Antichi mestieri nella cultura fotografica italiana

 

Un breve viaggio per immagini nella vita quotidiana, nelle tradizioni e nei costumi dell’Italia del passato. Un percorso che oggi forse ci stupisce e ci fa sorridere, ma che è testimone delle radici culturali e ricco di spunti per il presente ed il futuro. Spesso è incentrato sulla strada. La strada era come una casa e come un laboratorio artigianale che ospitava tutti, dal venditore di pasta al parrucchiere, dal ciabattino, allo scrivano. Non mancava neppure chi vendeva il latte fresco. Osserviamo gli antichi mestieri nelle foto in bianco e nero ed anche “a colori”. Le immagini originali sono state ritoccate a mano dagli stessi fotografi o dai loro collaboratori. All’epoca non esisteva la fotografia a colori e, con un po’ di estro artistico, i fotografi, come i miniatori dei codici antichi, dipingevano le proprie fotografie per renderle più belle e per evidenziare particolari.

 

I mille condimenti della pasta: agrodolce o sughi in bianco

 

PASTA IN AGRODOLCE
Se attualmente la distinzione tra dolce e salato è molta, così non lo era nel Cinquecento, quando non esisteva il concetto stesso di dessert. Infatti, piatti dolci e salati venivano offerti indistintamente, spesso con abbinamenti agrodolci. Ad esempio, era utilizzata molto la cannella. In ogni caso, il Rinascimento, a livello gastronomico, si segnala per il grande uso dello zucchero. Cosa che si rileva anche nelle preparazioni di cuochi del periodo, come Scappi e Romoli.

SALSE E SUGHI IN BIANCO
Per creare delle salse per la pastasciutta non si è aspettato l’arrivo del pomodoro. Esisteva, ad esempio, la salsa di noci, presente in diverse regioni. Nel parmense, in particolare, per il pranzo di Natale, era tradizione offrire pasta condita con ricotta e noci. Ad essa si accoppiava una pasta, i pegai, sul tipo dei Maltagliati fatti a mano, con un impasto preparato con farina di grano e di castagne. Esisteva, nel XVI secolo, una agliata fatta una miscela di noci, pane ammollato nell’acqua tiepida, aglio e pepe, con un’ulteriore aggiunta di salsa di erbe aromatiche e mollica di pane. Nel testo di Guglielmino da Prato sono presentate parecchie ricette di pasta. Tra queste se ne evidenziano alcune, proprie della cucina piemontese. Infatti, la salsa per il condimento delle lasagne è realizzata con sangue fresco di lepre. Nel corso dei secoli, le ricette regionali si moltiplicano. Da testi del XIX secolo, si apprende il grande numero di salse, sughi e intingoli vari, assommatisi. Tra questi il Pesto ed i sughi di pomodoro, affollano il menù, caratterizzandolo.

 

I mille condimenti della pasta: il formaggio

 

Le modalità di preparazione di un buon piatto di pasta sono infinite come i condimenti con cui è presentata. Dal sugo di pomodoro, alle verdure, pesce e carne di vario tipo, spezie e tant’altro. Le varianti regionali, dai gusti più delicati, al nero di seppia, ai gusti più decisi o raffinati della preparazione dei migliori chef. Tutto concorre a dare alla pasta quell’originalità sempre nuova e diversa, che la contraddistingue.
La sua storia è anche quella dei suoi condimenti, popolari o aristocratici che siano. Si comincia con il formaggio, per passare ai sapori agrodolci, con zucchero e cannella aggiunti, la delicatezza del burro e della panna, poi la freschezza del basilico, per arrivare, infine, al gusto aspro del pomodoro, tanto disprezzato e così popolare. Mille sono le ricette come mille sono i suoi colori.

IL FORMAGGIO
Il primo dei condimenti della pasta nel medioevo fu il formaggio. L’abbinamento era talmente scontato, che nell’immaginario paese di Bengodi vi era una montagna fatta tutta da maccheroni e ravioli, appena scolati, ricoperti da abbondante parmigiano grattugiato. La coppia pasta e formaggio, appare, comunque, per la prima volta, nel 1284, in uno scritto di Salimbene da Parma, che narra di un certo Giovanni da Ravenna, mangiatore di lasagne spruzzate di formaggio grattugiato. Il piatto rientra pure tra le ricette presenti nel primo celebre libro di cucina del medioevo, intitolato “Liber de coquina”. La portata, inoltre, veniva ulteriormente insaporita dall’aggiunta di varie spezie, secondo i gusti, com’era uso nel medioevo.
Nel Cinquecento, l’insieme, pasta e formaggio, viene nelle Corti reso più dolce con lo zucchero. Contemporaneamente nelle locande si serve la pasta con formaggio, cannella e pepe (da una descrizione di padre Labat). Successivamente, a Casanova, prigioniero nel carcere di Venezia, viene servito un piatto di pasta, formaggio e burro. La stessa ricetta veniva servita, nel ‘700, a Napoli, dove, però, il burro veniva sostituito con strutto di maiale, sotto forma di minestra. L’abbinamento è lodato, inoltre, da Grimod de la Reynière, che scrive: ”Da questa attrazione risulta una Minestra davvero gradevole”.
Spesso, al parmigiano veniva sostituito il caciocavallo grattugiato. Nel secolo seguente, poco dopo l’Unità d’Italia, nel mezzogiorno, è confermato l’utilizzo di caciocavallo, per la popolazione più umile (riportato da David Silvagni). Con l’apparire, invece, delle classi piccolo borghesi, sulle tavole delle famiglie benestanti, vengono introdotte salse nel consumo della pasta. Le nuove abitudini differiscono da quelle delle classi aristocratiche.

 

Si afferma in Italia la cottura “al dente” della pasta

 

Fino alla metà del XIX secolo, per la pasta si prosegue con una cottura in acqua e una stufatura. Cambiando, però, gli stili, si ottengono più pareri. I francesi iniziano a criticare la cottura all’italiana, ritenuta insufficiente, mentre in Francia la pasta continua ad essere stracotta. Dall’altro lato vi è la cottura alla napoletana, più “vierd”, cioè non eccessiva. A Napoli, infatti, prevale il gusto dei “maccaronari”, cioè di quei popolani che vendevano per le strade pasta calda e fumante, per poche lire. A qualsiasi ora del giorno poteva essere chiesto un piatto di pasta. In ore particolari, affollate di molta gente, per servire tutti, la cottura doveva essere la più veloce possibile. Il maccaronaro tendeva, quindi, ad abbreviare i tempi di cottura e di servizio. Ne usciva una pasta in tutta la sua freschezza, soda e con nerbo.
Il gusto di questi maccheronari viene assunto dalle classi borghesi. A fare la differenza è la qualità del prodotto, preparato con semola di grano duro e ben lavorato ed essiccato.

Le classi nobili erano abituate alla consumazione di pasta fresca, dal gusto morbido e raffinato, fatto di minestre, creme e salse speciali. Il popolo, invece, guardava alla sostanza. La società napoletana mutuò l’uso delle cotture brevi. Difatti, se da una parte Latini non approfondisce la problematica della cottura, più tardi, al contrario nel 1839 Ippolito Cavalcanti sul suo testo de Cucina teorico-pratica, consiglierà una cottura veloce della pasta. All’unificazione italiana, la maniera napoletana si diffuse in tutto il paese, finché, in una pubblicazione divenuta la Bibbia della gastronomia, Artusi editerà il suo famoso libro di cucina, dove confermerà la maniera di cuocere la pasta in tempi brevi, lasciandola “crudetta”.

 

Cottura della pasta? Il tempo necessario per due paternostri

 

La pasta, nel periodo medievale, era cotta principalmente nel brodo, che poteva essere di cappone o di carne. Sembra che in periodo quaresimale fosse cotta direttamente in acqua. Esistono documenti che ci parlano di pasta cotta nel latte. Si evidenziano, infatti, i “vermicelli cum lacte”.  La pasta si immergeva, anche allora, quando l’acqua era in fase di ebollizione. Ma è sui tempi di cottura che i dati non tornano. Alcuni manoscritti parlano di un’ora di cottura, altri di due ore. È d’obbligo diffidare di queste informazioni. Infatti, per quanto riguarda la pasta ripiena i dati cambiano. Martino consiglia di bollirli per il tempo necessario per dire due paternostri (altri quattro). I ravioli vanno cotti, comunque, lentamente, affinché non si rompano. La rapidità era consigliata per i ravioli “ignudi”. Il testo di Martino, con i dati riferiti, ci conferma la sua abilità e, soprattutto, il controllo sapiente di tutte le fasi di lavorazione di una buona pasta ripiena.

I dati, se confermati, proverebbero l’ipotesi che, al tempo, la pasta veniva gustata molto cotta, cioè “fondente”, per eliminare l’amido che conteneva. Un proverbio del tempo, infatti, recitava: “grosso come l’acqua dei maccheroni”. L’acqua di cottura, era senza sale, molta per quantità, torbida e collosa. A questo si aggiunge che all’epoca, grosso significava sciocco. Per cui il proverbio indicava una persona sciocca, che si lasciava abbindolare facilmente. Sembra che il significato del proverbio sia confermato nella Lettera in proverbi del Vignali, del 1557.
È comunque assodato che i tempi di cottura della pasta fossero lunghissimi. Il cuoco Martino suggeriva di cuocerla circa mezz’ora ”perché ogni pasta volle essere ben cotta”.
Questo accadeva, non solo per un problema di gusto, ma soprattutto, in campo medico. Si riteneva infatti che la pasta poco cotta procurasse costipazioni o la calcolosi renale. Un medico del XIII secolo, Arnaldi di Villanova, consigliava di “farla cuocere a lungo e servirla con molto latte di mandorle”. Tale modalità tecnica (della pasta scotta) rimase nell’usanza per alcuni secoli, per poi variare. Nei trattati di cucina del Rinascimento, la cottura non è precisata, ma dai testi si suppone sia la stessa del periodo medievale. Ma già Scappi, successivamente, consiglia mezz’ora (dimezzando i tempi) per una minestra di maccheroni alla romanesca. Terminata verrà posta sul piatto in tre strati, conditi con formaggio grattugiato, zucchero e cannella (quindi un gusto dolce). Dopo di ché, la pietanza andava stufata lentamente con il calore basso della cenere, per un’altra mezz’ora. Questa tecnica era utilizzata anche, nel XVII secolo, dai cuochi francesi.

La pasta “fondente”, cioè molto scotta, riportata anche da Romoli, inizia a variare con il XVII secolo, con una progressiva diminuzione dei tempi di cottura, allora così lunghi. Giovanni del Turco, musicista fiorentino, iniziò a rivedere le ricette del maestro Scappi. Parlando di cottura, il musicista, una volta cotta “a punto” la pasta, suggerisce di fermare l’ebollizione dell’acqua della pentola, con l’aggiunta di acqua fredda, per far rinvenire i maccheroni e renderli più corposi. Naturalmente, raccolse molte critiche dai grandi cuochi del tempo. La cottura della pasta, alla fine del XVII secolo, diventò una fase da migliorare. Gli chef si misero al lavoro, variando le modalità della cottura. Antonio Latini confeziona i suoi tagliolini di monica, cioè fatti nei conventi dalle suore. Sono cotti nel brodo, ma per breve tempo, essendo molto sottili. Nel Cuoco piemontese, libro del 1766, le tagliatelle fresche, invece, devono passare dall’acqua bollente velocemente all’acqua fredda. Condite con burro e formaggio grattugiato, indi gratinate al forno. Anche un altro cuoco, Francesco Chapusot, divide la cottura in due fasi. Per primo, le tagliatelle devono cuocere in acqua bollente, per 10 minuti circa, poi condite e, infine, mantecate sulla brace, per altri 10 minuti.