Artusi in cucina: i fritti


Ripubblichiamo, in un modo del tutto particolare, un classico della cucina nazionale: 
LA SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DI MANGIAR BENE di Pellegrino Artusi, riferimento assoluto della cucina ottocentesca. Arte e scienza si incontrano in questo manuale, nel quale sono riportate le nozioni fondamentali della gastronomia italiana. L’arte del cucinare si fonde con l’arte del narrare e le ricette vengono raccontate attraverso esperienze personali, aneddoti, citazioni colte che inducono al “gusto” per la lettura. I segreti escono dalla cucina attraverso pagine da scorrere con piacere per assaporare, anche mentalmente, gustose pietanze a base di carni, verdure e legumi, specialità panarie e dolciarie.

“Una per una” ecco le ricette di Pellegrino Artusi. Rivisita la gastronomia ottocentesca tra cucina e cultura, realizzando piatti sorprendenti tutti da gustare. Sfoglia ogni settimana le ricette che preferisci o acquista l’eBook integrale.

Cliccando sul link della copertina sottostante, potrai sfogliare gratuitamente: I fritti

L’insostituibile apporto dei giovani alla cultura

 

I volontari. A furia di adoperarsi gratuitamente si è loro sdilinquito lo stomaco. Sono sempre pronti quando le Istituzioni varano iniziative culturali edificanti e i giornali ne decantano la magnifica riuscita. Tuttavia, nonostante ogni contributo stanziato, ai volontari non va mai il becco di un quattrino. Per definizione aderiscono gratuitamente. Lo fanno per conquistarsi una “visibilità”, labile quanto il durare del giorno di festa. Ecco allora un’alternativa geniale: ricorrere a studenti e stagisti al fine di far loro acquisire la pratica necessaria ad un’attività professionale ancora tutta da acquisire. Al di là della prestazione, desteranno comunque simpatia. La presenza dei giovani è, dunque, basilare. Benché ministro, assessore, via via fino all’ultimo usciere, uno stipendio lo portano pur sempre a casa, ai giovani rimane soltanto una pacca sulla spalla, perché «loro sono il nostro futuro». Un leitmotiv che piace tanto. Ha una sua verità, ma il perdurare dell’inamovibile realtà delude ogni aspettativa, producendo giovani sempre più frustrati e progressivamente riluttanti. Senza speranza non potranno dare nulla: né a sé stessi né agli altri. Alla faccia del decantato “Sistema cultura”. Eppure il patrimonio esistente, unito agli investimenti da erogarsi per tutelarlo e salvaguardarlo, può incentivare attività grazie alle quali fare espletare ottime competenze. La politica preferisce, invece, sfruttare la cultura a scopo d’immagine e le Associazioni per raccogliere fondi e donazioni da investire prevalentemente altrove. Se però è vera la definizione che il volontariato è la prestazione gratuita di opere e mezzi disponibili, «a favore di categorie di persone che hanno gravi necessità e assoluto e urgente bisogno di aiuto e di assistenza» (Treccani), c’è da chiedersi: “bisogno e assistenza” a chi? Alle Istituzioni?

Pubblicato su 100NOVE n. 42 del 2 novembre 2017

Pierre-Auguste Renoir – Ballo al moulin de la Galette

 

Pierre-Auguste Renoir, Ballo al moulin de la Galette, 1876, olio su tela, Musée d’Orsay, Paris
Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 25 febbraio 1841 – Cagnes-sur-Mer, 3 dicembre 1919) è stato un pittore francese, considerato uno tra i massimi esponenti dell’Impressionismo. Artista prodigiosamente prolifico, con all’attivo ben cinquemila tele e un numero altrettanto cospicuo di disegni e acquerelli.

Bal au moulin de la Galette

Il Bal au moulin de la Galette è una delle opere più note di Renoir ed è unanimemente considerato uno dei più alti capolavori del primo Impressionismo. Il dipinto, nonostante consegua risultati di grande freschezza e intensità, conobbe una gestazione molto elaborata, attentamente descritta dall’amico Georges Rivière nelle sue memorie Renoir et ses amis. Renoir pensava di dipingere uno spaccato di vita mondana parigina all’epoca della Belle Époque sin dal maggio 1876, e trovò nel Moulin de la Galette un soggetto che si prestava perfettamente alle sue esigenze. Il Moulin de la Galette era un locale molto amato dalla gioventù parigina, ottenuto dalla ristrutturazione di due mulini a vento abbandonati, e ubicato sulla sommità della collina di Montmartre. Il nome del locale, in particolare, si riferisce alle frittelle rustiche offerte come consumazione e comprese nel prezzo d’ingresso, che all’epoca era pari a venticinque centesimi di franco. Quando Renoir attendeva al dipinto il luogo brulicava di gente: erano moltissimi i giovani, artisti e non, che decidevano di trascorrere le loro domeniche pomeriggio al Moulin, per ballare, bere, discutere, o comunque trascorrere del tempo in compagnia e divertirsi.

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Dalla pasta da ferro alla pasta d’ingegno

 

L’alba di un nuovo settore

L’Italia, alla fine del medioevo, era già leader del settore della pasta. Lo dimostra il fatto che l’antico termine di “tria” per indicarla, venne sostituito ovunque da quello di “maccheroni italiani”. Piano piano il settore della pasta lievitò, con un aumento della domanda. I pastai iniziarono ad introdurre strumenti più “sofisticati”. Dalla gramola a stanga si passò al torchio a trafila. La nuova meccanizzazione aiutò a produrre di più, con minore spesa e fatica. L’aumentato consumo di pasta diede origine ad un’attività con maggiori guadagni. Fatalmente, i pastai si staccarono da fornai e panettieri, dando il via all’autonoma corporazione dei pastai. La pasta, sempre più importante a tavola, divenne una specifica categoria alimentare, con un posto d’onore nei consumi alimentari italiani.
Nel manuale di “Agricoltura pratica” si distinguono i due tipi di grano, che producono diversamente l’uno farina e l’altro semola. Nel testo si indica l’uso della farina come migliore per il pane e la semola per la pasta.


LE MISCELE
La pasta tradizionale italiana, oggi, è principalmente a base di semola di grano duro. Alla fine del medioevo, la semola era adottata per pasta di particolare qualità, mentre si tendeva, per la gran parte della produzione, ad usare la farina. La differenza tra le due lavorazioni, già dal XIV secolo, era presente in Sicilia. Spesso i due tipi di grano erano mischiati tra loro, in particolari proporzioni. La miscelazione è presente in documenti normativi del XVII secolo, a Napoli, per abbattere i costi ed aiutare i consumi popolari.  Ugualmente le miscele vennero impiegate in Liguria nell’Ottocento, quando la marina inglese bloccò le vie marittime per la Sicilia ed il Marocco, precludendo così il rifornimento di semola di grano duro. Anche nel Novecento, è presente l’uso di miscele per la pasta. Nel 1929, nel manuale Hoepli, ve ne sono di tre tipi. Ciononostante, le miscele di grano duro e tenero, sono una cosa, le prime truffe un’altra. Nel XVI secolo, alla farina di grano vengono mischiate farine di lupini, granoturco o miglio.

Il grande successo della pasta di semola di grano duro (pura) si registra nei secoli XVII e XVIII, in particolare con i maccheroni di Napoli e quelli di Genova. Oltre il successo economico, la pasta ed il grano italiano riscuotono in Francia grandi apprezzamenti, come in una pubblicazione medica di Lione, del XVII secolo.

Berthe Morisot – La culla

 

Berthe Morisot, La culla, 1872, Olio su tela, Musée d’Orsay, Paris
Berthe Marie Pauline Morisot (Bourges, 14 gennaio 1841 – Parigi, 2 marzo 1895) è stata una delle interpreti più significative, fantasiose e vivaci del movimento impressionista.

La culla

Ne La culla la Morisot coglie un momento di struggente intimità familiare, raffigurando la sorella Edma mentre veglia sul sonno della figlioletta Blanche. Berthe riesce a porre grande attenzione al fresco naturalismo della rappresentazione, enfatizzando al tempo stesso l’affettuosa quotidianità del soggetto. Edma, infatti, ha un’espressione intensa e amorosa ed è assorta in chissà quali pensieri. Mossa da un innato istinto di protezione materno, inoltre, la donna sfiora un lembo della tendina e lo interpone tra l’osservatore la neonata, ponendolo così a protezione della culla. Blanche, invece, dorme beatamente e le sue delicate fattezze «sboccia[no] come un fiore prezioso» (Cricco, Di Teodoro) attraverso la candida trasparenza del velo. Sia la giovane madre sia la bambina vengono raffigurate con un braccio piegato, come a sottolineare un’affinità psicologica.

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Pierre Seghers

 

Citazioni e aforismi sono passati dalla carta al web. Ne leggiamo in continuazione, ma noi stessi dimentichiamo di mettere in pratica quanto abbiamo sollecitato all’attenzione degli altri. Non sarebbe il caso di passare dalle citazioni alle citAZIONI? Oppure sforzarci di rifletterci su?

La porcellana Traditional White

 

Porcellana Traditional White (1796)

 

Bone China è un tipo di pasta soffice che assomiglia alla porcellana e che si compone di feldspati, caolino ma soprattutto per un buon 50% da cenere di ossa. Il materiale prodotto risulta bianco, molto trasparente, resistente all’usura e alla scheggiatura. La prima tecnica ad essere sviluppata e successivamente diventata nota con questo nome è stata inventata da Thomas Frye, nello stabilimento di porcellane a Bow alla periferia est di Londra nel 1748. La particolarità era che l’edificio industriale si trovava nelle vicinanze dei mercati di bestiame e dei macelli di Essex. Era molto facile, quindi, recuperare ossa di animali. Provò a combinare le ossa con i materiali di base per la costituzione della porcellana. Ma ottenne un risultato che non riscosse grande successo.

La formula fu sviluppata da Josiah Spode, il quale tra il 1789 e il 1793. Abbandonò la procedura di calcinare le ossa contemporaneamente alle materie prime lapidee. Sottopose al trattamento di calcinatura esclusivamente le ossa. Il prodotto risultò ottimo e la produzione fu accolta da un grande successo di pubblico, tanto da spingere anche altri produttori di ceramiche inglesi ad adottare lo stesso sistema.

È il caso di Josiah Wedgwood, oggi considerato uno dei principali esponenti della prima rivoluzione industriale. La sua famiglia lavorava nel settore della ceramica fin dal 17º secolo. Nella fabbrica familiare operò fin dall’età di nove anni, e qui apprese le tecniche più moderne sulla modellazione delle forme e sulla miscelazione dei colori. Nel 1759 si mise in proprio, fondando una sua nuova fabbrica a Burslem una delle sei cittadine che formano la città di Stoke-on-Trent, nello Staffordshire. Cominciò a produrre un particolare tipo di ceramica molto durevole dal caratteristico color crema. Apprezzata a corte, questo tipo di ceramica prese il nome di Queen’s Ware (articolo della Regina). Il tipo di ceramiche e la particolarità dell’assortimento valse alla fabbrica di Wedgwood la nomina, da parte della regina Carlotta, di fornitore ufficiale della Casa Reale.

La fama che ne derivò fece scegliere questo prodotto sia dalle famiglie inglesi che all’estero. Nel 1812 la Wedgwood mise in produzione anche la Bone China, in un’altra sua fabbrica sempre nei pressi di Stoke-on-Trent. Tuttavia tra il 1828 il 1875 la produzione venne interrotta per un momento di grave difficoltà economica e soltanto a partire dal 1876 la Bone China cominciò ad essere richiesta dal mercato. Tanto da divenire la parte più considerevole della produzione Wedgwood, realizzata in una grande varietà di stili secondo le richieste del mercato eclettico. La Wedgwood completò così la messa a punto della Bone China, sviluppando un prodotto di qualità superiore.


Artusi in cucina: dall’antipasto ai ripieni

 

Ripubblichiamo, in un modo del tutto particolare, un classico della cucina nazionale: LA SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DI MANGIAR BENE di Pellegrino Artusi, riferimento assoluto della cucina ottocentesca. Arte e scienza si incontrano in questo manuale, nel quale sono riportate le nozioni fondamentali della gastronomia italiana. L’arte del cucinare si fonde con l’arte del narrare e le ricette vengono raccontate attraverso esperienze personali, aneddoti, citazioni colte che inducono al “gusto” per la lettura. I segreti escono dalla cucina attraverso pagine da scorrere con piacere per assaporare, anche mentalmente, gustose pietanze a base di carni, verdure e legumi, specialità panarie e dolciarie.

“Una per una” ecco le ricette di Pellegrino Artusi. Rivisita la gastronomia ottocentesca tra cucina e cultura, realizzando piatti sorprendenti tutti da gustare. Sfoglia ogni settimana le ricette che preferisci o acquista l’eBook integrale.

Cliccando sul link della copertina sottostante, potrai sfogliare gratuitamente: Dall’antipasto ai ripieni

Riscoprire a Messina qualcosa di speciale

 

Questo è il FAI, quando «racconta un Paese che ha scelto di prendersi cura concretamente del suo patrimonio più prezioso: il paesaggio, l’arte, la cultura e la natura d’Italia». Partecipare alla giornata FAI d’autunno a Messina ha significato rivedere il Catasto e la Biblioteca Giacomo Longo con occhi diversi. Sono aperti ogni giorno lavorativo, ma domenica 15 si poteva capire come le Istituzioni possano essere amichevolmente vicine: restituendo il senso della cittadinanza, senza retoriche e infingimenti; facendo comprendere le tante energie positive e il lavoro che con passione all’interno di questi palazzi si svolge; presentando i documenti del territorio e le gemme della secolare cultura cittadina. Secondo l’uso educativo del FAI i giovanissimi hanno contestualizzato, nelle vicende della Cortina del Porto, l’edificio del Catasto. In quest’opera novecentista Giuseppe Samonà e Guido Viola «hanno voluto contrapporre alla orizzontalità caratterizzante la massa di tutto l’edificio e dell’intera palazzata, un torrione terminale sulla piazza del Municipio». Si legge così, nel luglio del 1940, su “Architettura”, la rivista del sindacato nazionale fascista degli architetti, diretta da Marcello Piacentini. Nel “salone dei rapporti” – dove campeggia un discorso del Dux, 7 x 7 mt in travertino chiaro – è stata allestita una mostra di triangolazioni grafiche, mappali, planimetrie di piazze e isolati storici, strumenti di rilevamento. Le pubblicazioni sul Catasto erano invece esposte nella sezione periodici della Biblioteca. Non solo, perché lo straordinario patrimonio cartaceo in mostra spaziava dai codici miniati del San Salvatore alle monografie della collezione Messano-Calabrese. Emozioni pure, perché in giornate come questa FAI tua la consapevolezza che sia possibile una società migliore di quella che abitualmente viviamo.

Pubblicato su 100NOVE n. 41 del 26 ottobre 2017

Claude Monet – Impressione, levar del sole

Claude Monet, Impression, olio su tela, 1872, Musée Marmottan Monet, Paris
Claude-Oscar Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 5 dicembre 1926) è stato un pittore francese, considerato uno dei fondatori dell’impressionismo francese e certamente il più coerente e prolifico del movimento.

Impressione, levar del sole

La critica accolse l’opera del pittore, poco più che trentenne, in modo impietoso. Il messaggio di Monet non venne affatto compreso, e le sue scelte, consapevoli e coraggiose, vennero invece fraintese come un’offensiva trascuratezza pittorica. Tra gli esegeti più feroci vi fu certamente Louis Leroy, il quale per criticare la nuova maniera impiegata dalla «società anonima» immaginò in un articolo di visitarne la mostra insieme ad un immaginario, pluridecorato pittore accademico: « Gettai un’occhiata all’allievo di Bertin, il cui volto era adesso di un rosso cupo. Ebbi il presentimento di una catastrofe imminente; doveva essere Monet a dargli il colpo finale. “Ah, eccolo, eccolo!” esclamò dinanzi al n. 98. “Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il catalogo”. “Impressione, sole nascente”. “Impressione, ne ero sicuro. Ci dev’essere dell’impressione, là dentro. E che libertà, che disinvoltura nell’esecuzione! La carta da parati allo stato embrionale è ancor più curata di questo dipinto”. Ma che avrebbero detto Bidault, Boisselier, Bertin, dinanzi a questa tela importante?” “Non venitemi a parlare di quegli schifosi pittorucoli!” urlò il povero Vincent. L’infelice rinnegava i suoi dèi […]. Il vaso, alla fine, traboccò. Il cervello classico del vecchio Vincent, assalito da troppe parti insieme, venne sconvolto del tutto Si fermò dinanzi al custode che vigila su tutti quei tesori e, prendendolo per un ritratto, cominciò a farne una critica alquanto rigorosa: “Ma quanto è brutto!” fece, alzando le spalle. “In faccia ha due occhi, un naso e una bocca. Non sono di sicuro gli impressionisti che si sarebbero lasciati andare in tal modo al particolare. Con tutte le cose inutili che il pittore ha sprecato in questa faccia, Monet avrebbe fatto almeno venti custodi”».

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