in repertori desueti quell’arte della deformazione, o “satira in Grande Stile”, che gli permette di infrangere il gusto monumentale e anticheggiante entro cui si era formato a Monaco.

Klee è un grande conoscitore della storia dell’arte occidentale in tutta la sua ampiezza e varietà. Pressoché in ogni momento della sua attività istituisce rapporti nuovi e inattesi con questa o quella componente della tradizione e si nutre di memorie figurative, in modo non nostalgico. Per necessità insieme storica e di temperamento, l’omaggio si intreccia in lui intimamente alla parodia.Pari all’interesse per la caricatura, che evolve in lui rapidamente in direzioni diverse e più complesse della semplice vignetta da foglio di giornale, è l’interesse per il rinnovamento dell’arte sacra, sviluppatosi in particolare a partire dagli anni in cui Klee collabora alle iniziative del Blaue Reiter con Kandinskij e soprattutto con Franz Marc. Klee è convinto che alle origini dell’arte ci sia una religione, un “popolo” o una comunità storica e linguistica provvista di simboli comuni e riti condivisi.

Ed è convinto che occorra oltrepassare le iconografie tradizionali. A partire dal 1912-1913 Klee dissemina le proprie immagini di ideogrammi, rune o elementi “alfabetici” di invenzione. Si sforza di rinviare l’osservatore al processo che sta dietro l’immagine; di sollecitare in lui domande attorno al senso di ciò che vede; di indurlo a leggere e decifrare con attenzione. Guarda all’arte bizantina, all’arte celtica, ovviamente all’illustrazione primo-rinascimentale tedesca per trovare precedenti di un’arte (per lo più sacra) intimamente congiunta alla parola e alla “rivelazione”. In seguito, negli anni Venti e Trenta, il suo interesse per l’epigrafia si nutre di riferimenti agli antichi alfabeti cuneiformi medio-orientali e alla geroglifica egizia. È durante gli ultimi anni della Grande Guerra che Klee vive una sorta di “conversione”, che lo porta a privilegiare temi “cosmici” e a distaccarsi dalle attitudini parodistiche mostrate in precedenza. Klee, in questa fase, immagina di abitare presso “il cuore della Creazione”, vicino alla mente di Dio, e l’arte diventa archetipo, formula di tutte le cose esistenti. I suoi modelli, validi ancora negli anni Venti e Trenta, sono l’illustrazione tedesca tardo-medievale, le miniature celtiche o mozarabiche o l’arte del tempo della «migrazione dei popoli».

Il quadro (o ancor più il disegno) si trasforma in una sorta di pagina di diario “metafisica”: l’opera non si osserva più o meno fuggevolmente, ma “si legge” a vari livelli, come una sorta di partitura musicale. L’artista concepisce l’arte in modo nuovo, “mistico” appunto, in un rapporto indissolubile tra pittura e musica, immagini e parole.
Le sezioni in cui verrà suddivisa la mostra racconteranno questo processo di formazione artistica. Dalla caricatura al periodo in cui Klee si definisce anche “illustratore cosmico”; a un primitivismo di tipo “epigrafico”, la cui sezione di riferimento non a caso verrà intitolata “alfabeti e geroglifiche d’invenzione”.

Una sezione sarà dedicata al teatrino di marionette che Klee aveva costruito per il figlio Felix, a testimonianza del suo interesse per l’espressività infantile e quindi per le origini primordiali dell’arte che l’autore, coerentemente con il suo tempo, riteneva dovessero cercarsi nelle espressioni artistiche di alcune popolazioni di interesse etnografico. Insieme a esemplari di marionette verrà presentata una selezione delle opere etnografiche del MUDEC. I manufatti extraeuropei, lungi dal fornire un elemento di comparazione diretta con i lavori di Klee, riferiscono di come l’artista si sia avvicinato, abbia corrisposto con l’universo fantastico, antropologico e stilistico delle arti extraeuropee.

Infine, la sezione dedicata a “policromie e astrazione”designa un diverso insieme di opere, caratterizzate, oltreché dal rigoroso disegno geometrico per lo più associato a motivi architettonici, dalla trasparenza di differenti velature di colore.
Klee viene quindi presentato sia attraverso le sue opere astratte e policrome, conosciute e amate dal grande pubblico, sia attraverso i suoi meno noti lavori caricaturali; al tempo stesso, puntuali ricerche sulle fonti, sui repertori iconografici e formali e sui documenti testuali danno conto della complessità del sostrato culturale dell’artista, della vastità della sua produzione e dell’ampiezza delle tecniche da lui utilizzate.

Gallerie d’Italia, Museo Poldi Pezzoli a Milano: Romanticismo

ROMANTICISMO
Gallerie d’Italia – Piazza Scala Sede museale di Intesa Sanpaolo a Milano Museo Poldi Pezzoli
26 ottobre 2018 – 17 marzo 2019
Mostra a cura di Fernando Mazzocca

  • Una grande mostra che affronta per la prima volta l’originalità del contributo italiano all’arte del Romanticismo.
  • 200 opere di artisti sia italiani che stranieri, da Hayez a Corot, da Turner a Molteni Molte opere inedite, esposte al pubblico per la prima volta.
  • Un invito a conoscere la Milano romantica, alla scoperta dei luoghi che ne fecero la capitale italiana del movimento.
  • Un racconto che attraverso l’arte fa luce anche sulla musica, la letteratura, la poesia.
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Le Gallerie d’Italia – Piazza Scala, sede museale di Intesa Sanpaolo a Milano, e il Museo Poldi Pezzoli presentano dal 26 ottobre 2018 al 17 marzo 2019 Romanticismo, a cura di Fernando Mazzocca, la prima mostra dedicata al contributo italiano al movimento che ha cambiato la sensibilità e l’immaginario del mondo occidentale nel corso della prima metà dell’Ottocento.

Le 200 opere selezionate ripercorrono il vivace confronto e dibattito culturale svoltosi tra l’Inghilterra, la Francia e i Paesi del Nord, soprattutto la Germania e l’Impero austriaco, a cui partecipò l’Italia, negli anni che vanno dal Congresso di Vienna alle rivoluzioni che nel 1848 sconvolsero il vecchio continente.

Di queste, 42 non sono mai state esposte prima d’ora: provengono per lo più da collezioni private e comprendono esemplari di Caffi, Hayez, Induno, Molteni; 14 opere inoltre non sono mai state viste in Italia e giungono dalle più importanti istituzioni museali estere, quali il Belvedere di Vienna e l’Ermitage di San Pietroburgo, da cui giungono capolavori di Friedrich, e la National Gallery di Londra che presta un dipinto di Corot.

Molti i musei coinvolti in Italia, solo per citarne alcuni: l’Accademia Carrara di Bergamo, i Musei Civici d’Arte e Storia di Brescia, la GAM-Civica Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea e Palazzo Reale di Torino, l’Accademia di Brera, la Galleria d’Arte Moderna e Palazzo Reale di Milano, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro e le Gallerie dell’Accademia di Venezia, la Galleria degli Uffizi e la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti di Firenze, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, il Museo di San Martino e Palazzo Reale di Napoli. Eccezionale partecipazione del Teatro alla Scala di Milano per il prestito di alcuni costumi di scena.

La rassegna prende in considerazione anche i fermenti preromantici e le ultime manifestazioni di una cultura che, almeno nel nostro Paese, avrà termine con l’Unità d’Italia e l’affermazione del Realismo, che del Romanticismo rappresenta l’antitesi.

Milano è la città italiana che più di tutte ha avuto in quegli anni una maggiore vocazione europea, è stata uno dei centri della civiltà romantica, sia per quanto riguarda le arti figurative che sul versante letterario e musicale. Basti pensare alle esposizioni d’arte che si sono tenute in quegli anni all’Accademia di Brera, alle sue imprese editoriali, ai suoi teatri, tra cui La Scala e il Carcano, ai protagonisti che l’hanno abitata, come Alessandro Manzoni, Ugo Foscolo, Francesco Hayez, Gioacchino Rossini e Giuseppe Verdi.

Come nel resto d’Europa, anche in Italia non è esistito uno stile romantico comune, ma linguaggi individuali di artisti tra loro molto diversi. La mostra vuole restituire questa diversità, vera forza del Romanticismo, i cui ideali di “spontaneità”, di “individualità” e di “verità interiore” hanno avuto una penetrazione più vasta di quella delle idee illuministe, corrispondendo esattamente alle attese di una società profondamente cambiata dopo la Rivoluzione francese e l’età napoleonica.

La mostra è articolata in 21 sezioni – 16 alle Gallerie d’Italia e 5 al Museo Poldi Pezzoli – che ripercorrono i temi più significativi dell’arte romantica. Assistiamo alla rottura nella gerarchia dei generi per cui alcuni prima considerati “minori”, come il paesaggio, il ritratto, la rappresentazione della vita del popolo, assumono lo stesso interesse e importanza della pittura sacra e della pittura di storia, per tradizione collocate al primo posto e anch’esse completamente rinnovate dalla nuova sensibilità del Romanticismo.

Nuove attribuzioni, opere inedite e una impegnativa campagna di restauri che ha riguardato molte delle opere esposte amplificano il contributo scientifico apportato dalla mostra.

MIC Faenza: Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America

AZTECHI, MAYA, INCA e le culture dell’antica America
MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche), Faenza
11 novembre 2018 – 28 aprile 2019
Mostra a cura di Antonio Aimi e Antonio Guarnotta

WEBSITE DELLA MOSTRA

A Faenza, la spettacolare mostra che il MIC Museo Internazionale delle Ceramiche dedica a “Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America” (dall’11 novembre al 28 aprile prossimi, a cura di Antonio Aimi e Antonio Guarnotta) stupirà i visitatori non  soltanto per la strepitosa bellezza e raffinatezza  delle ceramiche esposte – veri e proprio capolavori d’arte – ma anche per i molti, curiosi spunti di  approfondimento che arricchiscono l’esposizione.

Uno dei più curiosi riguarda l’invenzione del gioco con la palla, che può essere considerato progenitore del nostro calcio e di tutti gli sport in cui si usa una palla che rimbalza.Infatti negli altri giochi dell’antichità e degli altri continenti che potrebbero rivendicare un legame analogo si usavano palle che non rimbalzavano.

Lo illustra, nel catalogo edito da Silvana che accompagna la mostra, Antonio Aimi. “Il gioco della palla – scrive Aimi – era presente in molte culture dell’antica America, dalla Mesoamerica alle Ande Meridionali, dall’Area Intermedia all’Amazzonia, ma non nell’Area Peruviana. Quello praticato nella Mesoamerica  può essere considerato il gioco a squadra più antico del mondo, che aveva una centralità sconosciuta altrove e che ha lasciato monumenti impressionanti (il campo da gioco di Chichen Itza è lungo 168 metri) e paraphernalia straordinari.

Il gioco della palla poteva essere praticato – continua il prof. Aimi – in spazi aperti o in costruzioni apposite, gli sferisteri, strutture allungate a forma di “I”, che erano delimitati o da bassi muretti o da grandi costruzioni con pareti inclinate o verticali, in cui, a partire dall’Epiclassico, erano inseriti degli anelli. Il terreno degli sferisteriera diviso a metà dai marcadores che delimitavano il campo di ogni squadra. Il gioco era la reiterazione di eventi dei miti cosmogonici di cui erano stati protagonisti gli eroi culturali e gli stessi dei….

Pur essendo nato come rituale religioso, nel corso del tempo il gioco della palla acquisì sempre più una componente profana, tant’è vero che le cronache riferiscono che alla vigilia della Conquista le partite erano accompagnate da un “tifo” appassionato e da numerose scommesse”.

Ma come si svolgevano quelle partite? I palloni usati erano più piccoli degli attuali. Il loro diametro non superava i 15 centimetri. La palla  poteva essere colpita solo con le anche, le cosce o le ginocchia e ogni squadra doveva rinviare la palla nel campo degli avversari senza farla uscire dallo sferisterio, né farle toccare il terreno. Vinceva chi, commettendo meno errori, arrivava a totalizzare per prima un determinato punteggio.

Ma quelle antiche partite anticipano anche altri sport di oggi. ad esempio la pallacanestro. Se, infatti, nel corso delle partite   una squadra riusciva a far passare la palla attraverso gli anelli, che, a partire dal Postclassico erano stati collocati ai lati del campo, vinceva ipso facto la partita.

“Nel corso di circa 3000 anni di storia mesoamericana si sono sviluppate –sottolinea l’esperto – diverse varianti del gioco. Nella regione dell’Oaxaca si usava una palla di piccole dimensioni che veniva lanciata con guanti pesanti, nell’Area Maya si giocava anche con una palla di grandi dimensioni (circa un metro di diametro) fatta, probabilmente, di una pelle gonfiata. A Teotihuacan, la grande metropoli che dominò la Valle del Messico durante il Periodo Classico, pare che esistessero anche altri due modi di giocare. Il primo prevedeva di colpire la palla coi piedi, il secondo con una mazza e veniva praticato in un terreno aperto delineato da marcadores verticali, mobili e componibili, che, una volta assemblati, sembravano colonne sormontate da una sfera e da un cerchio”. Come a dire, nulla di nuovo sotto il sole dello sport!.