Milo Manara a tutto campo 2/3

 

Con lo sviluppo di nuovi media, l’attività di Milo Manara è diventata molto più ampia. Ha lavorato per internet e campagne pubblicitarie. Nel 1989, crea la copertina dell’LP stella dissidente di Enzo Avitabile. Verso la fine degli anni ’90, realizza due CDRom: Gulliveriana (con un suo racconto) e Il gioco del Kamasutra (nel 1997). Nel nuovo millennio, disegna due storie: Tre ragazze nella rete, Fuga da “Piranesi e Quarantasei, con protagonista Valentino Rossi, il campione pilota di motociclismo.

Con Vertigo (della DC Comics) ha illustrato la storia di Desire (facente parte del più ampio progetto The Sandman Endless Nights. Nel 2004 è iniziata la pubblicazione della serie (tre volumi) su I Borgia, con testi di Alejandro Jodorowsky. L’opera è edita da Mondadori. Dal 2009 Marvel Italia (Panini Comics) produce X-Men – Ragazze in fuga, su testi di Chris Claremont.

Durante la sua carriera, come abbiamo visto, Milo Manara ha lavorato per diversi grandi editori. Per Larousse (editore francese) inizia una Storia di Francia a fumetti, oltre alle serie La scoperta del mondo e La Cina. In Italia con la Mondadori illustra tre episodi della Storia d’Italia a fumetti di Enzo Biagi. Tra i registi cinematografici, con cui ha collaborato, c’è lo spagnolo Pedro Almodovar per il film La feu aux entrailles (a Parigi, nel 1993).

Ha illustrato diversi altri racconti, come L’uomo delle nevi (1979), su una sceneggiatura di Alfredo Castelli, per l’editore Bonelli. Tra le altre storie: Il profumo dell’invisibile (1986) e Candid Camera (1988). Per la rivista italiana Pilot ha composto il western Quattro dita (l’uomo di carta). Ha dedicato ad Hugo Pratt, che Manara ha sempre considerato il suo maestro, la realizzazione di un sequel Un uomo, un’avventura, Giuseppe Bergman (1980), il cui primo episodio è stato pubblicato sia in Francia che in Belgio.

 

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Abbiate due idee, per favore!

 

LA SICILIA che piace è quella dei musei e dei siti culturali. Titola così il quotidiano di Catania, informando sugli ultimi dati rilasciati dalla Regione siciliana, nei quali si registra – rispetto allo stesso periodo dello scorso anno – un 10% in più di visitatori, con incassi che arrivano quasi a 10 milioni di euro. Un articolo alquanto ingenuo nel comparare tale crescita modesta ad un’onda lunga virtuosa: «Una vocazione di valorizzazione ormai adulta dei beni culturali delle aree periferiche emerge dalla lettura degli ultimi dati sulla fruizione dei siti e dei musei regionali». Ciò che in realtà emerge, alla lettura delle tabelle Excel sul primo semestre 2016, è che il cammino risulta ancora lento e faticoso. Nonostante un patrimonio eccellente! E la buona volontà di quanti sono impegnati nelle Istituzioni a conseguire gli obiettivi fissati dalla programmazione europea per la valorizzazione degli asset attrattori di rilevanza strategica. Ora mi pare che, con il cartoccio in mano alla festa del santo patrono, non possiamo dire che la calia non sia buona, ma certo occorre procacciare qualcosa di più. Gli sportivi mi daranno ragione se faccio un paragone col solo Giro d’Italia che oggi fattura 25 milioni. Ed è un business non sfruttato a confronto del Tour de France, che di milioni ne fattura 110. L’obiettivo deve, perciò, liberare concretamente le enormi potenzialità che fino ad ora nessuno ha saputo far valere. Come? Stringendo relazioni per moltiplicare le idee. «Se tu hai una mela – diceva George Bernard Shaw – e io ho una mela e ce le scambiamo, allora tu ed io avremo ancora una mela ciascuno. Ma se tu hai un’idea e io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora ognuno di noi avrà due idee».

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Chi è questo personaggio famoso?

 

Ha fatto la storia dell’architettura del Novecento, pur non avendo mai conseguito alcuna laurea in architettura. Non ricorre alcun anniversario, ma ugualmente vale domandarsi: chi è questo personaggio famoso?

Chi indovinerà, vincerà il piacere di averlo ricordato. A proposito, ricordate pure su quale rivista è apparsa questa foto?

 

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Tradizionale o innovativa, la cucina è in evoluzione

 

Tradizione o innovazione, questo è il problema. In realtà si tratta di un falso quesito, poiché i due termini sono complementari e l’uno segue o precede l’altro.

La cucina della tradizione è la trasmissione del patrimonio culturale delle generazioni passate, è memoria storica; tende a far rivivere gusti dimenticati o scomparsi; utilizza prodotti locali, cucinati in maniera semplice se attinge al mondo contadino o elaborata se fa riferimento a quello aristocratico. Il cibo della tradizione vuole rievocare la storia di un luogo, di una famiglia e la sua preparazione richiede ritmi lenti e una gestualità che si ripete nel tempo sempre uguale a sé stessa. Spesso, sono adoperati per lavorarlo utensili del passato, tramandati da generazioni e non è concessa alcuna variazione stravagante, né si seguono le mode.

La cucina innovativa, pur servendosi degli stessi prodotti, si avvale di tecniche nuove, ardite; di accostamenti inediti, talvolta estremi e di una “mise en place”  ad effetto. Sperimentare è la parola chiave, tanto che l’esasperazione può facilmente superare la creatività dello chef, sempre intento alla ricerca di nuovi sapori e consistenze. Nouvelle cousine, pietanze destrutturate, cucina fushion… e come ultima frontiera la gastronomia molecolare, che si avvale di tecniche che seguono le leggi della chimica e della fisica.

Le uova non sono cotte sul fuoco, ma semplicemente mescolate, avendo cura di versare su di esse a filo dell’alcol da cucina e ottenere cosi al posto di una morbida frittata, una sorta di ”formaggio d’uova”. Perché non assaporare poi un caffè al pomodoro? La “bevanda” si ottiene inserendo nella classica macchinetta (utilizzata solo per questo scopo) il liquido di filtrazione del pomodoro ed al posto del caffè foglie di basilico. Si prosegue con del pesce fritto nello zucchero, ma sapientemente avvolto in foglie di porro. Come dessert un cremoso gelato, la cui preparazione non richiede tempi lunghissimi ma solo pochi minuti e basta versare sul composto da solidificare azoto liquido.

Dunque: cucina innovativa o cucina tradizionale? Ciò che è importante non è trovare una risposta, ma fare sì che il modo di cucinare continui la sua lenta e graduale evoluzione; oggi del resto le mutate condizioni ambientali non permettono di apprezzare gli stessi sapori di una volta ed il gusto si è profondamente mutato.

 

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Il grande museo francese dopo la Rivoluzione 2/3

 

GRANDI MUSEI IN EUROPA.

Con la Rivoluzione francese, l’orgoglio nazionale (e l’occasione), portò al completamento del museo del Louvre. In esso furono traslate la collezione reale, le collezioni dell’Académie française e varie opere d’arte confiscate sia alla Chiesa che a nobili fuggiti all’estero. Il Louvre, col nome di “Muséum central des Arts”, fu aperto al pubblico, per la prima volta, nel 1793.

La Francia rivoluzionaria si ritrovò contro tutte le più importanti monarchie europee. Le vittorie militari del suo esercito, prima rivoluzionario, poi napoleonico, fecero affluire a Parigi molte opere d’arte confiscate nei paesi occupati (anche momentaneamente). Solo per fare un esempio arrivarono al Louvre, dalla campagna d’Italia, il Gruppo del Laocoonte e l’Apollo del Belvedere (di proprietà papale), che furono festeggiatissimi dal popolo. Tanto che per l’occasione fu realizzato un vaso di Sèvres commemorativo. L’organizzazione interna del museo dovette essere riveduta. Infatti, la qualità e la quantità delle opere d’arte, che con il tempo affluivano, portarono ad un ripensamento generale sia dell’allestimento che delle esposizioni. Dopo un breve restauro il Louvre venne riaperto nel 1800 e tre anni dopo il suo nome mutò in “Musée Napoléon”.

Con la nomina di Vivant Denon a direttore, il Louvre visse un periodo di grande espansione. Come già accennato, le opere d’arte, giungevano a Parigi dalle zone occupate dall’esercito francese. L’intento era creare un museo universale d’arte, che contenesse il meglio delle raccolte europee. La collezione Borghese fu trasferita in gran parte, grazie ad un prelievo forzato. Lo stesso Napoleone, incredibilmente, aveva dato ordine che si preferissero le statue, piuttosto che i dipinti. Tuttavia, quando, nel 1815, Napoleone venne sconfitto definitivamente a Waterloo, le cose cambiarono. La Francia fu, infatti, costretta a restituire i capolavori sottratti.

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Isole Eolie: Lipari

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LIPARI

 

L’isola di Lipari è la più grande dell’arcipelago e dà il nome al comune della provincia di Messina, che comprende sei delle sette isole, eccetto quella di Salina che ospita le amministrazioni autonome di Santa Marina Salina, Malfa e Leni. È un comune di 10.763 abitanti. Anch’essa di origine vulcanica, come tutto l’arcipelago, presenta geologicamente zone scure di ossidiana e zone bianche di pomice, dovute all’ultima eruzione del vulcano Monte Sant’Angelo, detto, appunto, Campo Bianco.

Il nome dell’isola era originalmente Meligunis, dal greco “melos” che significa dolce, che fu cambiato in Lipara, secondo Diodoro Siculo, dopo l’invasione (nel 1400 a. C. circa) degli Ausoni, dal nome del loro re Liparo. Questa popolazione rimase nelle isole fino al 1270 a. C. circa. Durante il loro dominio l’attività commerciale, dovuta alla posizione strategica nel mediterraneo, punto di passaggio degli scambi commerciali tra est ed ovest, raggiunse il massimo regalando grande floridezza alle isole.

I primi resti ritrovati a Lipari risalgono, tuttavia, al periodo neolitico (3500-2000 a. C.). Già da allora gli abitanti erano dediti all’attività commerciale (tracce di commercio risalgono già XVI secolo a.C.) dovuta all’esportazione di ossidiana, materiale fondamentale per gli utensili da taglio del periodo preistorico.

I 5000 anni di storia delle isole Eolie possono essere simboleggiati dal castello che dal promontorio domina il centro storico di Lipari. La sua costruzione di epoca remota presenta una torre datata al IV-III secolo a. C., in periodo greco. Altre sue torri furono costruite in epoca medievale, intorno al secolo XIII, e le mura sono del periodo spagnolo. All’interno del castello, oltre a resti archeologici, si trovano: un’abbazia normanna e la cattedrale anch’essa normanna (1084) rimaneggiata successivamente, fino al 1861 da un ecclettismo baroccheggiante.

Proprio a causa dei 5000 anni di storia il Museo Archeologico Eoliano di Lipari, per la ricchezza delle vestige ritrovate che risalgono già alla preistoria, è uno dei più importanti musei del Mediterraneo. Vi sono esposti in ordine cronologico corredi funerari, vasi, cippi, steli tombali e sarcofagi in pietra, ma anche ceramiche di diversi stili, maschere teatrali e statue fittili.

L’isola è collegata quotidianamente da aliscafi e traghetti con Milazzo, ma anche con i porti di Messina, Palermo, Reggio Calabria e Napoli.

 

Tutte le foto presenti nelle Gallery delle Isole Eolie sono tratte dall’archivio di Wikimedia Commons. Per ogni riferimento fotografico consultare il sito.

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Cosa vuol dire “coltivare il proprio giardino” ?

Pochi giorni fa ci è stata posta la domanda: “Cosa vuol dire coltivare il proprio giardino?”  Il riferimento diretto va a Candido, il famosissimo personaggio di Voltaire, il quale, nelle ultime pagine del libro che porta per titolo il suo nome, rigetta l’invito ad ogni nuova azione per dedicarsi al proprio giardino. Non molti sanno che Voltaire era un giardiniere dilettante e smanettava con utensili vari nelle sue tenute di Les Délices e Ferney. Un passatempo incredibilmente efficace per tenersi occupato e liberare la mente, quando non scriveva, studiava o partecipava ad illuminati salotti.

Naturalmente il giardino coltivato da Candido rappresenta una metafora. È il giardino delle qualità personali, che richiede di essere messo a frutto, senza troppo parlare, ma utilizzando la concretezza derivata da conoscenze ed abilità. Qualora si posseggano veramente.  Per quanto ci riguarda, vale ampliare il discorso dalle doti individuali alle risorse collettive riguardanti, ad esempio, quel ricco ed accessibile territorio di cultura e di natura proprio dell’Italia intera, da Nord a Sud. Molti tentativi sono stati compiuti, ma è necessario mettere a frutto, concretamente, questo giardino, creando un volano economico non indifferente, attraverso una programmazione virtuosa che sappia attivare i giusti processi d’attuazione.

Prendendo spunto da quella solida cultura scientifica, che discende, fra l’altro, proprio dal menzionato Voltaire e dagli illuministi, è possibile muoversi con un’attenta registrazione di fatti, senza farsi condizionare dal troppo disputare inconcludente. Occorre parlare meno e lavorare, perché solo allora la terra può rendere molto, e senza neanche una grande fatica. Un esempio? Lo forniva qualche anno addietro Piero Angela. Il noto giornalista televisivo raccontava «Ero vicino a Yellowstone, nello Stato americano del Montana. La strada era bloccata da una frana. Perciò ne hanno costruita un’altra, e intanto hanno organizzato un Centro per i visitatori, una specie di museo con la storia geologica della frana. Insomma, una calamità naturale è stata trasformata in attrazione turistica. Mi chiedo perché non si faccia lo stesso in Italia».

In verità ce lo domandiamo anche noi, e, considerando la grande attitudine ad assumere iniziative, chiediamo perché gli organi competenti in materia di turismo non considerino di organizzare un “grand tour” nel Montana per studiare e imparare come dal niente si possano creare spunti di attrazione. Questo naturalmente è uno sfottò. Tuttavia, figuriamoci cosa si potrebbe fare con quel grandissimo patrimonio storico, artistico e naturalistico, in gran parte sottovalutato e misconosciuto, che potrebbe davvero arricchire ogni angolo di territorio. Signori Munafò (altro personaggio, questa volta narrato da Sciascia che a Voltaire si ispira) non aspettate a diventare Candidi solo dopo essere emersi dalle macerie.

Milo Manara, “maestro dell’eros” 1/3

 

Maurilio Manara detto Milo, nasce nel 1945, a Luson (in provincia di Bolzano). Studia in un liceo artistico di Verona, per poi iscriversi alla facoltà di Architettura di Venezia, ma abbandona gli studi per tentare la carriera artistica come pittore. Dopo alcuni screzi, lascia la pittura ed esordisce come fumettista in una serie erotico-poliziesca della collana Genius. Per la RG di Renzo Barbieri e Giorgio Cavedon, crea il primo personaggio, sempre erotico-sexy: la corsara Jolanda de Almaviva. Siamo alla fine degli anni Sessanta. Nel decennio successivo, Manara inizia (1974) una collaborazione con Il Corriere dei Ragazzi. Nello stesso periodo (1976) insieme a Silverio Pisu, crea la rivista satirica Telerompo, e su testo di Pisu pubblica, su Alterlinus, il racconto Lo scimmiotto. 

Per il suo stile molto sensuale, si fa notare da Playman, rivista italiana per uomini, pubblicata dalla casa editrice Tattilo. Nel 1982, Manara comincia a disegnare per questa rivista una serie di episodi a puntate, che porta per nome Il gioco. Nel 1984, la Edizioni Nuova Frontiera decide di pubblicare la raccolta dei fumetti fatti per la rivista. È uno straordinario successo, non solo in Italia, ma anche all’estero. Prepotentemente Manara si afferma per l’inconfondibile tratto, che lo fa incoronare quale “maestro dell’eros”. Dalla fortunata serie, scaturirà anche un film (Le déclic).

Sul finire del 1983, inizia a collaborare con la rivista Corto Maltese e con il suo creatore, Hugo Pratt. I due si intenderanno subito, realizzando per il giornale Tutto ricominciò con un’estate indiana ed El Gaucho. Sempre sulla rivista Corto Maltese, un soggetto di Federico Fellini, nel 1989, viene graficizzato da Milo Manara e intitolato Viaggio a Tulum.
Ormai conosciutissimo, nel 1986, per la rivista Totem realizza la storia Il profumo dell’invisibile, la cui eroina, subito attenzionata dai lettori, prende il nome di Miele.
La pubblicazione di El Gaucho, coincide con l’inizio del rapporto con la rivista Il Grifo (1991). Per questa compone Il Viaggio di G. Mastorna detto Fernet, su un’altra sceneggiatura di Federico Fellini, disegna due inserti Vietato ai minori e diverse copertine.

 

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La Sicilia e le sue culture

 

MANDANICI. Conoscere-pensare-agire, sono le parole chiave di questa sesta edizione della “tre giorni” che coinvolge esperti in differenti discipline per un confronto culturale tra aree cognitive apparentemente distanti fra loro: neuroscienze e psicoanalisi, architettura e design, musica, archeologia, economia, diritto, filosofia, geografia, antropologia, storia. «Questo evento è dedicato a uomini e donne dallo spirito libero che sentono di poter dare un personale e collettivo apporto – commenta Pino Mento, che anima “Archetipi e territorio” nell’organizzare la manifestazione – È un tentativo di “rivisitazione critica” dei concetti di spazio, luogo, ambiente, territorio e paesaggio attraverso una prospettiva antropologica e storica della percezione dei “comportamenti umani” e dei “fenomeni” che in essi avvengono». Quest’anno il tema è “La Sicilia e le sue culture”, centro del Mediterraneo ed incrocio di civiltà. Ciò per diffonderne l’identità, legata ad una insularità vista come una “possibilità sempre aperta”, una singolarità in forma di plurale, con l’intenzione di ricordare memorie segnate nella pietra e nel vento, come le canterebbe il poeta Adonis. Ecco perché le riflessioni sono molteplici quante le facce di un poliedro stellato. Così da domandarsi se esiste una cultura siciliana, se gli eventi sono la sua storia, dove finisca il mito, come si stratifichino i culti, in cosa trovare le tracce della realtà. Quella segnata nelle pagine di storia, nella letteratura dei viaggiatori, nelle mappe dei cartografi. Ecco che, muovendo dall’immaginario, il quadro diventa via via più chiaro quando si mettono a fuoco uomini e luoghi. Che occorre appunto conoscere. Pensare o magari ripensare. Per agire.

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Cos’era una panelleria? 2/2

 

Nella panelleria si consumavano anche minuscole crocchette di patate, dette cazzilli; in rapporto alla stagione broccoli, cardi, carciofi… rigorosamente fritti in pastella. Oltre ai cazzilli si potevano gustare persino anelletti al forno, sarde a”beccafico”, frittura di calamari, melanzane alla parmigiana, a “quaglia”, trippa, pasta con le sarde e quanto di più buono offrisse la tradizione.

Stigghiole arrostite.
Stigghiole arrostite.

Per strada si incontravano, invece, il poliparo ovvero il venditore di polpo, il venditore di frittole, i banchi con la griglia sulla quale era cotta la “stigghiola”, stecca fatta con interiora di vitello intrecciata con verdi gambi di cipolla. La sua lunga cottura richiede notevole abilità e va consumata bollente con sale e limone. La stigghiola può essere consumata anche bollita, in tal caso prende il nome di quarume cioè caldure. Il quarumaro acquista i visceri del vitello che, puliti con acqua e sale, subiscono una prebollitura prima di passare a quella nel brodo con i tipici aromi di carota, cipolla, sedano e pomodoro.

Bollito è servito anche il “musso”, la parte del vitello che comprende la testa, i piedi, le mammelle, i genitali. I vari pezzi lessati vengono serviti freddi, tagliati e cosparsi di limone, su un piano inclinato coperto di larghe foglie di broccolo. Si tratta, è evidente, di una gastronomia popolare adatta ad un forte palato, ma pregnante di storia, un patrimonio culturale da salvaguardare.

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