La lavorazione della pietra in Molise ha radici antichissime; si pensa che strutture e oggetti in pietra venivano realizzati primariamente per garantire la sicurezza e la sopravvivenza delle popolazioni. In alcuni centri della regione si possono rinvenire interi centri abitati costruiti in pietra, così come è facile imbattersi in bellissimi esempi di elementi architettonici e decorativi quali capitelli e statue. Un tempo, quando le condizioni di trasporto erano ancora molto difficoltose a causa delle distanze territoriali, lo scalpellino andava alla ricerca della materia prima da lavorare e la scolpiva in loco, senza portarla presso la sua bottega, risparmiando così tempo e fatica. Lavorare la pietra è, oggi come allora, un’attività che richiede pazienza e attenzione, così come estro e fantasia.
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Da sempre, in quei contesti urbani investiti da forti trasformazioni e sviluppo economico, convivono due ‘tipi’ di città, una formale e una informale. Questo succede oggi nei paesi del terzo mondo che sono investiti da una crescita economica accelerata, a cui non riescono dare risposte immediate. La città informale si insedia nel tessuto urbano in maniera disordinata e abusiva, non permettendo ai suoi abitanti di accedere ai servizi di prima necessità. I confini delle città cambiano a seconda delle epoche storiche e delle necessità economiche contingenti. Accade che gli abitanti di queste due città si incrociano, si sfiorano, si guardano: sono in contatto senza vedersi. Le persone facenti parte della città informale non hanno voce nella vita formale. Queste persone sono solo o un numero, o una statistica, o una pura cronaca giornalistica. Come risposta a tutto ciò ci addentriamo nel tema dell’architettura e dell’inclusione sociale, tentando di trovare una soluzione reale a questo problema.
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La produzione di ceramiche artistiche nella provincia di Reggio Calabria e, più in generale, nell’intera Regione, costituisce una delle tradizioni locali più antiche e fiorenti; grazie alla tenacia di abili maestri ceramisti, da un lato, e all’intraprendenza di giovani capaci, dall’altro, è giunto, sino ai nostri giorni, uno di quegli antichi mestieri le cui origini, tecniche e tradizioni, tramandate di padre in figlio, risalgono ad un lontano passato. Più in generale, i primi manufatti in terracotta derivano dal periodo neolitico e sono stati rinvenuti in Giappone; altri antichi centri di lavorazione dell’argilla sono stati la Siria, la Mesopotamia, la Cina e l’antica Grecia. Com’è facilmente intuibile, quest’ultima zona geografica ha prodotto una notevole influenza su tutto il bacino del Mediterraneo, compresa la Calabria.
In Calabria, i principali centri di produzione artigianale della ceramica ricadono nella provincia di Reggio Calabria ed, in particolare, nei comuni di Seminara, Gerace, Bagnara Calabra e nei territori limitrofi, nonché nel comune capoluogo. La produzione tradizionale si ritrova anche nei comuni di Squillace (Cosenza) e Gerocarne (Vibo Valentia). E’ importante evidenziare che la maggior parte dei ceramisti calabresi, grazie all’apprezzamento e alla preservazione delle antiche tecniche di lavorazione della ceramica, è riuscita a perpetrare un’arte particolare e tipica, caratterizzata da numerosi manufatti di gusto popolare, apprezzati e spesso investiti da una serie di simbolismi e ritualità.
Ascoltiamo l’intervento di Luca Mazzucchelli, vicepresidente dell’Ordine Psicologi della Lombardia, Direttore della rivista “Psicologia Contemporanea”, psicologo e psicoterapeuta. Mazzucchelli ha fondato il Canale Youtube “Parliamo di Psicologia”, che è partner ufficiale di YouTube, e ha dato vita assieme ai colleghi dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia alla “Casa della Psicologia”, che ha sede in Piazza Castello a Milano ed un importante punto di incontro tra la psicologia e i non addetti ai lavori.
In occasione del Maggio dei libri 2019, sarà presentato martedì 28 maggio, nella sala Palumbo del Palacultura di Messina, l’ultimo lavoro di Giovanni Molonia, storico, che nel corso della propria vita con grande dedizione ed amore ha raccolto le memorie di una città meritevole di essere annoverata fra le grandi capitali meridionali. Il libro di cui Molonia, recentemente scomparso, ha curato la ristampa anastatica, per i tipi della Di Nicolò edizioni, arricchisce le importanti collezioni librarie dell’Archivio Storico del Comune di cui lo studioso era consulente. Il prezioso volumetto opera di Nicolò Maria Sclavo s’intitola: Amore ed ossequio di Messina in solennizzare l’acclamazione di Filippo Quinto Borbone gran monarca delle Spagne e delle Due Sicilie. Descritti e presentati a Sua Cattolica Maesta da Nicolo Maria Schiavo protopapa del clero greco di Messina, Messina, Vincenzo D’Amico, 1701. Alla presentazione interverranno gli studiosi: Gioacchino Barbera, Carmelo Micalizzi, Tommaso Manfredi, Grazia Musolino.
L’Opera dei Pupi siciliana (Opra) è uno spettacolo caratteristico teatrale in cui le marionette, animate dai “pupari”, rappresentano le gesta dei più grandi eroi medievali che lottarono per la cristianità contro i saraceni. In particolare, il tema più ricorrente dell’Opra fu lo scontro fra i paladini di Carlo Magno e i guerrieri musulmani che, occupata la penisola iberica, rappresentavano una vera minaccia per il regno franco e per l’intera Europa cristiana. Secondo la tradizione storiografica il teatro delle marionette a soggetto cavalleresco, era già noto in Spagna nel 500, fu introdotto in Francia nel XVII sec. e diffuso in Italia (Sicilia) dalla città di Napoli nei primi decenni dell’800. Nell’isola, esso acquisì rapidamente caratteristiche specifiche che fecero ben distinguere l’Opera dei Pupi dalla generica arte delle marionette. I Pupi siciliani vennero infatti rivestiti con elaborate armature di metallo ed il filo direzionale della mano destra fu sostituito da un’asta di ferro, più adatta a far compiere alla marionetta movimenti diretti e precisi, specialmente durante i combattimenti e i duelli.
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Attraverso la diffusa regola dei terzi -una griglia immaginaria che divide lo spazio rettangolare in nove quadrati uguali- la sezione e la spirale aurea è possibile creare immagini che sono tutt’altro che statiche determinando in tal modo un interesse per l’occhio. (lucecosmica)
IMMAGINE DI APERTURA – Illustrazione di freeillustrated su Pixabay
Parliamo spesso di cultural heritage, l’eredità culturale che dal passato si trasmette alle generazioni future. Una eredità tangibile o intangibile. L’elenco sarebbe lungo: dalla lingua all’alimentazione, dai costumi alle tradizioni, dall’artigianato alle arti. Una eredità storica che permette di raccontare l’essenza dell’uomo. Scriveva Lucien Febvre, nel 1949: «La storia si fa con i documenti scritti, certamente. Quando esistono. Ma la si può fare, la si deve fare senza documenti scritti se non ce ne sono. Con tutto ciò che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per produrre il suo miele se gli mancano i fiori consueti. Quindi con delle parole. Dei segni. Dei paesaggi e delle tegole. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietre fatte dai geologi e con le analisi di metalli fatte dai chimici. Insomma, con tutto ciò che, appartenendo all’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, dimostra la presenza, l’attività, i gusti e i modi di essere dell’uomo».
Parliamo spesso di eredità culturale, dunque, ma facciamo fatica ad afferrarne il significato intrinseco. Non accadeva nei tempi passati, quando si parlava meno e si agiva di più. Una quantità di chiese medievali del nostro territorio, dall’originario corpo unico sono state portate a tre e persino a cinque navate. Oggi sarebbe scandaloso. La maggior parte sono sorte in epoca romanica col contributo di generazioni di fedeli che, di secolo in secolo, con le proprie offerte le hanno completate nelle murature e arricchite nelle decorazioni. I prospetti e i sagrati sono edificazioni perlopiù ottocentesche. Non solo i luoghi di culto, ma tutte le architetture di quelli che oggi chiamiamo “centri storici” sono state modificate e a loro volta hanno modificato il tessuto urbano connettivo. Ieri, erano borghi palpitanti di vita. Oggi, per salvaguardarli, dovremmo considerarli alla stregua di musei permanenti a cielo aperto. Un’eredità culturale intoccabile, da conservare e da proteggere, perennemente sottoposta ai pericoli del degrado.
Il ragionamento vale dalla scala urbana a quella degli oggetti. Sono pezzi unici e impagabili, per ricchezza artistica o consistenza documentaria; nelle teche di vetro fanno mostra delle epoche passate. Solo gli esperti possono sfiorare questi oggetti, ma con grande precauzione. Lo stuolo dei visitatori li può solo ammirare; alcuni di essi, li venerano come icone santissime. Oggi, però, non si costruiscono più musei a immagine dei grandi templi nazionalistici della civiltà, come il Louvre, il British, il Metropolitan. Al contrario, troviamo un po’ d’ovunque piccoli musei di cultura materiale: in abbazie, castelli, case di campagna e fattorie, miniere di sale o di carbone, magazzini e prigioni. C’è persino chi, come lo scrittore turco Orhan Pamuk, con il suo “Museo dell’Innocenza” a Istanbul, afferma la necessità di nuovi musei, che attraverso oggetti modesti «onorino i quartieri e le strade e le case e i negozi nelle vicinanze, e li trasformino in elementi delle loro mostre». Questi oggetti tramutano la realtà del vivere quotidiano in museo dell’esistenza umana. Una tale visione sconcerta i benpensanti, ancorati al pregio artistico; ma mette in gioco, e forse riesce a chiarire, le idee confuse sull’eredità culturale di cui stiamo parlando. Così come è comunemente inteso, questo patrimonio ereditato dal passato rispecchia la memoria dei morti piuttosto che quella dei vivi. In realtà occorrerebbe congelare il tempo scisso nelle dimensioni antitetiche di passato e presente, per considerarlo, invece, una continuità mutevole. Il passato fluisce nel presente senza alcuna interruzione, rendendo l’eredità culturale sempre viva.
Per comprendere appieno la differenza fra il patrimonio dei morti e quello dei vivi, basterebbe un semplice esempio. Pamuk assicura che i musei sono nelle nostre case, quindi l’esempio è volutamente impostato proprio su degli oggetti comuni, apparentemente senza qualità. Il portafogli di un parente scomparso è custodito per richiamarne la memoria. Perché non si è conservato nella stessa maniera il contante che vi era contenuto? Perché non si sono disposte sotto vetro banconote e monete in corso, come faremmo con qualsiasi altro oggetto personale appartenuto a quel parente particolarmente caro: l’orologio da taschino del nonno, il cestino da cucito della nonna, lo scatto sbiadito che li ritrae nel giorno delle nozze o attorniati dai nipoti. L’argenteria ereditata viene esibita in vetrina, ma il conto bancario è riscosso. Le cianfrusaglie sono finite in cantina, i beni preziosi invece venduti o impiegati o investiti. In alcuni casi, il patrimonio non è disperso, come nell’antica legge sul maggiorascato; in altri, il patrimonio è inalienabile, come per i beni sottoposti a tutela.
L’esempio, di sicuro stravagante, è la raffigurazione tangibile di come la concezione del valore sia sovente enigmatica. Una eredità familiare dimostra il legame tra chi è scomparso e chi rimane; è da considerarsi viva, perché si trasmette di persona in persona, produce effetti e si trasforma in nuova vita. È il medesimo legame espresso dalle eredità collettive, come nell’esempio delle chiese romaniche, in epoca storica patrimonio di una comunità che utilizzava la ricchezza comune, la conservava, la proteggeva, e nel caso la modificava per rispondere alle rinnovate esigenze. Il valore del bene rispondeva a una utilità sociale condivisa da tutti. A dimostrazione che l’eredità culturale non era frutto della schizofrenia identitaria di oggi. In passato, seppure in presenza di forti disuguaglianze – una ristretta élite colta e una massa largamente analfabeta – il senso di appartenenza, di generazione in generazione, era elemento fondamentale nella trasmissione e nella salvaguardia del bene ereditato. (>>> Continua).
Il Gorgonzola è un formaggio molto antico, ma la sua origine è velata di un alone leggendario: F. Massara, antico scrittore di cronache, pensava che il gorgonzola dovesse considerarsi un perfezionamento di quel cacio che Ansperto da Biassono, arcivescovo di Milano dall’868 all’881, menzionò nel suo testamento. Altri affermano che il gorgonzola sarebbe stato fatto per la prima volta nella località omonima nell’anno di grazia 879. Altri ancora dicono invece che la nascita avrebbe avuto luogo a Pasturo, nella Valsassina, grande centro caseario da secoli, grazie alla presenza di quelle ottime grotte naturali la cui temperatura media è costante tra i 6 ed i 12 °C, e ne consente la perfetta riuscita. Un’altra ipotesi vede una nascita del gorgonzola più folcloristica: in un autunno tra il VIII e il IX secolo, dei mandriani di ritorno dalle malghe alpine fecero una sosta a Gorgonzola. Uno di loro aveva dimenticato gli strumenti per lavorare il latte e farne crescenza o quartirolo, così lasciò la cagliata in un recipiente e la unì a quella del mattino, ma l’unione delle due paste aveva creato il Gorgonzola.
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La ville italienne semble fi gée dans un idéal passéiste, muséifiée pour sembler éternelle. Mais l’éternité n’est-elle pas un gage d’échec si l’on souhaite intégrer la ville dans les composantes de l’urbanité du XXIème siècle ? Venise semble être l’exemple parfait de cette mort progressive de la ville idéalement protegée. La protection du patrimoine, si complexe en Italie, n’est pourtant pas un gage de cristallisation de la ville ancienne. Cependant comment concilier modernité et patrimoine dans ces villes italiennes si atypiques ? D’autres villes italiennes comme Rome ou encore Gênes ont su adapter leur centre-ville historique aux ambitions de la ville contemporaine, tout en assurant une pérénnité au patrimoine ancien.Ce mémoire se veut être un portait de la ville ancienne au XXIème, à l’heure où le futur de celle-ci reste incertain mais pour laquelle il va falloir trouver des solutions viables pour reconstruire la ville sur elle-même.
IMMAGINE DI APERTURA – Genova: il bigo di Renzo Piano, foto tratta da pag. 4 del libro.
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