Sbagliata essiccazione, la pasta prende “la botta”

 

L’essiccazione non dipendeva solo dal clima o delle tre fasi descritte, ma anche dal formato della pasta. La pasta corta era meno sensibile di quella lunga, più delicata e bisognosa di particolari attenzioni. Appesa ad una canna, il locale variava di temperatura e ventilazione, aprendo o chiudendo le finestre. In particolare, l’escursione termica del giorno e della notte, poteva creare danni alla pasta in fase di essiccazione. Questo avveniva soprattutto nelle regioni del Nord, con escursioni maggiormente accentuate, rispetto al Sud.
L’essiccazione aveva una durata variabile. Più corta se in estate, di quella invernale. Dipendeva dal formato: più breve per la pasta corta che per quella lunga. Naturalmente dipendeva anche dalle usanze locali. A Torre Annunziata e Gragnano, ci riportano le fonti, poteva durare qualche giorno per il formato corto e la pastina da brodo, fino a 18 giorni circa per le zite di Napoli. Per le paste da esportazione, l’essiccazione era maggiore, perché si riteneva che sarebbe stata consumata più in là nel tempo, dopo il trasporto. Cosicché, dipendendo dalla lontananza dei mercati, questa fase si prolungava. La pasta poteva raggiungere località nella regione, ma anche, già adesso, il mercato nazionale o internazionale.
In ogni caso, se si sbagliava la fase dell’essiccazione, la pasta poteva prendere “la botta” (espressione napoletana). La superficie poteva presentare leggere incrinature, essere troppo fragile e tendente a spezzarsi. Tutti difetti di un passaggio tanto delicato, quanto misconosciuto.

La fase dell’essicazione naturale, dunque, era differente, essendo molte le variabili in gioco. E continuò ad esserlo fino all’invenzione dell’essicazione artificiale. In tutti e due i casi, comunque, si manteneva (e si mantiene) un certo grado di umidità. Oggi l’umidità della pasta è controllata da una strumentazione apposita. Per la pasta secca si tiene al 12%, mentre per la pasta all’uovo sale al 30%.
Nella fase manifatturiera, essendo l’essiccazione complessa e variabile, per il controllo si poteva contare solo sull’esperienza e l’abilità del mastro pastaio. Ad esempio, nella zona di Napoli il pastaio doveva prendere in considerazione anche il tempo e i venti che soffiavano. Se c’era tramontana, l’aria era più secca, mentre se c’era scirocco, l’ambiente era più umido. I due venti potevano alternarsi anche nel corso dello stesso giorno. Cosicché, l’abilità dei pastai napoletani ha fatto sì che il loro prodotto si affermasse ovunque, creando la cosiddetta pasta “al dente”.

Naturalmente, il sistema aveva i suoi difetti, e non da poco. Perché il metodo artigianale richiedeva una maggiore manovalanza impiegata nei vari processi e la cosa non poteva che ripercuotersi sul prezzo di vendita. Cosicché, migliore era il controllo, maggiore era il prezzo.
Per la “vincente” pasta del meridione, un altro difetto, assai logico, era rappresentato dell’esposizione stessa all’aperto, sotto il sole. Non tanto per la variazione di colore della pasta, quanto per lo “smog” di allora. Il prodotto veniva adagiato sulle terrazze, nei cortili o nelle strade della cittadina. Il prodotto era fatalmente inquinato dalla polvere sollevata dei carri, che transitavano sulle vie non asfaltate. Il difetto, dunque, stava nella stessa essiccazione all’aperto. Di questo problema se ne accorse già (e lo denunciò) Alessandro Betocchi, che lavorava per la Camera di Commercio di Napoli. La cosa però non venne presa in considerazione a quel tempo. Perché? Semplice: la pasta prodotta a Torre Annunziata o a Gragnano era troppo buona.

Ma chi era davvero la casalinga?

 

Giuseppe Puma, in una serie di libri sulle arti e i mestieri, esamina anche il lavoro misconosciuto della casalinga. E si domanda chi fosse, in verità, la donna di casa di un tempo. Non certo colei che andava a lavorare nei campi, se non saltuariamente per aiutare marito e figli. Era certamente la madre di famiglia, che si occupava di accudire i piccoli, preparare i pasti e badare a tutto quello che accadeva nel nucleo domestico. Attraverso i suoi oggetti di uso quotidiano, elencati e descritti nel libro, possiamo scorgere una “tranche de vie” dei tempi passati.

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Sicilia in camper: itinerario, racconto e fotografie

 

Ecco a voi la pubblicazione realizzata da due viaggiatori per passione e camperisti nel DNA. Riguarda la Sicilia, ma non solo, perché ci sono anche Roma, Caserta e Napoli. Hanno deciso di condividere le loro esperienze con chi viaggia in camper; ma anche con tutti gli altri lettori, perché i contenuti di questo libro fotografico possono tornare utili anche a chi effettua tanti altri tipi di turismo. Con una particolarità importantissima. Chilometro dopo chilometro, gli itinerari proposti sono stati percorsi realmente dei due autori – Mariangela Angelico e Thomas Moore – le aree di sosta citate sono state davvero visitate e testate. Ne scaturisce il fatto che le fotografie del libro sono tutte frutto dei loro scatti originali.

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Scoprire il territorio con occhio fotografico

 

Realizzato al termine del Corso Base di Fotografia Digitale, tenutosi a Castel del Piano nei mesi ottobre / dicembre 2017, questo calendario nasce come obiettivo finale del percorso affrontato insieme dal gruppo di lavoro, per divenire sfida personale di ognuno dei partecipanti. Sfida ancora più significativa, in quanto si tratta di una situazione in cui la realtà non è più quella scontata, ma una scoperta continua. Si tratta, in verità, di una rilettura con occhio fotografico di un territorio che presenta allo sguardo punti di vista ogni volta differenti, dai quali cogliere i particolari del variegato contesto. Scatti fotografici che, in un calendario, accompagneranno l’intera annata.

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Viaggio tra i grandi vini di Sicilia

 

Si tratta di un volume di 300 pagine, edito in elegante edizione cartonata e da noi riproposto quale ebook. Andrea Zanfi, come già fatto in occasione di una precedente pubblicazione, ha voluto ancora una volta avvicinarsi e raffrontarsi al mondo del vino, con la sua scrittura un po’ atipica, cercando di descrivere il “cuore pulsante” dell’enologia siciliana. Scrive lo stesso autore nella prefazione: «La Sicilia mi sembrava perfetta, aveva i requisiti giusti, con alle spalle la più importante storia vitivinicola del Mediterraneo, che aveva avuto origine ancor prima dello sbarco dei Greci nell’VIII secolo a.C., una storia che era stata protagonista delle pagine di volumi di scrittori e poeti che nei secoli avevano cercato di captarne i mutamenti; testi che raccontavano di miti e leggende che su quest’isola si erano sviluppati intorno alla vite, al vino, miriadi di informazioni che nel tempo avevano modificato il comportamento dei vignaioli siciliani, narrazioni che avevano, non solo arricchito le loro conoscenze tecniche, ma descritto piacevolmente le viti, le consuetudini e le pratiche sociali intorno al loro modo di interpretare il vino».

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Le tre fasi di essiccazione della pasta


Quella che potrebbe essere considerata l’ultima delle fasi nella lavorazione della pasta, in realtà, è tutt’altro che semplice. Si parla infatti di essicazione naturale. Questo aspetto delicato, fu attenzionato subito nelle regioni meridionali, permettendo il conseguimento qualitativo, alla base del prodotto. Per questo la pasta confezionata a Napoli ha rappresentato, per lungo tempo, l’eccellenza della pasta italiana. Verrà superata solo in un secondo tempo, quando fu introdotta l’essicazione artificiale, inventata ed adottata dai pastifici dell’Italia settentrionale.

L’essicazione naturale voleva dire esposizione al sole, oppure in ambienti caldi per lungo tempo, cosa più facile in regioni più fredde. Ad esempio, a Parigi, dove si mantenevano zone della bottega a temperatura sostenuta, tramite un caminetto. In ogni caso la pasta doveva riposare per diversi mesi. La soluzione, però, non permetteva il raggiungimento della stessa qualità della pasta prodotta nel sud della nostra penisola. Espedienti vari, adottati sia in Francia che Spagna, come il distanziamento in scatoloni separati, miglioravano la validità del loro prodotto, senza però raggiungere quella del mezzogiorno italiano. Infatti, la pasta si presentava fragile e non manteneva bene la cottura. Il problema però era considerato secondario, perché il consumo principale riguardava la pasta per minestre, dove la cottura poteva non essere l’intento principale (come per le “paste fini” di Genova). Per la pastasciutta la differenza si presentava, invece, alquanto notevole.
L’esposizione naturale era adottata anche in Liguria, grazie al clima più favorevole della riviera.

Essiccazione a Gragnano

Nel sud il metodo adottato prendeva la denominazione di metodo “classico”, “naturale”, “napoletano”, e presentava tre momenti precisi.
1) In primis, la semplice esposizione al sole, che ne essiccava la superfice (l’incartamento). La pasta veniva preparata su canne o telai di canne, a volte semplici teloni, esposta sotto il forte sole del sud, in ambienti aperti, come, ad esempio, su di un terrazzo. Con questo primo step si otteneva una superfice esterna lievemente secca. Questo strato veniva chiamato “carta”. La pellicola doveva essere delle dimensioni giuste, né troppo spesse tanto da annullare la seconda fase, né troppo sottili, pena una pasta molle e fragile.
2) Il secondo step, consisteva nel riposo della pasta in ambienti riparati, ma freschi e ventilati, ad una temperatura di 15° circa (la fase del rinvenimento). Obiettivo: il rammollimento della pasta. La pasta, tuttavia, non doveva rammollirsi troppo velocemente. Se fosse accaduto, avrebbe necessitato di una seconda esposizione al sole. La temperatura e l’umidità giuste ed il tempo giusto, dipendevano dal giudizio del mastro pastaio. In genere c’era bisogno di sostare per una notte intera, perché questo era un momento essenziale. Dalla parte interna, infatti, l’umidità residua risaliva in superfice, ottenendo, così, una pasta morbida e dell’umidità perfetta, sia dentro che fuori. La fase dava alla pasta consistenza e resistenza, tanto che i pastai napoletani, erano usi chiamare questo passaggio, “fare la corda”, dimodoché la pasta teneva meglio la cottura.
3) A questo punto la pasta subiva l’essiccazione definitiva, ma lenta, protetta dal sole, in un luogo a temperatura ambiente (essiccazione conclusiva).

Città dimenticate, ma con una storia da ricordare

 

In questo numero di Focus Storia: «Le città che attraverso i secoli sono state il cuore di regni e imperi e che poi sono cadute nell’oblio. Alcune sono rimaste famose per le loro rovine, altre hanno perso per sempre il loro ruolo». Quali sono? La metropoli Babilonia; Cartagine avversaria di Roma; di Roma, Soissons, cittadina francese ultimo baluardo; Aquisgrana Carolingia dove viveva Carlo Magno; Lubecca, la più potente repubblica marinara del Baltico; Tenochtitlan, la città degli Aztechi ubicata dove oggi sorge Città del Messico; Samarcanda, nell’Asia Centrale, un crocevia di commerci e di cultura; Richmond, che sarebbe la capitale degli Stati Uniti, se avessero vinto i sudisti la Guerra di secessione; Alessandria d’Egitto, a metà del Novecento perla culturale del Mediterraneo. Eccovi, dall’America precolombiana all’Estremo Oriente, 30 città che furono potenti, ma che oggi non esistono più nella memoria collettiva.

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Sulla salvaguardia della città storica

 

Questo volume raccoglie l’attività di ricerca sviluppata negli ultimi dieci anni all’interno di gruppi di studio che hanno valutato interdisciplinariamente le problematicità e le singolarità dei centri storici in diverse zone dell’Italia e del bacino del Mediterraneo. Si trovano analizzati i molteplici aspetti che contraddistinguono i diversi centri partendo dall’analisi delle superfici e della geometria delle forme per poi arrivare a valutare le tecniche costruttive e le problematiche strutturali dei singoli edifici e degli aggregati in cui si trovano, nella consapevolezza che edifici e aggregati sono organi fondamentali dell’organismo centro storico e che dalla relazione dei singoli elementi nasce la capacità di un centro storico di comportarsi come un insieme omogeneo dotato di unitarietà dell’immagine ma anche e soprattutto di connessioni strutturali per la salvaguardia degli edifici e dei loro abitanti.

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“Sempre gli stessi che hanno iniziato l’avventura”

 

TravelGlobe è un Magazine di turismo, viaggi, benessere e cultura, con immagini scattate da grandi fotografi. Sulla pagina Facebook l’attivissima comunità conta circa
80.000 fan. A novembre del 2107 ha festeggiato tre anni di esistenza. Anni esaltanti e impegnativi, dicono in redazione, durante i quali la rivista, pensata e assemblata con cura e pazienza, è cresciuta come popolarità e numero di pagine. Dicono nell’editoriale del numero di fine anno: «Siamo stati molto attenti non solo a non rinunciare mai, a nessun costo, alla qualità delle immagini e dei testi, ma anche a proporre un modo originale di vedere le cose e a osare anche argomenti scomodi, sicuri che voi, cari lettori ci avreste seguito. Abbiamo cercato, nel nostro piccolo, di fare Bellezza e Cultura. Di scardinare certezze e abitudini, con la provocazione, la meraviglia e la sorpresa, per sconfiggere le pigrizie, indotte dalla stanchezza e dal poco tempo disponibile». Bene, impegniamo allora un po’ di tempo per sfogliare TravelGlobe con grande curiosità.

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La lavorazione della pasta nell’Ottocento

 

Il mercato della pasta, con il giusto rapporto tra qualità e prezzo – e così convincente a livello salutistico – registra una grande richiesta, in questo periodo. Purtroppo, rispetto alla domanda crescente, i pastifici non hanno ancora la forza commerciale e industriale per una giusta risposta. Il problema rimarrà irrisolto per tutto il secolo.

La “pasta d’ingegno”, non poteva che essere frutto dell’ingegnosità umana (o della sua fantasia). Tra i testi del XIX secolo, vi è quello di Malouin, contemporaneo alla fase preindustriale della pasta. Il libro presenta l’analisi dei settori del mugnaio, del fornaio e del pastaio, illustrato con ampie incisioni. L’analisi tocca le differenze e le similitudini fra i tre mestieri. Si scopre, anche, l’uso comune di tecnologie, come la gramola a stanga e del torchio, mosso da un tornello, che è dotato di trafile sostituibili. Il libro è una vera “fotografia” del suo periodo storico, per quanto riguarda i tre mestieri, differenti ma al contempo allora simili. Vi sono descritte le fasi dell’attività. Si parte da un impasto realizzato nella madia, contenente farine più o meno pure o semole setacciate, amalgama da far riposare avvolta in un panno. Seguono una o due ore di lavorazione alla gramola a stanga.

Nell’impasto va utilizzata, naturalmente, l’acqua, dosata con l’esperienza personale. In teoria l’acqua deve essere poca, per un risultato migliore. Troppa acqua rovina l’impasto. In Liguria e nella Provenza, si preferisce un amalgama più soda, mentre nel napoletano si confeziona un impasto un po’ più morbido ed umido. A motivarlo è il differente clima, più caldo nel Sud Italia. L’acqua aggiunta deve essere, comunque, tiepida, accortezza già presente nella lavorazione del medioevo. In età industriale, verrà utilizzata acqua bollente.

A questo punto, l’impasto, perfettamente gramolato, passa alla fase del torchio, che presenta una campana ed una vite, per schiacciare un pezzo di impasto contro una trafila con il tipo di fori necessari. La trafila è sostituibile. La vite, azionata a forza umana (ma c’è chi usa un argano), comprime un pistone sul cui lato è posta la trafila. Tutta l’attrezzatura produce pasta corta se verticale, o pasta lunga, se orizzontale.
I diversi tipi di trafila, avvicendabili, in questo periodo, possono produrre, secondo Jerôme de Lalande, ben 30 diversi formati, dai più raffinati a quelli “popolari”. Tra questi ultimi: i macaroni, le trenette e le lasagnette. Per ottenere i macaroni si utilizza una trafila con buchi, al cui centro vi è una punta metallica, che crea il foro del singolo maccherone. Dall’altro lato della trafila (dove la pasta fuoriesce) una lama ruotante, mossa da una manovella, taglia la pasta nel formato necessario. La pasta prodotta viene subito raffreddata con un ventaglio da un bambino, per non farla attaccare. La pasta lunga, invece, viene tagliata con le mani, ad una lunghezza di circa 30 cm per i vermicelli.

Anche le lasagne, alla data, vengono preparate al tornio, ottenendo fasce di pasta. Non quindi un prodotto della laminazione (sul tipo del mattarello), ma direttamente dalla trafila. Se i bordi della lamina erano ondulati, si potevano ottenere quelle che oggi chiamiamo lasagne ricce. Questo lo si desume da una tavola illustrativa del libro di Malouin. L’essicazione della pasta, alla fine del lavoro, avviene nella stessa stanza di lavoro. È posta su degli scaffali a muro, atti a ricevere i telai, mentre i formati lunghi, sono sospesi su delle canne. Alla fine della formatura, la pasta lunga viene avvolta in matasse, utilizzando dei fogli di carta. In un giorno lavorativo (ma di 10 ore), si ottengono circa 125 kg di pasta.