Eleonora Coloretti, “Guardare il restauro” – Il metodo oltre la teoria

Gianluigi Colalucci nel 1986 lavora alla ripulitura della volta della Cappella Sistina –
Gianni Giansanti/Gamma-Rapho, tramite Getty Images

“Sono incuriosito ed emozionato, vedo qualcosa che non mi aspettavo”.

Ecco a voi la seduzione del restauro

Sono incuriosito ed emozionato, vedo qualcosa che non mi aspettavo, il colore azzurro, il meraviglioso colore azzurro… È una cosa straordinaria! Il colore azzurro è il colore di Dio secondo Michelangelo, come diceva Vittoria Colonna. In basso sfuma una sorta di crepuscolo, contro il quale si stacca la resurrezione dei morti e il gruppo dei dannati. Beh, ha ritrovato la sua composizione l’affresco… È straordinario. Una cosa straordinaria”.

Federico Zeri

  • Collana Storia dell’arte
  • Anno 2023
  • Pagine 84, con oltre 30 illustrazioni a colori e in b/n
  • Formato 21 x 27 cm, brossura
  • ISBN978-12-80956-10-1

Il libro apre con una prefazione curata da Claudio Strinati e una introduzione dell’autrice, Eleonora Coloretti.

La prima parte del volume è costituita dalle interviste a Gianluigi Colalucci, Carlo Giantomassi e Donatella Zari, Guido Botticelli, Antonio Forcellino.

La seconda parte del volume ripercorre e mette a confronto quattro restauri scelti fra quelli realizzati dai maestri intervistati:

  • La Cappella Sistina – Restauro di Gianluigi Colalucci
  • Giuditta e Oloferne – Restauro di Carlo Giantomassi e Donatella Zari
  • La Madonna del parto – Restauro di Guido Botticelli
  • La Tomba di Giulio II – Restauro di Antonio Forcellino

Sul libro
“Guardare il restauro”
di Eleonora Coloretti
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Un libro che non ti emoziona non vale neppure aprirlo, ma se apri un libro come “Guardare il restauro” di Eleonora Coloretti, ricercato ed elegante già nella copertina e nella grafica, sai che dovrà essere letto tutto e attentamente. Pagina dopo pagina t’impegnerà a dipanare il fil rouge dei pensieri e dei ricordi, perché un libro che emoziona suscita sempre dei ricordi: i tuoi di lettore, quelli di chi lo ha scritto e quelli rievocati dai protagonisti. Qui il filo rosso è lo spirito sottile di cui è tessuta una professione, fatta di vicende personali ed esperienze, che hanno plasmato scienza e coscienza. «Da restauratrice professionista – scrive l’autrice – in questi anni ho sentito crescere il bisogno di indagare nel profondo il concetto di “Restauro” ed ho percepito fortemente l’odierna crescente perplessità riguardo al ruolo assunto dal restauratore nella società». Trovo questo filo rosso in ogni domanda che Eleonora Coloretti rivolge ai suoi amici speciali, fra i più grandi restauratori di questi nostri anni. Eleonora – da ora in poi mi riferirò a lei così, per nome, come compare nelle sue conversazioni – lo fa con garbo e desiderio di risposte sincere, per afferrare il quid di cui è costituita la professionalità quando raggiunge la sua massima espressione.

Se un libro che ti emoziona suscita dei ricordi, il mio conduce a Como. Nel bel parco di Villa Olmo affacciato sul lago, il buffet per il pranzo, in via del tutto eccezionale, è stato allestito all’aperto. Interrompe le lezioni full immersion di perfezionamento in restauro lapideo sulle orme dei Magistri cumacini. Ne approfitto per scambiare qualche impressione sui restauri della Volta Sistina con Pio Baldi, oggi Presidente della Pontificia Accademia di Belle Arti e Lettere e già allora nome di rilevanza nel restauro architettonico. In quei giorni la controversia nei confronti di Gianluigi Colalucci era all’apice, capeggiata principalmente da James Beck, che sbandierava l’antica tecnica del “buon fresco”, secondo lui tradita da Colalucci, e poneva in primo piano l’aggressività di alcuni impacchi da lui azzardati impiegando il solvente AB-57. Baldi concluse il suo ragionamento con una battuta che, a memoria, pressappoco diceva: se qualcuno ha passato la vita ad esaltare le cupe tonalità michelangiolesche, che vuoi che dica dei colori squillanti riportati in luce da Colalucci? Risposi e ancora oggi risponderei: gli storici dell’arte dovrebbero essere più avvezzi a salire sui ponteggi.

Michelangelo Buonarroti, Volta della Cappella Sistina, Daniele, prima e dopo il restauro di Gianluigi Colalucci

Per quanto non si pensi, il restauro è prodigiosamente materico e ogni linea di principio teorico va inverata a trenta centimetri di distanza, scrutando la realtà delle superfici. Soltanto un conoscitore esperto dell’opera d’arte, in mancanza di documenti diretti, può prendere decisioni delicatissime, quanto pericolose. In tal senso si esprime anche Antonio Forcellino nel corso della sua conversazione con Eleonora. James Beck lo aveva contattato chiedendogli di sottoscrivere un’invettiva contro Colalucci. La sua risposta affermativa non era affatto scontata, perché Forcellino si schierò dalla parte di Colalucci. «Io penso che quello sia stato un lavoro straordinario, lui aveva cambiato l’immagine di Michelangelo e questo non glielo perdonarono». Aveva cambiato una immagine stereotipata e apparentemente inamovibile. «Colalucci ha fatto un lavoro straordinario, è riuscito a tenere sotto controllo un restauro di quella levatura, e tale capacità richiama l’idea del restauro come un processo critico intellettuale, fondamentale, che viene sempre misconosciuto perché si parla di restauro scientifico, di tecnica, di applicazione della procedura che era studiata o sperimentata, ma questo restauro era un’altra cosa: era il saper tenere sotto controllo il risultato di centinaia di metri quadrati».

Forcellino assomma molte competenze per potere esprimere un suo parere con cognizione di causa: è un restauratore proveniente dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (ISCR), uno storico dell’arte, uno scrittore. È anche un architetto, che ha avuto il privilegio di formarsi con Frommel, Urbani, Marconi. Erano gli stessi anni in cui anche io andavo costruendo l’impalcatura di una professione rigorosa. Le lezioni di storia dell’architettura e di storia della critica d’arte tenute da Paolo Marconi, la frequentazione della biblioteca e dei convegni all’Accademia di San Luca, hanno permesso a me, a Forcellino, a noi studenti tutti, di affrontare la ricerca scientifica e la direzione di cantiere in un modo del tutto differente dalla maggior parte dei colleghi incontrati nel corso della professione. Forcellino è l’esempio lampante di tutto ciò: «Quando ero di fronte al Mosé io vedevo una statua che aveva delle evidenti incongruenze, invece gli storici dell’arte per secoli sono andati di fronte alla statua e hanno visto ciò che gli altri avevano scritto, questa è la differenza sostanziale».

Urgeva, quindi, una rilettura filologica condotta attraverso la ricerca dei documenti storici, del contesto in cui l’opera era stata generata. Oggi è possibile, attraverso l’interazione con le banche dati mondiali, confrontare lo stile di un artista con le altre opere della sua stessa produzione e col clima intellettuale riscontrabile fra i suoi contemporanei. Nondimeno, secondo Forcellino il problema che si pone oggi all’attenzione consiste nella progressiva cancellazione della connoisseurship in ambito storico-artistico, e questo esclusivamente per non mettere in discussione molti assunti della tradizione critica. Chi si occupa d’arte sa bene quanto sia vero. Basti ricordare le innumerevoli ed erronee attribuzioni di antica data. Ad esempio, nel Camposanto di Pisa – dove Eleonora è stata impegnata nel restauro di vari affreschi – tre storie del Beato Ranieri a lungo furono attribuite a Simone Martini, ma è grazie a Giovan Battista Cavalcaselle se oggi i tre dipinti sono riconosciuti come opere del domenicano Andrea di Bonaiuto.

Michelangelo Buonarroti, Mosè, Tomba di Giulio II – Restauro di Antonio Forcellino

Forcellino è nominato nella seconda parte del volume per il restauro del Mosè di Michelangelo in San Pietro in Vincoli a Roma, opera principale del complesso marmoreo della tomba di Giulio II. Alla domanda di Eleonora se lo abbiano mai attaccato per il lavoro svolto, Forcellino risponde che il tentato assalto è stato sferrato solo per essersi azzardato ad uscire dal recinto. Quale recinto? Quello esistente fra restauratori e storici dell’arte. Come affrontare la carica? All’epoca Forcellino ne “uscì vivo” grazie a Christoph Luitpold Frommel, forse il maggiore studioso della scultura di Michelangelo, che organizzò un seminario internazionale e aprì il dibattito. In modo esemplare Colalucci lo fece, invece, grazie alla determinazione e alla pacatezza con le quali ha sempre portato avanti teorie e convinzioni. In altre parole, il segreto è possedere una salda coscienza della propria identità, sapendo comprendere il limite che la distingue dalle alterità.

Oltre a quelle citate, ulteriori deplorazioni troviamo in questo stimolante libro di Eleonora, che pur manifestandone i punti di frizione non contrappone in modo assoluto restauratori e storici dell’arte. Tant’è che lei stessa, con spiccato equilibrio editoriale, affida la prefazione del suo volume proprio ad uno storico dell’arte come Claudio Strinati, fra i più conosciuti e seguiti per la limpidezza di idee persino dal pubblico non specialista. Il famoso critico, quasi a conclusione del suo brano, asserisce francamente: «Questo libro è destinato ad affiancarsi degnamente e autorevolmente sia ai trattati teoretici consacrati cui apporta comunque contributi di nuove idee e nuove conoscenze; sia ai testi storici anch’essi ormai divenuti veri e propri classici che ripercorrono la vicenda del restauro in Italia e sono sovente la migliore base su cui orientare la ricerca».

Claudio Strinati, storico dell’arte

A proposito di deplorazioni, sin dalle prime battute, Strinati non può non sottolineare quella che corre unanime in tutte le interviste. I restauratori di opere d’arte lamentano lo strapotere delle imprese afferenti all’imprenditoria edile. Sotto accusa è il codice degli appalti, che individua macrocategorie e sottocategorie a seconda del settore di riferimento. Per evidenti ragioni, il maggiore raggio d’azione garantisce le ditte edilizie da eventuali perdite finanziarie, al contrario dei restauratori che agiscono soltanto su opere il cui importo dei lavori è limitato e finalizzato quasi unicamente al recupero artistico. Se questa preminenza delle ditte vale nell’intervento pubblico, a più forte ragione vale in ambito privato. Commenta Colalucci: «Se ci si trova di fronte a una superficie decorata dell’architettura, sia essa una di quelle presenti in qualche caseggiato medievale che abbia un finto bugnato dipinto a quadri o a triangoli, o che siano gli affreschi di Giotto, se tu non sei in grado di fare la differenza e capire che cosa hai sotto le tue mani, se non sei pienamente consapevole del valore aggiunto che ti viene richiesto in qualità di esperto conoscitore del settore, accade che chiunque si possa sentire idoneo a fare tutto».

La dimostrazione è sotto gli occhi di tutti. La prova è nei molteplici interventi sui prospetti architettonici dei centri storici, che il più delle volte non tengono affatto conto delle coloriture originali dei paramenti, figurarsi poi se considerano l’esatto disegno nella risarcitura di fregi a rilievo o di decorazioni pittoriche. Sia in esterni che negli interni, parlare di calchi, stratigrafie di colore, scialbi, è adoperare un lessico del tutto estraneo a chi disconosce il linguaggio della conservazione. La verità sta nel fatto che la concezione di patrimonio culturale, nella sua vera essenza, interessa soltanto a chi esercita il lavoro di recupero – quello sotto l’alta sorveglianza delle soprintendenze, per intenderci – ma basta uscire dagli ambiti per ritrovare persino fra i proprietari di edifici vincolati una incultura davvero allarmante.

«Questo totale abbandono e distacco – lamenta Eleonora nei confronti della committenza privata – si percepisce ormai troppo spesso soprattutto dal modo in cui le persone si approcciano all’arte e alla testimonianze che essa ci ha lasciato; non c’è più amore, quasi nessun rispetto…». In modo quasi liberatorio Carlo Giantomassi risponde di aver sempre evitato di lavorare con i privati: «Avevamo contatti con tutti i sovrintendenti e storici dell’arte, soprattutto storici dell’arte, raramente architetti perché hanno sempre questa cultura dell’impresa, tranne qualche eccezione». È sicuramente una scelta decisa e congruente; ma non è l’unica, perché vi si può contrapporre la scelta, altrettanto legittima, di Forcellino: «Da un certo momento in poi tutta la mia carriera è stata al servizio di committenti privati e di questo sono fierissimo e tutti coloro che continuano a sbraitare sul buon funzionamento della pubblica amministrazione riguardo ai beni culturali non sanno di che parlano quando cantano le virtù delle sovrintendenze, perché evidentemente non sono mai stati al loro interno». Tutto ciò a dimostrazione che l’esercizio di una professione può seguire indirizzi del tutto differenti, ma il denominatore comune rimane il carattere intrinseco del “professare” – quindi manifestare, palesare, esercitare – un’idea colta, elevata, quale conseguenza di lunghi studi e applicazioni.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Giuditta e Oloferne
Restauro di Carlo Giantomassi e Donatella Zari

Carlo Giantomassi e Donatella Zari, compagni nel lavoro e nella vita, non si sono mai limitati al semplice restauro, ma hanno sempre cercato di studiare l’opera d’arte per capirla e restituirla nella sua integrità. Nel libro sono menzionati per il restauro di Giuditta e Oloferne di Caravaggio, conservato nella capitale a Palazzo Barberini. Ma numerosi sono gli interventi realizzati nelle grandi località d’arte italiane come Assisi, Padova, Pisa o all’estero. «Quando lavoravamo fuori Roma – precisa Giantomassi – mentre gli altri tornavano a casa durante il weekend, noi rimanevamo per poter discutere e definire tutto il lavoro della settimana successiva senza interferenze da parte di altri». A ben considerare, ogni processo è la conseguenza di valutazioni e scelte, il più delle volte aderenti alla manualistica corrente, altre volte risultato di nuove prove da fronteggiare.

Eleonora, nel corso delle sue conversazioni, pone l’accento sulla necessità di una competenza pratica oltre che teorica, che sono le due componenti fondamentali per essere un professionista completo. Giantomassi non può che condividere il suo punto di vista: «Non ti concentravi solo sulla tecnica, quella ovviamente c’era, ma non era la prima cosa, entravi dentro l’opera a 360°…». L’afflato che sottende questi discorsi, convinti e convincenti, è l’effetto di un impegno svolto con passione: «Per esempio siamo stati a Kabul abbiamo ricostruito i frammenti delle sculture che i talebani avevano preso a martellate, alla fine circa il 95% dei frammenti siamo riusciti a ricostruirli… Questo perché ci appassionò farlo».

Occorre naturalmente poter fare affidamento su di una preparazione a tutto tondo che, tuttavia, appare carente nel bagaglio delle giovani generazioni, instradate verso un restauro sicuramente più scientifico, grazie all’apporto delle nuove tecnologie, ma per converso anche più limitativo e settoriale. «Oggi invece – chiosa Giantomassi – tutto è ormai specializzazione, forse un po’ troppo, noi abbiamo restaurato mosaici, materiali lapidei, affreschi, tempere, dipinti su tela e su tavola, un po’ di tutto, tranne metalli o ceramiche perché erano materiali che riguardavano il campo dell’archeologia». Come sempre occorre la giusta misura. La specializzazione non dovrebbe inficiare lo sguardo d’insieme, ma sembra che il sistema preferisca formare “restauratori incompleti”: c’è chi opera soltanto stuccature o descialbi e chi ritocchi pittorici, cosicché gli uni spesso trovano difficoltà ad eseguire il lavoro degli altri. Una sorta di pratica “imprenditoriale” dettata da una mera questione di soldi, una di catena di montaggio per abbattere i costi, anche dinanzi alle grandi opere del nostro immenso patrimonio artistico.

Piero della Francesca, Madonna del parto – Restauro di Guido Botticelli

La conversazione con Guido Botticelli si discosta dallo schema di domande e risposte adottato nella prima parte del libro. Ne risulta l’avvincente racconto di una vita. Il diploma iniziale alla scuola d’arte in ceramica. Lo studio di giorno e il lavoro di sera, per via delle ristrettezze economiche. L’approdo come apprendista al laboratorio di restauro del prof. Dino Dini. Per quanto sia tentato non mi soffermerò oltre – lasciandovi tutto il piacere della lettura – ma accennerò qualcosa su ciò che Botticelli afferma di avere imparato con l’andare del tempo: «Ho sempre avuto questa idea: puoi fare il restauratore o l’improvvisatore; l’improvvisatore è quello che fa soldi, il restauratore quello che se li suda». Poi ci sono coloro che si atteggiano a storici dell’arte ma non sanno spiegare il lavoro che hanno fatto: «Non so se pensare a superficialità o ad incompetenza». Botticelli è invece un maestro: non c’è studente che non abbia letto il suo libro: “Metodologia di restauro delle opere murali”. Una metodologia appresa in mille occasioni: dialogando a fine lavoro coi colleghi o affrontando la disastrosa alluvione del 4 novembre del 1966: «L’alluvione di Firenze ha cambiato tutto: ha aperto il rapporto con la scienza, ha richiesto un dialogo ancora più serrato con altri colleghi e con gli storici, ha creato i presupposti per sviluppi fino all’ora impensati nelle tecniche e nei materiali, ma tutto ha potuto avere luogo grazie al confronto e alla piena collaborazione tra le figure fondamentali nel restauro». In una parola: interdisciplinarità. Oggi, al contrario, sembra che ognuno sappia fare da sé e che le analisi scientifiche possano fornire sempre soluzioni sicure.

Eppure, per quante analisi siano prodotte, per quanti pareri si possano ascoltare, ci sarà sempre un momento in cui occorrerà assumersi la responsabilità di prendere la decisione giusta. Per attuare tutto ciò occorre sapere valutare la realtà per quella che è, afferma Botticelli: toccare con mano le problematiche, confrontare soluzioni, riconoscere i propri errori, manifestare le critiche necessarie: «Questo è stato sempre il mio modo di affrontare il mestiere come anche l’insegnamento: dire le cose senza nascondersi e mettersi sempre in gioco a scapito, a volte, di un po’ più di diplomazia». Ecco perché analizzare il passato, non solo attraverso gli studi teorici, ma attraverso la responsabilità del cantiere, può aiutarci a migliorare.

Gli esempi si susseguono, gli aspetti sono sviscerati, le indicazioni si fanno sempre più suadenti. Il racconto di Botticelli riassume e rilancia quello dei suoi amici e colleghi che Eleonora ha raccolto in queste sue pagine. Sono il frutto maturo delle esperienze. Per cui, lascerei concludere a Guido Botticelli questo mio lungo pezzo scritto per una rivista che, non a caso, si chiama Experiences: «Queste mie parole possono apparire pesanti, ma queste esperienze le ho vissute fino ad oggi in prima persona e voglio essere, con questa mia testimonianza, non solo uno stimolo per molti ma anche un elemento di disturbo che faccia in qualche modo riflettere e arrabbiare qualcuno: se ciò serve a scuotere le coscienze, in primis quelle degli operatori del settore, questa intervista non sarà stata inutile».


INSERTO FOTOGRAFICO


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