Abbiate due idee, per favore!

 

LA SICILIA che piace è quella dei musei e dei siti culturali. Titola così il quotidiano di Catania, informando sugli ultimi dati rilasciati dalla Regione siciliana, nei quali si registra – rispetto allo stesso periodo dello scorso anno – un 10% in più di visitatori, con incassi che arrivano quasi a 10 milioni di euro. Un articolo alquanto ingenuo nel comparare tale crescita modesta ad un’onda lunga virtuosa: «Una vocazione di valorizzazione ormai adulta dei beni culturali delle aree periferiche emerge dalla lettura degli ultimi dati sulla fruizione dei siti e dei musei regionali». Ciò che in realtà emerge, alla lettura delle tabelle Excel sul primo semestre 2016, è che il cammino risulta ancora lento e faticoso. Nonostante un patrimonio eccellente! E la buona volontà di quanti sono impegnati nelle Istituzioni a conseguire gli obiettivi fissati dalla programmazione europea per la valorizzazione degli asset attrattori di rilevanza strategica. Ora mi pare che, con il cartoccio in mano alla festa del santo patrono, non possiamo dire che la calia non sia buona, ma certo occorre procacciare qualcosa di più. Gli sportivi mi daranno ragione se faccio un paragone col solo Giro d’Italia che oggi fattura 25 milioni. Ed è un business non sfruttato a confronto del Tour de France, che di milioni ne fattura 110. L’obiettivo deve, perciò, liberare concretamente le enormi potenzialità che fino ad ora nessuno ha saputo far valere. Come? Stringendo relazioni per moltiplicare le idee. «Se tu hai una mela – diceva George Bernard Shaw – e io ho una mela e ce le scambiamo, allora tu ed io avremo ancora una mela ciascuno. Ma se tu hai un’idea e io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora ognuno di noi avrà due idee».

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Tradizionale o innovativa, la cucina è in evoluzione

 

Tradizione o innovazione, questo è il problema. In realtà si tratta di un falso quesito, poiché i due termini sono complementari e l’uno segue o precede l’altro.

La cucina della tradizione è la trasmissione del patrimonio culturale delle generazioni passate, è memoria storica; tende a far rivivere gusti dimenticati o scomparsi; utilizza prodotti locali, cucinati in maniera semplice se attinge al mondo contadino o elaborata se fa riferimento a quello aristocratico. Il cibo della tradizione vuole rievocare la storia di un luogo, di una famiglia e la sua preparazione richiede ritmi lenti e una gestualità che si ripete nel tempo sempre uguale a sé stessa. Spesso, sono adoperati per lavorarlo utensili del passato, tramandati da generazioni e non è concessa alcuna variazione stravagante, né si seguono le mode.

La cucina innovativa, pur servendosi degli stessi prodotti, si avvale di tecniche nuove, ardite; di accostamenti inediti, talvolta estremi e di una “mise en place”  ad effetto. Sperimentare è la parola chiave, tanto che l’esasperazione può facilmente superare la creatività dello chef, sempre intento alla ricerca di nuovi sapori e consistenze. Nouvelle cousine, pietanze destrutturate, cucina fushion… e come ultima frontiera la gastronomia molecolare, che si avvale di tecniche che seguono le leggi della chimica e della fisica.

Le uova non sono cotte sul fuoco, ma semplicemente mescolate, avendo cura di versare su di esse a filo dell’alcol da cucina e ottenere cosi al posto di una morbida frittata, una sorta di ”formaggio d’uova”. Perché non assaporare poi un caffè al pomodoro? La “bevanda” si ottiene inserendo nella classica macchinetta (utilizzata solo per questo scopo) il liquido di filtrazione del pomodoro ed al posto del caffè foglie di basilico. Si prosegue con del pesce fritto nello zucchero, ma sapientemente avvolto in foglie di porro. Come dessert un cremoso gelato, la cui preparazione non richiede tempi lunghissimi ma solo pochi minuti e basta versare sul composto da solidificare azoto liquido.

Dunque: cucina innovativa o cucina tradizionale? Ciò che è importante non è trovare una risposta, ma fare sì che il modo di cucinare continui la sua lenta e graduale evoluzione; oggi del resto le mutate condizioni ambientali non permettono di apprezzare gli stessi sapori di una volta ed il gusto si è profondamente mutato.

 

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Isole Eolie: Lipari

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LIPARI

 

L’isola di Lipari è la più grande dell’arcipelago e dà il nome al comune della provincia di Messina, che comprende sei delle sette isole, eccetto quella di Salina che ospita le amministrazioni autonome di Santa Marina Salina, Malfa e Leni. È un comune di 10.763 abitanti. Anch’essa di origine vulcanica, come tutto l’arcipelago, presenta geologicamente zone scure di ossidiana e zone bianche di pomice, dovute all’ultima eruzione del vulcano Monte Sant’Angelo, detto, appunto, Campo Bianco.

Il nome dell’isola era originalmente Meligunis, dal greco “melos” che significa dolce, che fu cambiato in Lipara, secondo Diodoro Siculo, dopo l’invasione (nel 1400 a. C. circa) degli Ausoni, dal nome del loro re Liparo. Questa popolazione rimase nelle isole fino al 1270 a. C. circa. Durante il loro dominio l’attività commerciale, dovuta alla posizione strategica nel mediterraneo, punto di passaggio degli scambi commerciali tra est ed ovest, raggiunse il massimo regalando grande floridezza alle isole.

I primi resti ritrovati a Lipari risalgono, tuttavia, al periodo neolitico (3500-2000 a. C.). Già da allora gli abitanti erano dediti all’attività commerciale (tracce di commercio risalgono già XVI secolo a.C.) dovuta all’esportazione di ossidiana, materiale fondamentale per gli utensili da taglio del periodo preistorico.

I 5000 anni di storia delle isole Eolie possono essere simboleggiati dal castello che dal promontorio domina il centro storico di Lipari. La sua costruzione di epoca remota presenta una torre datata al IV-III secolo a. C., in periodo greco. Altre sue torri furono costruite in epoca medievale, intorno al secolo XIII, e le mura sono del periodo spagnolo. All’interno del castello, oltre a resti archeologici, si trovano: un’abbazia normanna e la cattedrale anch’essa normanna (1084) rimaneggiata successivamente, fino al 1861 da un ecclettismo baroccheggiante.

Proprio a causa dei 5000 anni di storia il Museo Archeologico Eoliano di Lipari, per la ricchezza delle vestige ritrovate che risalgono già alla preistoria, è uno dei più importanti musei del Mediterraneo. Vi sono esposti in ordine cronologico corredi funerari, vasi, cippi, steli tombali e sarcofagi in pietra, ma anche ceramiche di diversi stili, maschere teatrali e statue fittili.

L’isola è collegata quotidianamente da aliscafi e traghetti con Milazzo, ma anche con i porti di Messina, Palermo, Reggio Calabria e Napoli.

 

Tutte le foto presenti nelle Gallery delle Isole Eolie sono tratte dall’archivio di Wikimedia Commons. Per ogni riferimento fotografico consultare il sito.

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Cosa vuol dire “coltivare il proprio giardino” ?

Pochi giorni fa ci è stata posta la domanda: “Cosa vuol dire coltivare il proprio giardino?”  Il riferimento diretto va a Candido, il famosissimo personaggio di Voltaire, il quale, nelle ultime pagine del libro che porta per titolo il suo nome, rigetta l’invito ad ogni nuova azione per dedicarsi al proprio giardino. Non molti sanno che Voltaire era un giardiniere dilettante e smanettava con utensili vari nelle sue tenute di Les Délices e Ferney. Un passatempo incredibilmente efficace per tenersi occupato e liberare la mente, quando non scriveva, studiava o partecipava ad illuminati salotti.

Naturalmente il giardino coltivato da Candido rappresenta una metafora. È il giardino delle qualità personali, che richiede di essere messo a frutto, senza troppo parlare, ma utilizzando la concretezza derivata da conoscenze ed abilità. Qualora si posseggano veramente.  Per quanto ci riguarda, vale ampliare il discorso dalle doti individuali alle risorse collettive riguardanti, ad esempio, quel ricco ed accessibile territorio di cultura e di natura proprio dell’Italia intera, da Nord a Sud. Molti tentativi sono stati compiuti, ma è necessario mettere a frutto, concretamente, questo giardino, creando un volano economico non indifferente, attraverso una programmazione virtuosa che sappia attivare i giusti processi d’attuazione.

Prendendo spunto da quella solida cultura scientifica, che discende, fra l’altro, proprio dal menzionato Voltaire e dagli illuministi, è possibile muoversi con un’attenta registrazione di fatti, senza farsi condizionare dal troppo disputare inconcludente. Occorre parlare meno e lavorare, perché solo allora la terra può rendere molto, e senza neanche una grande fatica. Un esempio? Lo forniva qualche anno addietro Piero Angela. Il noto giornalista televisivo raccontava «Ero vicino a Yellowstone, nello Stato americano del Montana. La strada era bloccata da una frana. Perciò ne hanno costruita un’altra, e intanto hanno organizzato un Centro per i visitatori, una specie di museo con la storia geologica della frana. Insomma, una calamità naturale è stata trasformata in attrazione turistica. Mi chiedo perché non si faccia lo stesso in Italia».

In verità ce lo domandiamo anche noi, e, considerando la grande attitudine ad assumere iniziative, chiediamo perché gli organi competenti in materia di turismo non considerino di organizzare un “grand tour” nel Montana per studiare e imparare come dal niente si possano creare spunti di attrazione. Questo naturalmente è uno sfottò. Tuttavia, figuriamoci cosa si potrebbe fare con quel grandissimo patrimonio storico, artistico e naturalistico, in gran parte sottovalutato e misconosciuto, che potrebbe davvero arricchire ogni angolo di territorio. Signori Munafò (altro personaggio, questa volta narrato da Sciascia che a Voltaire si ispira) non aspettate a diventare Candidi solo dopo essere emersi dalle macerie.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di pramit marattha da Pixabay

La Sicilia e le sue culture

 

MANDANICI. Conoscere-pensare-agire, sono le parole chiave di questa sesta edizione della “tre giorni” che coinvolge esperti in differenti discipline per un confronto culturale tra aree cognitive apparentemente distanti fra loro: neuroscienze e psicoanalisi, architettura e design, musica, archeologia, economia, diritto, filosofia, geografia, antropologia, storia. «Questo evento è dedicato a uomini e donne dallo spirito libero che sentono di poter dare un personale e collettivo apporto – commenta Pino Mento, che anima “Archetipi e territorio” nell’organizzare la manifestazione – È un tentativo di “rivisitazione critica” dei concetti di spazio, luogo, ambiente, territorio e paesaggio attraverso una prospettiva antropologica e storica della percezione dei “comportamenti umani” e dei “fenomeni” che in essi avvengono». Quest’anno il tema è “La Sicilia e le sue culture”, centro del Mediterraneo ed incrocio di civiltà. Ciò per diffonderne l’identità, legata ad una insularità vista come una “possibilità sempre aperta”, una singolarità in forma di plurale, con l’intenzione di ricordare memorie segnate nella pietra e nel vento, come le canterebbe il poeta Adonis. Ecco perché le riflessioni sono molteplici quante le facce di un poliedro stellato. Così da domandarsi se esiste una cultura siciliana, se gli eventi sono la sua storia, dove finisca il mito, come si stratifichino i culti, in cosa trovare le tracce della realtà. Quella segnata nelle pagine di storia, nella letteratura dei viaggiatori, nelle mappe dei cartografi. Ecco che, muovendo dall’immaginario, il quadro diventa via via più chiaro quando si mettono a fuoco uomini e luoghi. Che occorre appunto conoscere. Pensare o magari ripensare. Per agire.

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Cos’era una panelleria? 2/2

 

Nella panelleria si consumavano anche minuscole crocchette di patate, dette cazzilli; in rapporto alla stagione broccoli, cardi, carciofi… rigorosamente fritti in pastella. Oltre ai cazzilli si potevano gustare persino anelletti al forno, sarde a”beccafico”, frittura di calamari, melanzane alla parmigiana, a “quaglia”, trippa, pasta con le sarde e quanto di più buono offrisse la tradizione.

Stigghiole arrostite.
Stigghiole arrostite.

Per strada si incontravano, invece, il poliparo ovvero il venditore di polpo, il venditore di frittole, i banchi con la griglia sulla quale era cotta la “stigghiola”, stecca fatta con interiora di vitello intrecciata con verdi gambi di cipolla. La sua lunga cottura richiede notevole abilità e va consumata bollente con sale e limone. La stigghiola può essere consumata anche bollita, in tal caso prende il nome di quarume cioè caldure. Il quarumaro acquista i visceri del vitello che, puliti con acqua e sale, subiscono una prebollitura prima di passare a quella nel brodo con i tipici aromi di carota, cipolla, sedano e pomodoro.

Bollito è servito anche il “musso”, la parte del vitello che comprende la testa, i piedi, le mammelle, i genitali. I vari pezzi lessati vengono serviti freddi, tagliati e cosparsi di limone, su un piano inclinato coperto di larghe foglie di broccolo. Si tratta, è evidente, di una gastronomia popolare adatta ad un forte palato, ma pregnante di storia, un patrimonio culturale da salvaguardare.

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Isole Eolie: Filicudi

 

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L’isola di Filicudi è situata a circa 24 miglia marine ad ovest da Lipari. Di non grandi dimensioni (9,7 km² circa) come le altre isole vicine è di origine vulcanica. Il monte Fossa Felci è in realtà un vulcano spento di 774 m di altezza, ma l’isola possiede altri sette vulcani spenti da tempo soggetti ad erosione. È abitata soltanto da 250 persone (3000 nella stagione turistica) che vivono distribuite in tre piccoli centri: Filicudi Porto, Valdichiesa e Pecorini a Mare. Gli abitanti si chiamano filicudari.

L’isola prende il nome da Phoenicusa, “ricca di felci”, come veniva chiamata in tempo antico a causa della presenza intensa di una palma nana che ancora cresce sulla montagna. Filicudi non presenta, come Alicudi; strade interne, e l’unica via asfaltata serve al collegamento dei tre centri. Fa parte del comune di Lipari. I prodotti principali coltivati sull’isola sono i capperi e i fichi. È chiaramente molto importante il turismo e la pesca amatoriale nel periodo estivo. Su parte dell’isola esiste un piccolo parco regionale.

Si può dire che la “modernità” ha raggiunto Filicudi nel 1986 con la costruzione di un impianto di generazione elettrica a gasolio, per le pompe elettriche per l’acqua dei pozzi, le televisioni e gli elettrodomestici in generale. L’acqua però continua ad arrivare con navi cisterna. Il piccolo passo avanti ha fruttato all’isola un certo sviluppo economico, soprattutto nell’ambito dei servizi per il turismo e, quindi, l’aumento del numero di visitatori.

Una sezione del Museo Archeologico Eoliano è presente sull’isola ricco soprattutto di materiale proveniente dal villaggio neolitico di Capo Graziano, oltre ad altri reperti delle isole. È confermata l’antica produzione di ossidiana commerciata durante il periodo neolitico. Jaques Basler, scultore, organizza da tempo una piccola Biennale d’Arte a Filicudi in località Fossetta.

L’isola è raggiungibile con aliscafo, traghetto e catamarano passando da Lipari ed altre isole per raggiungere il porto di Milazzo. È raggiungibile anche con un traghetto in partenza da Napoli. Sull’isola sono presenti due attracchi per le navi. Il principale è il punto maggiormente frequentato e per questo motivo è anche il più “commerciale”. In alternativa c’è il molo di Pecorini Mare, ma i due attracchi non sono del tutto protetti e attrezzati per il periodo invernale, quando le condizioni del mare si fanno proibitive.

 

Tutte le foto presenti nelle Gallery delle Isole Eolie sono tratte dall’archivio di Wikimedia Commons. Per ogni riferimento fotografico consultare il sito.

 

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“Cultura Crea” per le imprese del Sud

 

INVITALIA, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa – facente capo al Ministero dell’Economia – col proposito di “dare valore all’Italia” promuove il rilancio delle aree di crisi, soprattutto nel Mezzogiorno, e gestisce incentivi sostenendo imprese e startup innovative. A settembre, in accordo col Mibact, lancia una nuova iniziativa a favore della filiera culturale e creativa delle regioni Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e – buon per noi – Sicilia. “Cultura Crea” è il programma varato per realizzare e sviluppare iniziative imprenditoriali nel settore dell’industria culturale-turistica e per sostenere le imprese no profit che puntano alla valorizzazione delle risorse culturali presenti sul territorio. L’iter sembra spedito, perché in quattro mesi dalla presentazione della domanda l’impresa sarà in grado di operare sulla base di un contratto di finanziamento appositamente stipulato. Le risorse complessive, relative al finanziamento agevolato a tasso zero e al contributo a fondo perduto, possono arrivare a coprire il 90% delle spese ammesse. Le agevolazioni, concesse fino ad esaurimento delle risorse, ammontano a 107 milioni di euro: 42 per la nascita di nuove imprese, 38 per il sostegno alle imprese già attive, 27 per il terzo settore. A conti fatti non meno di 200 progetti saranno sviluppati per dare vita a servizi per la fruizione turistica e culturale, iniziative di promozione e valorizzazione, recupero di produzioni tipiche locali. Agli stalli di partenza: dal 15 settembre, su www.culturacreativa.beniculturali.it si potranno presentare le domande e informarsi sui roadshow e i vari webinar. Che dire? Il futuro appartiene a coloro che ci credono.

 

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Perché si dice: Regno delle “Due Sicilie”?

Con il nome di “Regno delle Due Sicilie” si identificano i due Regni di Napoli e di Sicilia. Il termine è stato assunto in seguito al fatto che dopo i Vespri siciliani sia i re di Sicilia, per l’effettivo dominio del territorio insulare, e sia i re di Napoli, per non perdere i propri diritti sull’Isola, portarono contemporaneamente il titolo di “re di Sicilia”. Quindi si poteva distinguere un “Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum” cioè un Regno di Sicilia “al di qua del faro”, ossia l’Isola vera e propria, e una Sicilia “al di là del faro”, costituita dalla parte meridionale della penisola, ovvero dallo Stato napoletano. Il Faro al quale si fa riferimento è quello posto sul Braccio di San Raineri a Messina.

Nel 1443 Alfonso V il Magnanimo, re d’Aragona e della Sicilia insulare, avendo conquistato lo Stato napoletano, chiamato quindi da tempo Regno di Sicilia, si proclamò “rex utriusque Siciliae” (re di ambedue le Sicilie). Pur essendo unificati sotto un’unica corona, i due territori, divisi dal braccio di mare dello Stretto di Messina, mantennero amministrazioni locali separate. Tuttavia, con la morte di Alfonso V (1458), i due Regni tornarono ad essere distinti.

A partire dal 1734 i Borboni, che governarono sull’Italia meridionale, compresa la Sicilia, ripresero l’antica denominazione e ciò fino alla restaurazione conseguente al congresso di Vienna del 1815, quando venne formalizzata l’unificazione del Regno di Napoli con il Regno di Sicilia, da parte del re Ferdinando (detto IV re di Napoli e III re di Sicilia). Con la legge del 22 dicembre 1816 che sanciva l’unificazione, Ferdinando assunse il titolo di “Ferdinando I re delle Due Sicilie”. Questa unificazione modificava il reale assetto politico e pertanto suscitò le proteste dei Siciliani e della Santa Sede. Quest’ultima si manifestò contraria perché vedeva mutata l’impronta di un Regno che riteneva da sempre suo vassallo. I Siciliani invece protestarono perché, essendo stata abolita la costituzione – che lo stesso re Ferdinando aveva concesso nel 1812 – venivano a perdere i privilegi di autonomia rispetto alla corona. Di fronte all’unificazione, il popolo siciliano si rivalse con l’arma della satira. Il motto ricorrente era: “Fosti quarto e insieme terzo, Ferdinando, or sei primiero, e se sèguita lo scherzo, finirai per esser zero!”

Il Regno delle Due Sicilie, così denominato, durò fino al 1860, sotto Francesco II di Borbone, quando in seguito alla spedizione di Garibaldi e ai Plebisciti del 21 e 22 ottobre fu proclamata definitivamente decaduta la monarchia borbonica e dichiarata l’unione delle Due Sicilie al Regno d’Italia.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di pramit marattha da Pixabay

Cos’era una panelleria? 1/2

 

In principio c’era il fast-food, poi lo slow-food, per ultimo il finger-food. Seguendo una moda esterofila i termini presi in prestito dalla lingua inglese indicano, in ordine, un pasto veloce, uno lento e uno da afferrare con le dita. Dalla tradizione riaffiora così la pratica del cibo di strada, del piacere di consumare in piedi o su sgabelli posti davanti i banconi, bocconi golosi. Ritorna l’atavico gesto di prendere il cibo con le mani, sentire il profumo ed il “calore” che emana.

Il cibo di strada si identifica infatti con le friggitorie, i carrettini ambulanti, i chioschi; uso legato un tempo soprattutto alle città di mare, ma anche interne, che svolgevano un ruolo nevralgico negli scambi commerciali. Città così come Catania e Palermo, Genova e Firenze o la lontana Singapore, mettono in  “piazza” crespelle e panelle, farinata e lampredotto o saitai, cioè spiedini di legno su cui sono infilzati pezzi di carne marinata e grigliata.

La profumata focaccia a base di farina di ceci (farinata) dal porto di Genova approda a quelli della Toscana per giungere in Sicilia, a Palermo, non più cotta al forno, ma fritta in piccole porzioni. La panella è una piccola frittella a base di farina di ceci ed acqua che semplice negli ingredienti, richiede abilità nella preparazione. Facoltativa è nell’impasto la presenza di un ciuffo di prezzemolo così come la spolverata di pepe e qualche goccia di succo di limone. Pane e panelle, un tempo nel capoluogo siciliano, si trovavano dal panellaro. La sua bottega, ubicata al pianterreno di vecchi edifici, era impregnata dell’odore di olio fritto e rifritto.

Pane e panelle
Pane e panelle

Nelle panellerie il lavoro poteva cominciare anche il pomeriggio del giorno precedente e proseguire sino al mattino del giorno successivo. La farina di ceci veniva cotta a lungo in acqua salata e rimestata con un grande paiolo a “zattera”. Poi veniva fatta raffreddare, coperta da una mappina e si attendeva il momento giusto per confezionare le panelle, evitando che l’impasto si indurisse troppo. Si usavano particolari formelle di legno, di forma rettangolare, circolare oppure a semicerchio che avevano la particolarità di possedere un rilievo floreale. Una sorta di cartina al tornasole che provava l’immediatezza della preparazione, poiché tale incisione si rendeva visibile solo sopra una panella fritta da poco. Arredo tipico della panelleria era il piano inclinato forato, uno sgocciolatoio sul quale venivano riversate le panelle gonfie di vapore per eliminare l’olio superfluo, prima di essere gustate così o dentro tipiche pagnottelle calde di forno.

 

 

 

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