Siena: Il sogno di Lady Florence Phillips – La Collezione della Johannesburg Art Gallery

Il sogno di Lady Florence Phillips
La Collezione della Johannesburg Art Gallery
Siena, Santa Maria della Scala24 luglio 2020 / 10 gennaio 2021

Alfred Sisley, Sulla riva del fiume a Veneux, 1881. © Johannesburg Art Gallery

Il sogno di Lady Florence Phillips – La Collezione della Johannesburg Art Gallery è la mostra di Opera – Civita, promossa dal Comune di Siena, a cura di Simona Bartolena, che presenterà, dal prossimo 24 luglio 2020 fino al 10 gennaio 2021, al Santa Maria della Scala, la collezione di capolavori conservata permanentemente alla Galleria d’Arte di Johannesburg.

Una selezione di circa sessanta opere, tra olii, acquerelli e grafiche, ripercorrerà oltre un secolo di storia dell’arte internazionale, dalla metà del XIX secolo fino al secondo Novecento, attraverso i suoi maggiori interpreti: Degas, Monet, Cézanne, Van Gogh, Matisse, Modigliani, Turner, Rodin, Moore, Lichtenstein, Derain, Pissarro, Corot, Sargent, Sisley, Bacon, Rossetti, Warhol, Signac, Picasso e molti altri.

Aperta al pubblico nel 1910, la Johannesburg Art Gallery è il principale museo d’arte del continente africano. La mostra presenta una selezione di 64 opere scelte dalle sue vastissime collezioni, spaziando dai grandi artisti europei dell’Ottocento ai maestri (ben meno noti e per questo ancor più sorprendenti) della scena sudafricana del XX secolo: da Degas a Rossetti, da Corot a Boudin, da Courbet a Monet, da Signac a Van Gogh, da Picasso a Bacon, Lichtenstein e Warhol, fino a William Kentridge. Una serie inaspettata di capolavori che permettono di percorrere un vero e proprio viaggio nella storia dell’arte del XIX e XX secolo, spaziando dall’Europa agli Stati Uniti, fino al Sudafrica.

Ma la vera protagonista dell’esposizione è Lady Florence Phillips, la fondatrice del museo, figura straordinaria, tutta da scoprire. Lady Phillips era nata il 14 giugno 1863 a Cape Town. Suo padre, Albert Frederick Ortlepp, è un naturalista, ispettore dei territori di Colesberg. Nel 1885 Florence aveva sposato Lionel Phillips, figlio di mercanti della lower middle-class londinese, e con lui si era trasferita a Johannesburg. Nel 1892 Lionel era stato eletto presidente della Chamber of Mines, acquistando sempre più potere e perseguendo interessi politici che sfoceranno nel coinvolgimento personale nel “Jameson Raid”, il fallimentare tentativo britannico di sovvertire il governo sudafricano, allora ancora in mano ai boeri. Consegnatosi alla giustizia per chiedere la grazia, Phillips venne invece condannato a morte, ma dopo sei mesi di prigionia venne liberato e costretto all’esilio in Inghilterra. Florence, che fino ad allora aveva viaggiato molto, torna in quell’occasione accanto al marito e lo segue a Londra. È in questo periodo che Florence comincia ad appassionarsi all’arte, prima timidamente, poi con sempre maggior convinzione, cominciando a maturare la convinzione che l’arte possa essere utile, farsi strumento di aiuto sociale, in particolare per le fasce di popolazione più bisognose. Tornata a Johannesburg nel 1906, comincia a dare corpo al suo sogno di realizzare qualcosa di importante per il Sudafrica. Guidata da uno straordinario filantropismo, oltre che dalla volontà di dare visibilità e credibilità culturale al proprio paese d’origine, Lady Phillips immagina una galleria pubblica di livello internazionale, con sede a Johannesburg. Ma il contributo di Florence per il proprio paese non si ferma alla creazione del museo. Collezionista di manufatti africani, Lady Phillips si prodiga nella divulgazione e protezione delle tradizioni dei nativi. Florence morì il 23 agosto del 1940, nella tenuta di famiglia nel West Somerset. Le sembianze di questa donna straordinaria sopravvivono in alcune immagini fotografiche e, soprattutto, in alcuni splendidi dipinti. Uno di questi è la tela di Antonio Mancini, che ritrae Florence a 46 anni, da cui prenderà avvio il percorso della mostra.

Nei propositi espressi in occasione della fondazione del Museo, Lady Phillips sottolinea un importante scopo del suo progetto: “Noi possiamo sperare che in futuro cresca una Scuola d’Arte Sudafricana e che lo studio dei capolavori che siamo riusciti ad assicurare a questa galleria aiuti anche a incentivare gli artisti locali”. La valorizzazione dell’arte e della cultura sudafricane ha quindi un ruolo importante nelle finalità dell’Art Gallery.

Dopo un’introduzione alla figura di Lady Phillips, la mostra comincia il proprio percorso espositivo con la sezione dedicata all’Ottocento inglese, con opere del grande protagonista del romanticismo britannico Joseph Mallord William Turner, dei Preraffaelliti Dante Gabriel Rossetti e John Everett Millais e di Sir Lawrence Alma-Tadema.

Un nucleo di opere francesi della seconda metà dell’Ottocento sono le protagoniste della sezione successiva: in esposizione la veduta delle falesie normanne di Étretat di Gustave Courbet e opere di François Millet e Henri-Joseph Harpignie.

Il percorso prosegue con la straordinaria novità del linguaggio impressionista delle opere di Monet, Sisley, Degas e Guillaumin e con alcuni protagonisti della scena postimpressionista. Notevole  spazio ha in mostra il pointillisme grazie alla presenza di due capolavori di Paul Signac, un paesaggio di Lucien Pissarro e un importante lavoro di Henri Le Sidaner.

Segnano, invece, il passaggio al XX secolo i disegni di due grandi scultori: Auguste Rodin e Aristide Maillol. In mostra, al rigore di André Derain fanno da contrappunto l’approccio già avanguardista di Ossip Zadkine e l’inconfondibile eleganza del segno di Amedeo Modigliani e dello sguardo di Henri Matisse. Quattro grafiche e una significativa Testa di Arlecchino a pastello raccontano la ricerca di Pablo Picasso.

La collezione storica dedicata al secondo Novecento è testimoniata da un tormentato ritratto maschile di Francis Bacon, un intenso carboncino di Henry Moore, e due capolavori pop di Roy Lichtenstein e Andy Warhol.

L’ultima sezione della mostra è dedicata all’arte africana e si chiude con tre splendide opere di William Kentridge, il più noto rappresentante dell’arte sudafricana nel mondo contemporaneo.

Fino al 10 gennaio sarà possibile, quindi, ammirare questa collezione di capolavori presso le sale del Santa Maria della Scala, attraverso questa grande mostra, organizzata in collaborazione con Vidi e con catalogo Skirà, che si preannuncia come l’esposizione più significativa del 2020 a Siena.

IMMAGINE DI APERTURA – Boudin, Louis Eugéne. Le Port de Trouville © Johannesburg Art Gallery

Leandra Lanzetta – Pompei, la suggestione della città riscoperta nella pittura di Alma Tadema

Che cos’è un museo? Quali sono i suoi obiettivi? Quale è il senso del museo ed in che modo comunica? La storia evolutiva dei musei è estremamente complessa, ma può essere tracciata seguendo, in parallelo, i mutamenti sociali che ne hanno determinato cambiamenti ed adattamenti. Questi ultimi sono legati principalmente alle esigenze di coloro che al museo hanno dato “vita”; ai mutamenti delle preferenze circa il gusto estetico; al mutamento della ricezione culturale, che da generale ha cominciato ad essere specifica. Il fare museo sembra trovare le proprie origini proprio nella natura umana; la nascita del museo infatti, si deve forse alla tendenza o al bisogno espressi dall’uomo, fin dal principio, di conservare la propria memoria, e di conseguenza, gli oggetti che ne hanno accompagnato la storia. La seconda parte dell’elaborato è interamente dedicata alla suggestione emotiva esercitata dalla città ricoperta: Pompei. Le scoperte archeologiche di Pompei e dell’area vesuviana, associate nel corso dell’Ottocento, alle prime campagne di scavo di natura scientifica, ad opera di Giuseppe Fiorelli, esercitarono un notevole influsso sull’immaginario dei pittori e dei scrittori del tempo, i quali ne restituirono la sua realtà sociale, politica e quotidiana, tanto da dare avvio ad una nuova corrente pittorica, definita “neopompeiana”.

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IMMAGINE DI APERTURA – Lawrence Alma Tadema, Una visuale privilegiata,1895, Collezione privata (Fonte: Wikipedia)

Consiglio Europeo: alcune riflessioni

di Giuseppe Valerio
Presidente federazione regionale Aiccre Puglia – Membro Direzione nazionale Aiccre

Giuseppe Valerio

La vicenda dei cinque giorni ininterrotti di riunione dello scorso Consiglio europeo a Bruxelles (forse superato per pochi minuti in durata da quello di Nizza) ha catalizzato l’attenzione dell’intera Europa e non solo politica e giornalistica. L’Unione si sfascia, l’Unione non regge; no: come sempre nei momenti difficili l’Europa non solo tiene ma avanza e fa un altro passo verso l’integrazione politica.
L’argomento che ha più attratto, specie noi italiani, è stato il Recovery Fund, vale a dire quanto in via straordinaria è stato deliberato a sostegno dei Paesi, come l’Italia, che hanno subito di più, finora, le conseguenze della pandemia da Covid-19.
Una prima riflessione.
Nessuno si è ricordato che pochi giorni prima c’era stato un altro avvenimento rivelatosi estremamente importante: l’elezione del nuovo Presidente dell’Eurogruppo, vale a dire dei Paesi che adottano l’euro come moneta comune. Si era diffusa la tesi (sovranista ed antieuropeista) che l’Italia dovesse lasciare l’Unione oramai soggiogata dalla preponderante presenza della Germania. Hai voglia da parte nostra a sostenere, invece, che non era vero poiché in Europa vige la legge che uno vale uno. Bene abbiamo avuto ragione noi, ancora una volta (anche perché è la realtà). Germania, Italia, Francia e Spagna rappresentano la maggioranza – in tutti i sensi – dell’Unione e sostenevano la candidatura della spagnola Nadia Calviño, ma uno vale uno ed una coalizione di piccoli Paesi è stata maggioranza ed ha scelto Il ministro dell’economia irlandese Paschal Donohoe.

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IMMAGINE DI APERTURA: La sala delle riunioni del Consiglio europeo nel palazzo Europa di Bruxelles (Fonte Wikipedia)

Barletta: INHUMAN – Opere di Kendell Geers, Oleg Kulik, Andres Serrano

18 Luglio 2020 – 18 Ottobre 2020 – Barletta, Castello
Circuito del Contemporaneo in Puglia
INHUMAN
A cura di Giusy Caroppo

Oleg Kulik: PARACHUTIST, 2019 50 sculture in materiale plastico (h 30 cm circa) e led Site specific

Riparte il 18 luglio, con la mostra INHUMAN al Castello di Barletta, il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO, progetto con cui la Regione Puglia, in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese e la direzione artistica della storica dell’arte Giusy Caroppo, si pone lobiettivo di costituire stabilmente una rete d’eccellenza per la produzione e fruizione di arte contemporanea.

Per Barletta, si tratta di proseguire la vocazione a farne un ideale “luogo del contemporaneo”,  iniziata nel 2009 con On the ground Underground per Intrameonia Extra Art, le declinazioni di Watershed tra 2012 e 2013 sino alla grande mostra del 2018, VICTORY OF DEMOCRACY e l’istallazione pubblica GOVERNMENT di Andrei Molodkin.

La mostra INHUMAN, a cura del direttore artistico e autore del Circuito Giusy Caroppo, distribuita in tutti gli ambienti dei sotterranei del maniero, vuole sollecitare la riflessione sull’universalità del degrado umano, della violenza esercitata dal singolo o dal potere ai danni della dignità della persona e delle sue libertà, anche alla luce del lockdown imposto dalla pandemia e dalle proteste mondiali a tutela delle differenze etniche, sfiorando la sfera morale e antropologica.

Al di là della storia, delle latitudini, dell’età anagrafica, del sesso e della religione, tanto da dimostrare come la “disumanità” sia, in effetti, “una delle qualità caratteristiche dell’essere umano” come già affermava nell’ottocento Ambrose Bierce.

Il concetto è declinato attraverso interventi site specific e opere caratterizzanti alcune serie storiche di tre artisti internazionali: Kendell Geers (Johannesburg-Sudafrica,1960. Vive a Bruxelles), Oleg Kulik (Kiev, 1961) e Andres Serrano (New York City, 1950).

Kendell Geers, nato in una famiglia afrikaans bianca della classe operaia durante il periodo dell’apartheid, ha abbracciato fin da ragazzo il movimento anti-apartheid. In INHUMAN declina, attraverso diversi media – neon, opere ad acrilico, sculture inedite o reinventate – il suo impegno di artista militante volto a smascherare ogni abuso di potere e a ritrovare una nuova spiritualità. Nel percorso, incentrato su un dialogo serrato con le opere di Oleg Kulik, Geers interviene con installazioni che concentrano nel messaggio scultoreo l’uso della forza; centrale, in una visione non dogmatica ma simbolica, è soprattutto il simbolo religioso cristiano o animista e la scelta di comunicare al pubblico anche attraverso l’uso più diretto della parola.

Il racconto si intreccia con i contributi  – tra fotografia, video e installazioni site specific – del russo Oleg Kulik, artista visivo,  performer e attivista politico a favore della salvaguardia dell’ambiente e delle specie animali. Da performance storiche e visionarie testimoniate da videoinstallazioni, a quelle più strettamente connesse alla sua simbiosi con il mondo animale, impersonando l’“uomo cane”, in una disamina di situazioni estreme e claustrofobiche inneggianti alla libertà, sino a messaggi contro la falsa morale, la violenza delle guerre, le sperimentazioni ai danni degli esseri viventi, velati dalla poesia delle immagini e da atmosfere oniriche.

 Quasi off limits per la forza esplicita delle immagini – ancora più significative in un momento storico in cui il mondo sembra essersi fermato, dimenticando che la violenza fisica e la negazione della libertà e dignità individuale è ancora viva e prepotente – è la sequenza di otto opere selezionate dalla serie “Torture” di Andres Serrano, realizzata nel 2015 ed esposta in blocco in una delle sale cannoniere del Castello. La abitano tre uomini cui è negata l’identità ma di cui conosciamo nomi e cognomi, Fatima che “was Imprisoned and Tortured in Sudan”,  anonime vittime di torture incappucciate, insanguinate, inginocchiate e costrette a reggere posizioni innaturali ed estreme, per chiudere con l’essenza dell’assenza d’aria, sintetizzata  dall’emblematico interno, stretto e lungo, del carcere di sicurezza a Buchenwald.

La mostra, organizzata dal Teatro Pubblico Pugliese, è stata realizzata anche grazie al contributo del Comune di Barletta e alla collaborazione degli artisti e – rispettivamnete – per Kendell Geeers di a/political, Londra e la collaborazione di Becky Haghpanah-Shirwan,  Sylwia Serafinowicz, Cendrine du Welz; per Oleg Kulik della Galleria Giampaolo Abbondio di Milano; per Andres Serrano della Galleria Alfonso Artiaco di Napoli.

 Il Circuito del Contemporaneo in Puglia, format ideato dal direttore artistico Giusy Caroppo, nel Piano Strategico della Cultura per la Puglia 2017-2025 “PIIIL”, è progetto realizzato in coerenza con il Progetto “Valorizzazione della cultura e della creatività territoriale” – Il sistema musicale in Puglia nell’ambito de FSC Puglia 2014-2020,  Patto per la Puglia,  Area di Intervento IV “Turismo, Cultura e valorizzazione delle risorse naturali”.

In contemporanea alla mostra “Inhuman” saranno organizzate altre iniziative diffuse, in dialogo con istituzioni di rilevanza nazionale e internazionale e altri Comuni di Puglia, in vista della costituzione dei “Poli integrati territoriali delle arti e della cultura”, nell’ottica di distribuire le attività in ciascuna delle sei aree regionali di rilevanza turistica.

IMMAGINE DI APERTURAAndres Serrano: Fatima, was Imprisoned and Tortured in Sudan (Torture), 2015 pigment print, back-mounted on dibond, wooden frame 165,1 x 139,7 – Edition of 3 + 2 A.P., edition 3 Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli

Quando rimango idealmente a parlare coi costruttori del passato

di Sergio Bertolami

Un giorno il professore Giancarlo De Carlo mi disse che quando gli architetti passeranno dalla parte della gente, la gente difenderà l’architettura. Forse è per questo che misuriamo lo scollamento esistente. Da parte mia, ancora oggi, rileggo con ammirazione le lezioni di Architettura pratica di Daniele Donghi, che fra il 1905 e il 1935 pubblicò i dieci fondamentali volumi del Manuale dell’architetto. Pochi colleghi ne hanno scorso le pagine, la cui lettura al contrario contribuirebbe a comprendere l’eclettismo delle nostre città. Come Messina, ad esempio, ricostruita dopo la furia del sisma del 1908. Non conoscere questi dieci volumi è un vuoto culturale non indifferente, che si riflette sul restauro delle opere del primo Novecento.

C’è chi parla della poesia che suscitano gli edifici del passato, intendendo quelli giunti almeno fino agli albori del Movimento moderno. Io vorrei aggiungere una personale annotazione su certi momenti in cui resto irretito da un dialogo con le pietre mute.  Come quello del giovane e disilluso Le Corbusier, nel corso del suo Voyage d’Orient, davanti al Partenone, quando considerava: «Chi fa dell’architettura e si trova – il cervello vuoto, il cuore spezzato dal dubbio – davanti a questo compito di dovere dare forma vitale ad una materia morta, capirà la tristezza malinconica dei soliloqui tra questi resti, del mio freddo intrattenermi con le mute pietre».

A riprova vorrei raccontare una storia mia. Qualche anno fa, di primo pomeriggio mi reco in cantiere, ma non vi trovo nessuno. Tutto sprangato. Mando un messaggio col cellulare dove, come direttore dei lavori, chiedo spiegazioni all’impresa, ma non attendo più di tanto la risposta. Ho le chiavi ed entro. Risalgo il ponteggio fino all’ultimo livello d’impalcato e percorro in lungo e largo l’intera volta. Nel silenzio irreale ammiro le tempere sapienti, le lumeggiature e le ombreggiature delle decorazioni, il disegnarsi delle modanature. Rimango idealmente a parlare coi costruttori del passato: con l’architetto che ha progettato quel capolavoro, con le maestranze che l’hanno realizzato. Ogni segno murario – un dentello, una fusarola, sia pure un ritocco o una scalfittura – è un’allocuzione che voglio recepire. Una meraviglia indescrivibile e questo perché, inaspettatamente, sto vivendo un momento magico. Non avviene quasi mai, giacché quando arrivo in cantiere ognuno preme per mostrarmi il suo lavoro, per chiedere un consiglio, per domandare spiegazioni su di un dettaglio di progetto. Io ascolto tutti, rispondo a tutti.

Dopo circa un’ora, comprendo finalmente che è venerdì di fine mese e che ho accordato di chiudere il cantiere in anticipo, per consentire ai lavoratori fuori provincia di rientrare prima in famiglia. Mi accorgo, inoltre, che il cellulare era rimasto in auto, ecco perché per tutto il tempo passato in solitudine nessuno ha chiamato. Trovo una quantità di telefonate. Molte sono degli operai preoccupati che mi sia avventurato sul ponteggio da solo. Li ho ringraziati tutti, ma non ho avuto il coraggio di dire loro che non ero affatto solo, ma in compagnia di certi fantasmi che vi parlano quando rimanete al cospetto della vera architettura. Voi probabilmente non lo avvertite, ma c’è sempre la possibilità di colloquiare con quelle pietre, solo apparentemente mute. Fanno capire il legame imprescindibile che esiste tra vita e architettura, tra passato e presente, come dire, fra tangibile e intangibile.

IMMAGINE DI APERTURA – Quaderno di schizzi di Villard de Honnecourt, circa 1230 (Fonte Wikipedia)

Lawrence Alma Tadema – Le rose di Eliogabalo

Le rose di Eliogabalo, 1888, collezione privata

IL DIPINTO

Le rose di Eliogabalo (inglese: The Roses of Heliogabalus) è un dipinto del 1888 del pittore anglo-olandese Lawrence Alma-Tadema, oggi parte di una collezione privata. Le sue dimensioni sono 213,4 cm per 131,8 cm (84″ per 51.9″), un rapporto molto prossimo alla sezione aurea. Il dipinto è ispirato da un episodio della vita dell’imperatore romano Eliogabalo (218-222) e raccontato nella Historia Augusta (Vita di Eliogabalo, XXI.5). Eliogabalo, che l’opera del IV secolo descrive come un debosciato, invitò alcuni suoi conoscenti a cena, dopo aver fatto preparare un finto soffitto che reggeva una gran quantità di petali di rosa; durante la cena lo fece aprire sopra i propri convitati, inondandoli di petali, tanto che alcuni di questi morirono soffocati.

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Ritratto fotografico di Alma-Tadema

L’ARTISTA

Sir Lawrence Alma-Tadema, nato Lourens Alma Tadema (Dronrijp, 8 gennaio 1836 – Wiesbaden, 25 giugno 1912), è stato un pittore olandese. Formatosi in Belgio alla Reale Accademia di Belle Arti di Anversa (Koninklijke Academie voor Schone Kunsten van Antwerpen), dal 1870 e sino alla morte si stabilì in Inghilterra, dove ottenne una speciale cittadinanza. Fu un pittore celebrato e conosciuto per i suoi soggetti ispirati all’antichità classica, nei quali raffigurò il lusso e la decadenza dell’Impero Romano. Sebbene ammirato in vita per la sua abilità, il suo lavoro fu disistimato dopo la sua morte, e solo a partire dagli anni ’60 è stato rivalutato per l’importanza che ebbe nell’arte del diciannovesimo secolo.

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Le Passeggiate del Direttore: Il corredo di Kha e Merit

Cosa c’è di meglio di una web serie per tenervi compagnia? A grande richiesta, vi presentiamo LE PASSEGGIATE DEL DIRETTORE, la prima stagione di una serie firmata dal Museo Egizio, un viaggio nella storia suddiviso in brevi episodi. 

Il Museo Egizio di Torino è il più antico museo, a livello mondiale, interamente dedicato alla civiltà nilotica ed è considerato, per valore e quantità dei reperti, il più importante al mondo dopo quello del Cairo. Nel 2004 il ministero dei beni culturali l’ha affidato in gestione alla “Fondazione Museo Egizio di Torino”. Nel 2019 il museo ha fatto registrare 853 320 visitatori, risultando il sesto museo italiano più visitato. Nel 2017 i Premi Travellers’ Choice di TripAdvisor classificano l’Egizio al primo posto tra i musei più apprezzati in Italia, al nono in Europa e al quattordicesimo nel mondo.
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Le Passeggiate del Direttore: Il corredo di Kha e Merit

IMMAGINE DI APERTURA – Ingresso del museo egizio, Torino (Fonte Wikipedia)

La Sicilia, un territorio che cambia. Profili demografici e contesto sociale

L’ebook “La Sicilia, un territorio che cambia” offre la descrizione puntuale delle caratteristiche della popolazione residente nelle province siciliane, esaminando i mutamenti nel corso degli ultimi cinquanta anni in termini di consistenza e di dinamica, di natalità e di mortalità, di flussi migratori. I dati demografici tratti dalle anagrafi dei comuni della Sicilia e pubblicati dall’Istituto nazionale di statistica rappresentano il nucleo centrale della pubblicazione, arricchito con analisi basate sull’uso di altre fonti statistiche, tese a individuare alcuni fattori socioeconomici rilevanti per spiegare o contestualizzare le dinamiche demografiche. Per ogni variabile considerata, le informazioni statistiche sono presentate facendo emergere le specificità proprie del territorio di riferimento. Il dettaglio informativo è su base provinciale; introduce il volume un’ampia analisi delle variabili condotta su base regionale.

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Peter H da Pixabay

Berthe Morisot – Giovane donna in tenuta da ballo

Giovane donna in tenuta da ballo, 1879, Musée d’Orsay, Parigi

IL DIPINTO

Giovane donna in tenuta da ballo (Jeune femme en toilette de bal) è un dipinto della pittrice francese Berthe Morisot, realizzato nel 1879 e conservato al Museo d’Orsay di Parigi. In quest’opera la Morisot rifugge dai canoni della ritrattistica ufficiale per cercare soluzioni nuove e diverse, più vicine alla sensibilità che si stava affermando in quegli anni. L’opera, infatti, ritrae una giovane e avvenente fanciulla vestita con un elegante abito da ballo dalla consistenza serica. Mentre i ritratti accademici esaltavano o valorizzavano lo status sociale della persona effigiata, la Morisot preferisce cogliere lo sguardo, attento e curioso, della ballerina, rivolto verso qualcosa che si svolge al di là dello spazio pittorico, alla sua destra. L’opera, in questo modo, si distingue per la sua vivacità e per la sua fluida libertà, e l’impressione che ne consegue è quella di una grande immediatezza, quasi da istantanea fotografica.

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Berthe Morisot con un mazzo di violette ritratta da Édouard Manet, 1872, Museo d’Orsay, Parigi

L’ARTISTA

Berthe Marie Pauline Morisot (Bourges, 14 gennaio 1841 – Parigi, 2 marzo 1895) è stata una pittrice impressionista francese. Berthe Morisot nacque il 14 gennaio 1841 a Bourges, in Francia, in un’agiata famiglia borghese: il padre, Edme Tiburce Morisot (1806-1874), era un funzionario statale d’alto rango, impiegato alla Corte dei Conti, mentre la madre Marie-Joséphine-Cornélie Thomas (1819-1876) era la pronipote del celebre pittore Jean-Honoré Fragonard («l’arte scorreva già nelle sue vene», come ha osservato Laura Corchia). A completare il quadretto familiare vi erano altre due ragazze, Yves e Edma, ed il maschio Tiburce. Nel 1851 la famiglia Morisot si trasferì a Passy, nei pressi di Parigi, città che in quel momento era veramente un grande centro artistico e l’atmosfera satura di cultura, di arte e di lusso costituivano un ambiente quasi unico in Europa, che certamente contribuì ad accendere nella giovane Berthe un grande interesse per la pittura. Importante fu anche l’influenza dei genitori, i quali avevano aperto la propria casa parigina ad artisti, intellettuali e amici di famiglia, facendo crescere così la figliola in un ambiente colto e stimolante. Per la Morisot, tuttavia, l’Accademia era inaccessibile, siccome era nata donna, e l’École des beaux-arts avrebbe aperto le proprie porte al gentilsesso solo nel 1897. Per questo motivo, dopo aver appreso i rudimenti della pittura dai genitori, la Morisot ebbe modo di coltivare il suo talento sotto la guida prima del neoclassicista Geoffrey-Alphonse Chócarne, e poi di Joseph Guichard, un ex allievo di Ingres poi convertitosi alla maniera romantica di Eugène Delacroix. La sua passione per le belle arti in questo modo crebbe costantemente, anche grazie al Guichard, il quale introdusse la giovane allieva all’esercizio della pittura soprattutto attraverso la copia dei dipinti dei grandi maestri. Nel corso del discepolato con il Guichard, in effetti, la Morisot visitò il Louvre innumerevoli volte, e attraverso lo studio delle tele di Raffaello Sanzio e Rubens coltivò orgogliosa il suo talento artistico.

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Lugano: KAKEMONO – Cinque secoli di tradizione figurativa nipponica

LUGANO (SVIZZERA) – MUSEC | MUSEO DELLE CULTURE
DAL 17 LUGLIO 2020 AL 21 FEBBRAIO 2021
KAKEMONOLa più estesa esposizione mai dedicata alla pittura giapponese
Website: https://www.musec.ch/news-events/Kakemono—Collezione-Perino.html

Nella nuova sede di Villa Malpensata, la mostra presenta 90 dipinti che coprono cinque secoli di arte nipponica, dal XVI al XX secolo.

Mori Kansai, 1814-1894 Iris oscillano al vento.  1850-1869. Dipinto a inchiostro e colori su carta 29,5×39,9 cm Collezione Perino © 2020 MUSEC/Fondazione culture e musei, Lugano

Dal 17 luglio 2020 al 21 febbraio 2021, il MUSEC | Museo delle Culture di Lugano ospita KAKEMONO, la più estesa esposizione mai dedicata alla pittura giapponese.

Dopo l’arte del Novecento, letta attraverso la lente della scultura primitivista, e dopo i capolavori di arte etnica dei popoli del Borneo, il MUSEC, nella sua nuova sede di Villa Malpensata, propone un approfondimento sull’arte orientale che costituisce, dal 2005, uno dei poli della ricerca e dello sviluppo del Museo.

La mostra, curata da Matthi Forrer, ripercorre cinque secoli di tradizione figurativa nipponica tra il XVI e il XX secolo, attraverso 90 kakemono, ordinati lungo un percorso tematico che permette di esplorare in profondità la sostanza dei linguaggi pittorici, provenienti dall’inedita collezione, raccolta con cura filologica dal medico torinese Claudio Perino.

Il kakemono, genere molto diffuso in Asia orientale, consiste in un prezioso rotolo di tessuto o di carta, dipinto o calligrafato, che è appeso alle pareti durante occasioni speciali o è utilizzato come decorazione in base alle stagioni dell’anno.

A differenza delle tele o delle tavole occidentali, i kakemono hanno una struttura morbida, e sono concepiti per una fruizione cronologicamente limitata: sono infatti opere che partecipano al tempo e al movimento, poiché esposti nell’alcova delle case giapponesi o lasciati oscillare per qualche ora all’esterno, magari in giardino, per la cerimonia del tè. Opere che, nella varietà dei loro soggetti, descrivono la bellezza ineffabile e lo scorrere del tempo, riflettendo una concezione estetica e filosofica tipicamente orientale.

«Kakemono – afferma Francesco Paolo Campione, direttore del Museo delle Culture di Lugano – è un progetto che nasce con un’idea precisa: raccontare cinque secoli di storia dell’arte giapponese, accompagnando per mano il pubblico in un viaggio emotivo di forme e soggetti; un viaggio capace di restituire la peculiarità non solo della pittura ma, più ampiamente, della rappresentazione visiva nella civiltà giapponese».

«L’esposizione di Villa Malpensata – prosegue Campione – è un nuovo capitolo nel percorso di studio della creatività e delle tradizioni culturali del Giappone, iniziato quindici anni fa dal MUSEC, con la rassegna dedicata alle foto sottomarine delle pescatrici di Hèkura, realizzate nel 1954 da Fosco Maraini, e proseguita con diversi altri capitoli, come quello sulle stampe erotiche (shunga) e quello sui capolavori della fotografia colorata a mano dell’Ottocento, di cui oggi possediamo una collezione di oltre 16.000 opere, di gran lunga la maggiore esistente al mondo».

«Quando il Giappone – scrive Matthi Forrer nel suo saggio in catalogo – iniziò a considerare i cinesi come “fratelli maggiori” in molti campi quali le arti, l’artigianato e la tecnologia, fu automatico riconoscere l’importanza delle fonti letterarie e teoriche cinesi sulla pittura. […] Poiché la pittura cinese era principalmente a inchiostro su carta o su seta – con regole precise che mettevano in guardia sull’utilizzo dei colori, a meno che non fosse realmente necessario – la pittura giapponese adopera principalmente inchiostro nero su carta. Tale stile pittorico sarebbe stato formalizzato a partire dal XIV secolo nella tradizione – spesso piuttosto accademica – della scuola Kano».

Tra i soggetti maggiormente utilizzati vi erano animali feroci come draghi e tigri, o piante, fiori e uccelli, tutti carichi di significati simbolici che contribuivano a stabilire e a consolidare lo status sociale dei possessori delle opere.

Gli esponenti di questa scuola Kano fondarono in tutto il Giappone una diffusa rete di accademie di pittura, che dal XV secolo alla fine del XIX secolo godettero del sostegno delle classi dominanti. I samurai, il clero buddhista e i benestanti si affidarono infatti a loro per la realizzazione di kakemono, seguendo la moda del periodo.

Soltanto a partire dal XVII secolo una classe urbana emergente di artigiani e mercanti incoraggiò lo sviluppo di interpretazioni pittoriche più diversificate che si focalizzarono su soggetti più naturalistici e su scene di vita reale. Altri pittori uscirono poi dalla rigidità di questi schemi tradizionali, favorendo l’innovazione e sviluppando stili più personali.

Il percorso espositivo si articola in cinque sezioni tematiche (Fiori e uccelli; Figure antropomorfe; Animali; Piante e fiori vari; Paesaggi) e propone le opere dei maggiori esponenti del periodo in questione, quali Yamamoto Baiitsu (1783-1856), Tani Buncho (1763-1840), Kishi Ganku (1749-1838), Ogata Korin (1658-1716).

La mostra si apre con i dipinti di fiori e uccelli (kacho-ga) che giocano su un’associazione allegorica tratta dalle poesie haiku, e prosegue con quelli che rappresentano figure antropomorfe, dapprima limitate ad alcune divinità buddhiste, a seguaci o discepoli del Buddha, a ritratti di figure shintoiste, o ancora a personaggi mutuati dalla tradizione cinese. Fu solo nel XVIII e XIX secolo che iniziano a comparire anche le persone comuni.

Dall’analisi dell’iconografia degli animali che, a differenza di quella degli uccelli, sono rappresentati in maniera esigua, si giunge alla sezione dei dipinti che propongono piante e fiori, collegati ai mesi e alle stagioni.

Tra le piante, il bambù riveste un importante significato simbolico che comunica un senso di flessibilità, di resistenza e di sicurezza. Per molti studiosi e letterati, la rappresentazione pittorica del bambù era un esercizio assai importante, strettamente collegato per caratteristiche tecniche alla calligrafia, tanto che alcuni artisti vi dedicavano tutta la vita.

L’esposizione si chiude con i dipinti di paesaggio che veicolano un concetto idealizzato della natura. In tali opere si trovano spesso riprodotti fiumi, laghi, corsi d’acqua, pozze o ruscelli in primo piano e picchi montuosi sullo sfondo e, in scala minore, ponti, templi, padiglioni, edifici e piccole figure umane. È particolarmente interessante notare come questo genere sia quasi sempre realizzato con il solo inchiostro, con rare note di colore.

Il percorso è arricchito da due armature originali di Samurai e da alcuni album di fotografie giapponesi di fine Ottocento, dalle copertine in lacca riccamente decorate, provenienti dalle collezioni del MUSEC.

Accompagna la mostra un catalogo Skira disponibile sia in edizione italiana, sia in edizione inglese, curato da Matthi Forrer. L’esposizione, prodotta da Fondazione culture e musei di Lugano e Fondazione Torino Musei, si avvale del sostegno della Città di Lugano, della Repubblica e Cantone Ticino – Fondo SWISSLOS, della Fondazione Ada Ceschin e Rosanna Pilone. Dopo Lugano, l’esposizione approderà al Museo d’Arte Orientale di Torino.

IMMAGINE DI APERTURAKaburagi Kiyokata, 1878-1972 Una geisha con parasole, sotto un acero con foglie autunnali. 1920-1939. Dipinto a inchiostro e colori su seta 45,7×50,9 cm Collezione Perino © 2020 MUSEC/Fondazione culture e musei, Lugano.