Colosseo, Foro Romano, Palatino: l’area statale più visitata

Musei e siti archeologici statali sono stati visitati, nel 2018, da oltre 55 milioni di persone (55.504.372), con un incremento superiore ai cinque milioni rispetto all’anno solare 2017 (50.169.316). L’incremento riguarda sia gli ingressi a pagamento, 24.938.547 nel 2018, 24.068.759 nel 2017, sia, in misura maggiore, gli ingressi gratuiti che passano da 26.100.557 del 2017 a 30.565.825 del 2018.
In ragione dell’aumento dei visitatori si è registrato anche un incremento degli incassi lordi. Si è così passati dai 193.915.765 euro euro del 2017 ai 229.360.234 del 2018 con un segno più di ben 35.444.469 milioni di euro.

Per quanto riguarda i singoli ingressi
> il sito statale più visitato resta saldamente l’area Colosseo – Foro Romano – Palatino che fa segnare un +8,73% passando da 7.036.104 visitatori del 2017 a 7.650.519 del 2018. 
> Al secondo posto l’area archeologica di Pompei che aumenta il numero di visitatori del 7,78% passando da 3.383.415 ingressi a 3.646.585 del 2018.
> Terza la galleria degli Uffizi con il Corridoio Vasariano che fa registrare un leggerissimo decremento, dello 0,19%, calando da 2.235.328 a 2.231.071 visitatori.
Tra i 30 siti più visitati nel 2018 il maggior incremento è stato dei Musei Reali di Torino (+27,82), Palazzo Pitti a Firenze (+24,23%), le Grotte di Catullo e il museo archeologico di Sirmione (+18,83%) e il Giardino di Boboli a Firenze che risale la classifica fino ad essere il quinto sito più visitato in Italia con il suo +17,92.

Nella classifica dei primi 30 siti più visitati in Italia
– 8 si trovano nel Lazio,
– 6 in Campania,
– 5 in Toscana,
– 4 in Lombardia,
– 3 in Piemonte,
– 2 in Veneto
– e uno ciascuno in Puglia e Friuli Venezia Giulia.

Fonte: Ufficio Stampa MiBAC –
Redattore: RENZO DE SIMONE
Roma, 15 febbraio 2019

Sit tibi terra levis. In morte di Giovanni Molonia, storico

Se ne è andato Giovanni Molonia, intellettuale messinese generoso e sagace. Per più di un quarantennio si è occupato di recupero, conservazione e studio delle memorie storiche del territorio peloritano di cui è stato qualificato, attento e meticoloso cultore e divulgatore. È una grave perdita per Messina e per tutti gli studiosi messinesi e non, cultori di storia locale, che, con la sua morte, perdono un importante e significativo punto di riferimento.
Saro Abate
Facebook

Giovanni Molonia ci ha lasciato, ma i giganti come lui muoiono soltanto fisicamente perché l’immortalità l’hanno raggiunta con le loro opere. Ci sarà in ogni tempo qualcuno che vedrà un suo articolo di giornale, un libro, un saggio, un catalogo, e in quel momento la morte sarà sconfitta, per sempre.
Nino Principato
Lutto a Messina, è morto lo studioso Giovanni Molonia

Uomo che ha letto tutti i libri, Giovanni è stato uno studioso anomalo, atipico, direi unico nel panorama degli intellettuali messinesi. Lo caratterizzava la refrattarietà a ogni genere di protagonismo, l’assoluta mancanza dell’autoreferenzialità tanto di moda tra coloro che si ritengono dotti, la curiosità infinita verso ogni aspetto della storia della nostra città, l’incredibile abilità nel compulsare archivi, biblioteche, fondi librari pubblici e privati, e mettere in relazione tra loro fonti e notizie di diversa origine e provenienza. Le sue schede su fatti e personaggi della storia messinese erano puntuali monografie in cui non veniva trascurato alcun dato, alcun aspetto della materia trattata. È stato, Giovanni, uno studioso d’altri tempi, al pari degli eruditi messinesi otto-novecenteschi (La Corte Cailler, Arenaprimo, Grosso Cacopardo, Puzzolo Sigillo e altri) da lui tanto amati, i cui scritti in sommo grado padroneggiava.
Sergio Todesco
In ricordo di Giovanni Molonia, l’uomo che ha letto tutti i libri

Io piango semplicemente l’amico. I libri che ha scritto in tutti questi anni parlano per lui. Il mio sentimento? Mi sento ancora più solo di quanto già non fossi. Sit tibi terra levis.
Sergio Bertolami

Il Velluto di Nuoro: per abiti classici, tradizionali o casual

Il velluto prende il nome dal latino vellus, proprio perché tessuto caratterizzato da un fitto pelo sulla faccia del dritto. Di origine orientale, si diffuse in Occidente verso il tredicesimo secolo presso le classi più agiate. Nel Cinquecento, periodo in cui si affermò una netta distinzione tra i tessuti per l’abbigliamento e quelli per l’arredo, la produzione del velluto si diffuse anche in Italia. Pur esistendo velluti di lana e di seta, il più diffuso è senza dubbio quello di cotone. Diversi capi tra cui giacche, pantaloni, berretti, e diversi tipi di tessitura, liscia o a coste, rendono il velluto una stoffa poliedrica, adatta ad interpretare qualsiasi stile. In Sardegna probabilmente il velluto giunse con i catalani, e per secoli fu chiamato “terciopelo alla spagnola”. Nostante il nome, questo tessuto veniva fabbricato in Italia per tutto il resto d’Europa.

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IL VELLUTO DI NUORO

La patata della Sila: coltivata fino a 2000 metri d’altitudine

Originaria del Perù, la “Patata della Sila” fu portata dagli spagnoli prima in Galizia e poi nei loro domini in Italia. Da qui cominciò a diffondersi in tutta Europa a partire dal XVI secolo. In montagna, si hanno testimonianze della sua coltivazione sin dal XVIII secolo. Nata sulla catena delle Ande, la Patata della Sila è particolarmente adatta alle alte quote e ai campi in pendenza, non teme la grandine e cresce in qualunque terreno. Infatti, questa patata, poteva essere coltivata fino a quasi 2000 metri di altitudine, anche su terreni poco fertili e in ombra, assicurando sempre un minimo di raccolto.

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PATATA DELLA SILA

Timbri della murgia materana: per distinguere il pane delle famiglie

Il timbro per il pane è uno dei simboli dell’arte pastorale della murgia materana. Fino agli anni ’50 del ‘900 le massaie usavano impastare il pane in casa e consegnarlo ai garzoni dei forni degli antichi rioni della città, che si occupavano della cottura. Dal momento che i forni erano per lo più pubblici o appartenenti alle famiglie benestanti, sorgeva quindi la necessità di distinguere le pagnotte delle diverse famiglie: per questo motivo l’impasto lievitato veniva timbrato prima della cottura. I timbri erano commissionati ai pastori, che li realizzavano quando erano lontani dalle loro abitazioni e avevano del tempo libero da dedicare all’intaglio del legno: essi venivano infatti realizzati con rami trovati lungo il cammino, senza alcuna selezione del legno, e con particolare attenzione all’aspetto funzionale, più che a quello estetico. Oggi invece i timbri del pane sono apprezzati oggetti di ornamento: gli artigiani utilizzano legni pregiati e dedicano molta attenzione all’aspetto decorativo dell’oggetto.

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I TIMBRI DEL PANE