Bruno Arpaia – Il fantasma dei fatti

L’ossessione di un protagonista che ha lo stesso nome dell’autore si trasforma in una lunga indagine, e in un romanzo che intreccia i «fatti» con le zone oscure degli eventi, illuminate dall’immaginazione. Perché, come sostiene Sciascia, non sono tanto i fatti quanto «i fantasmi dei fatti» a costituire la vera materia della letteratura.

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Gustave Courbet – Funerale a Ornans

Funerale a Ornans, 1849-1850, Musée d’Orsay, Parigi

IL DIPINTO

Il Funerale a Ornans (Un enterrement à Ornans) è un dipinto a olio su tela di Gustave Courbet, realizzato nel 1849-1850 e conservato al Musée d’Orsay di Parigi. L’opera, iniziata nell’estate del 1849 e portata a compimento nel 1850, fu presentata da Courbet al Salon del 1850-1851 con il titolo di Tableau de figures humaines, histoire d’un enterrement à Ornans [Quadro di figure umane, narrazione di un funerale a Ornans]. L’opera suscitò aspre polemiche e espose l’artista all’incomprensione: a essere giudicate negativamente dai critici e dai contemporanei erano in particolare la volgarità dei personaggi, ritenuti privi di decoro, la trivialità dell’insieme e le dimensioni monumentali della tela.

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Courbet ritratto da Nadar

L’ARTISTA

Jean Désiré Gustave Courbet (Ornans, 10 giugno 1819 – La Tour-de-Peilz, 31 dicembre 1877) è stato un pittore francese. Conosciuto soprattutto per essere stato il più significativo esponente del movimento realista (e accreditato anche dell’invenzione del termine stesso), Courbet fu pittore di composizioni figurative, paesaggi terreni, marini e donne; si occupò anche di problematiche sociali, prendendosi a cuore le difficili condizioni di vita e lavoro dei contadini e dei poveri. Jean Désiré Gustave Courbet nacque il 10 giugno 1819 ad Ornans, cittadina nel cuore della Franca Contea, incastonata nel massiccio del Giura (vicino alla Svizzera). Era il figlio primogenito di Régis e Sylvie Oudot Courbet, una prospera famiglia di agricoltori proprietaria di un vasto patrimonio terriero; ebbe inoltre tre sorelle, Zoé, Zélie e Juliette. Per tutta la sua vita Courbet fu legato ai suoi familiari da un saldo vincolo affettivo, tanto da ritrarli diverse volte a fianco dei protagonisti delle sue composizioni; provò un’appassionata devozione anche per i suoi luoghi dell’infanzia, che spesso incluse nell’ambiente paesistico di diversi suoi quadri.

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WhatsApp? Facebook? Credetemi: è come incontrarsi nei vecchi bistrot di provincia

di Sergio Bertolami

Quando rifletto su quel che resta del giorno, mi sovviene il mio amico Camillo Marino che a Pier Paolo Pasolini confessava la «febbre che ti assale quando ti accorgi che la provincia rischia di strozzarti, di uccidere le tue migliori speranze». So cosa i due hanno fatto insieme (alla faccia dei piagnoni di provincia), ma ormai da tempo non posso più chiedere a Camillo cosa rispose Pasolini alla sua esternazione. Forse quello che rispose a Manlio Cancogni: «Quando un treno va a cento all’ora, tutti quelli che ci sono sopra vanno alla stessa velocità, anche se sono degli zoppi; se il treno come in Italia va a trenta, i passeggeri, per quanto facciano, non possono correre di più». A pensarci bene si potrebbe sempre cambiare treno, però. Si potrebbe raggiungere una stazione in cui passano le Freccerosse o le Freccebianche e provare a respirare aria nuova. Si potrebbe persino andare a vivere vicino a un aeroporto, anziché a una stazione, per stare con un piede a Parigi e con un altro a New York.

La realtà è però un’altra: molti lasciano la provincia, conservando il sogno di tornarci e finire qui il resto della vita. Quest’aria piccolo borghese della provincia, chiusa, condizionante sotto mille aspetti, che ti dà modo di lamentarti senza fare nient’altro di utile, pare calzare a pennello quando all’imbrunire vengono meno le inquietudini della gioventù e sembra appagante pure l’ambiente riparato di una stanza. È una fluttuazione tra claustrofobia e claustrofilia, tra l’oppressione dei luoghi angusti e il desiderio di stare appartati. Per alcuni, l’unica soluzione è isolarsi, come per Ireneo Funes in Borges, che può contare solo su di una prodigiosa memoria da quando la paralisi lo tiene chiuso nella sua camera. Oppure come Antoine Roquentin in Sartre, che perde goccia a goccia il suo passato di viaggiatore e rintanato in provincia continua a cenare al Ritrovo dei Ferrovieri e ad ascoltare sempre lo stesso disco: Some of These Days.

Accade così anche per molti personaggi nei romans-romans di George Simenon, quando descrive la sonnacchiosa provincia francese. Si ritrovano nei bistrot. Per la maggior parte quel rito segna la fine della giornata. Verso le cinque del pomeriggio il piccolo sarto Kachoudas va a bere uno o due bicchieri di bianco. Ci vanno anche il cappellaio Labbé e tanti altri. «La sala era gremita, c’era addirittura gente in piedi. I contadini più modesti si riunivano nei piccoli caffè attorno al mercato; lì invece venivano i più ricchi, o i più intraprendenti… Vicino alla Grosse Horloge, c’erano due caffè, dello stesso tipo del Café des Colonnes, con i soliti clienti che si facevano vedere a ore fisse e giocavano a carte, a tric trac o agli scacchi. Solo che non erano gli stessi gruppi: o si apparteneva all’uno o all’altro, e lui faceva parte di quello del Café des Colonnes».

A me, questi bistrot, ricordano molto i Social Network. I gruppi WhatsApp di oggi, con quel parlottio confuso e petulante. C’è uno che mi dà appuntamento su Instagram dove ogni sera terrà una diretta alle 23,30. Mi ricordano i gruppi che hanno scoperto i meeting con Skype, Zoom, Cisco. Quanti gruppi frequentate alla sera, smettendo col lavoro? Lo chiedo perché almeno, una volta, il signor Labbé s’infilava il pesante cappotto nero e uscendo ripeteva al commesso: «Chiuderà lei il negozio. Buonasera, Valentin». Ora, senza neppure muoversi dalla scrivania c’è chi colloquia in video con Massimo Cacciari. Come si fa a sottrarsi a tutto questo, mostrandosi sempre cortesi? Ho scritto a una amica, su Facebook (dove sennò?): «Cara Pina, grazie per la tua considerazione. Il fatto è che il mio impegno culturale non è più rivolto a Messina, se non marginalmente. È una città che non reagisce e mi piange il cuore, perché meriterebbe davvero quanto le persone dicono di amarla. Studio e scrivo in continuazione. Conto di pubblicare, ma molto rimarrà nel cassetto, perché mi pare che ben pochi siano affascinati da ciò che interessa me. Cosa? Leggere le fonti, spacchettarle, analizzarle. Sto diventando come Jean Floressas Des Esseintes, il protagonista di À rebours, il romanzo di Joris-Karl Huysmans. Io tuttavia non mi ritiro dalla società come fa Des Esseintes. Al contrario, vi partecipo col sorriso sulle labbra: annuisco alle buone intenzioni, incito a tradurle in realtà, ma oramai non credo che tutto ciò possa realizzarsi. Almeno in tempi brevi».

Questo vorrei rispondere a tutti. A tutti! A ben guardare la data, l’ho postato prima della pandemia ed ora lo confermo. A proposito di À rebours, Huysmans pensava di scrivere un libro ermetico che avrebbe stimolato solo una decina di persone, ma al contrario scoppiò come una granata. Non interessò affatto ad alcuni dei suoi illustri amici. Huysmans perse Zolà, ma conquistò Mallarmé e Valéry. Morto un papa se ne fa un altro.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Annalise Batista da Pixabay 

Roma: Campo de’ Fiori

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Campo de’ Fiori è una piazza di Roma, tra via dei Giubbonari e piazza della Cancelleria, ai confini dei rioni Parione e Regola. Fino al Quattrocento la piazza non esisteva in quanto tale, e al suo posto vi era un prato fiorito con alcuni orti coltivati, da cui il nome. Secondo una tradizione inattendibile, la piazza dovrebbe invece il suo nome a Flora (donna amata da Pompeo, il quale aveva costruito nei pressi il suo teatro). La piazza dette il nome al lungo asse viario noto nel secolo XV come Via Florea che collegava Sant’Angelo in Pescheria con il ponte S. Angelo, passando per le attuali via Portico di Ottavia, via dei Giubbonari (già Via Pelamantelli), Via del Pellegrino e via dei Banchi Vecchi. Lo stesso tragitto da via dei Giubbonari a via del Pellegrino assunse dal secolo XV anche il nome di via Mercatoria.

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IMMAGINE DI APERTURA – La statua di Giordano Bruno fulcro di Campo de’ Fiori (Fonte: Wikipedia)

Walter Tobagi: “Presi nella frenesia di ogni giorno, rischiamo d’inciampare nella memoria corta”

A distanza di tempo questo articolo pare ancora di attualità per ricordare i principi che muovevano chi, un tempo, partecipava alla politica, senza tessera di partito ma con le idee chiare. Provate a leggerlo anche voi e capirete dalle stesse parole di Walter Tobagi – ucciso dalle Brigate Rosse la mattina del 28 maggio 1980 – perché oggi la sinistra italiana ed europea, annegata nell’ideologia, fatica a trovare il proprio orizzonte politico al quale puntare attraverso una mirata organizzazione, pianificazione e strategia.

di Sergio Bertolami

Non ci crederete se vi dico che rammento esattamente quelle immagini trasmesse dal telegiornale quarant’anni fa. La mattina del 28 maggio 1980, il corpo di Walter Tobagi riparato con pietà da un lenzuolo bianco. Riverso a terra, sul ciglio del marciapiede, l’ombrello ancora chiuso poco distante da lui. Non immaginavo, allora, che a quel giornalista assassinato dai terroristi a soli 33 anni, avrei legato una parte della mia vita. Per questo vorrei richiamarmi a qualcosa riguardante più i miei ricordi che Tobagi, giacché del professionista, dell’intellettuale, del sindacalista alla guida dell’Associazione della stampa lombarda, oggi le pagine dei giornali sono piene. Di mestizia, fra sincerità e convenzioni. Vorrei, semplicemente e modestamente, raccontare della dedizione con la quale ho, in qualche modo, contribuito a tenere viva la sua memoria.

Cominciamo dal primo degli episodi che mi si affollano in mente. Un aereo, volando sopra un mare di nuvole bianche, dalla Sicilia mi porta a Milano. Sono atteso, per rapporti di lavoro, da una società di consulenze immobiliari. Tutti in piedi, attorno al grande tavolo delle riunioni; saluti, scambio di convenevoli e brochure. Chi mi presenta accenna: l’architetto è persona impegnata non solo nella progettazione; a Messina ricopre il ruolo di presidente del Centro Culturale Walter Tobagi. I presenti rimangono stupiti, vogliono che spieghi loro come mai dei siciliani, a distanza di oltre un decennio, ricordino un giornalista del Corriere della Sera. Ho illustrato, in pochi tratti, la disciplina e il lavoro tenace di chi, come Walter Tobagi, sapeva mettere in pericolo un ottuso sogno rivoluzionario, demolendo solo con le parole i principi della lotta armata. Il suo era, a mio avviso, il modo di agire che poteva cambiare il mondo: all’interno delle istituzioni, modificando i difetti di un capitalismo dimentico di ogni umanità. Non ho parlato, in quella stanza piena di luce e manager, di Owen, Fourier, Saint-Simon, insomma delle utopie urbanistiche nel XIX secolo che sempre mi sono state a cuore. E non ho parlato neppure di politica. Ho taciuto di Gennaro Acquaviva, che un giorno decise di fondare una rete italiana di Centri Culturali intitolati a Walter Tobagi. S’ispiravano all’opera di quel giornalista, socialista di idee ma senza tessera, riformista, cattolico. Ho incontrato Acquaviva a Palermo, anni dopo. A un convegno politico. Anche lui sbigottì quando, nel corso della pausa caffè, mi presentai. Esisteva ancora in Italia un Centro Tobagi, dopo che uno tsunami aveva azzerato il PSI craxiano? Pranzammo insieme e mi vide come un segno del destino. Pochi giorni prima, a Roma, si era recato da un notaio per rimettere insieme i cocci di quella iniziativa anni-Novanta, fondata su di un programma didattico-culturale che realizzasse scuole di formazione politica. In un’epoca, che sembra appartenere ormai ad un’altra galassia, quella era la risposta socialista alle scuole di formazione politica d’ispirazione cattolica sostenute dalla grande cultura gesuita. Ogni parte metteva in campo il meglio di sé. I democristiani, Pintacuda e Sorge. I socialisti schieravano, quali professori di primordine, Giuliano Amato, Salvo Andò, Giorgio Benvenuto e persino un religioso come Gianni Baget Bozzo. L’idea di Gennaro Acquaviva era valorizzare il cattolicesimo sociale aggregandolo al riformismo liberal-socialista. Non era stato proprio lui che, nel 1984, aveva spinto Bettino Craxi al rinnovo della stipula del concordato fra Stato italiano e Chiesa cattolica?

I ricordi sono come una matriosca: s’infilano uno nell’altro. Ad Acquaviva non raccontai come mi sono ritrovato tra i fondatori dell’associazione che, in seconda battuta, avrei presieduto. Lo racconto a voi. Peppino Magistro, segretario del PSI a Messina, aveva colto col suo ineguagliabile e disinteressato intuito politico le potenzialità della proposta di Acquaviva. Mise insieme una lista di nomi e incluse anche me. Mi disse: chi meglio del direttore editoriale della rivista dell’Ordine degli Architetti di Messina può far parte di una associazione esterna al partito, impegnata nella cultura e nella politica, in grado di assumere posizioni autonome e autorevoli? Mi trovai così nell’elegante studio di un notaio, fra persone a me del tutto sconosciute o di cui avevo solo letto sulle cronache politiche della Gazzetta del Sud. Magistro aveva pensato bene di riunire le diverse anime della cultura progressista cittadina del tempo, giovani e meno giovani, professionisti impegnati. Persone che non parlavano seduti al bar dello sport, ma che la partita la giocavano in campo. Con un denominatore comune: essere fuori dal coro. «Alcuni nascono grandi», dice un personaggio di Shakespeare, «alcuni lo diventano, altri sono sorpresi dalla grandezza che è loro gettata sulle spalle». La grandezza era quella di Walter Tobagi, non certo la nostra che sottoscrivendo finalità e statuto assumevamo coscientemente un impegno. L’impegno era quello di sostenere azioni forti, esprimere e fare esprimere un pensiero pluralista, non ideologico, non condizionato e neppure condizionabile dai partiti. Me lo ha ripetuto fino alla fine il mio amico Magistro, lui così vicino a Nicola Capria che gli aveva chiesto di affiancarlo dopo avere lasciato le Acli di cui era stato presidente. Lui, Magistro, che sapeva coniugare quel cattolicesimo sociale e quel riformismo socialista ora rappresentati dal nascente Centro Tobagi. Nel metterci la firma mi chiedevo cosa avrei trovato in quel gruppo, che si richiamava agli ideali di Walter Tobagi.

Rispondo: vi ho trovato mille occasioni per rafforzare ciò in cui già credevo: che non c’è libertà nella povertà, che occorre combattere l’appiattimento sociale, lo sconforto che ti porta all’accettazione passiva delle idee ricorrenti del momento, che occorre concentrarsi su di una professione colta e lungimirante, sulle nuove tecnologie senza mai dimenticare i maestri del passato. Dalla sera in cui a Messina fondammo il Centro Culturale, ho cominciato a leggere quanto aveva scritto Tobagi e quanto su di lui è scritto. Tenere vive le memorie, questo è il nostro compito di uomini, ne sono convinto. Fare da cerniera tra passato e futuro. Per questo, se oggi mi imbatto in certe discussioni prive di sostanza, in cui si sbaglia in modo marchiano, preferisco ricordare a tutti di migliorare la capacità di ascolto. Come quando si parla di un elettorato popolare che sembra a molti sfuggire di mano. L’aveva, eccome, la capacità d’ascolto, Walter Tobagi. Giudicate voi: «C’è un vizio facile di trattare il “popolino”. La verità è che le sottili distinzioni ideologiche valgono in altri contesti sociali. Qui conta il richiamo di Bertolt Brecht: “Voi che volete insegnarci a vivere, ricordate che prima viene la bistecca e poi la morale”. E il voto è niente più che uno strumento, il mezzo di cui la povera gente si serve per dare corpo alle proprie speranze o per punire le promesse deluse». Non basta? Sentite: «Il segreto della nuova politica, meno ideologia e più concretezza, potrebbe essere questo: non promettere la luna, ma preoccuparsi dei bisogni della gente». E se qualcuno non lo ha capito ancora, non c’è proprio rimedio.

IMMAGINE DI APERTURA di BRRT da Pixabay (1645)

Johan Christian Claussen Dahl – La Real Casina di Quisisana

La Real Casina di Quisisana 1820 Museo nazionale di Capodimonte, Napoli

IL DIPINTO

La Real Casina di Quisisana è un dipinto olio su tela di Johan Christian Dahl, realizzato nel 1820 e conservato all’interno del Museo nazionale di Capodimonte, a Napoli. L’opera è stata commissionata al pittore norvegese Johan Christian Dahl dal principe Christian Frederik, futuro Cristiano VIII, re di Danimarca, in memoria del suo soggiorno a Napoli nel 1820 e donata al re Ferdinando I delle Due Sicilie in segno di gratitudine per la sua ospitalità. La tela è esposta nella sala 57 del Museo nazionale di Capodimonte, nella zona dell’Appartamento Reale della reggia di Capodimonte.

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Johan Christian Clausen Dahl in un ritratto di Carl Christian Vogel von Vogelstein

L’ARTISTA

Johan Christian Claussen Dahl (Bergen, 24 febbraio 1788 – Dresda, 14 ottobre 1857) è stato un pittore norvegese appartenente al Romanticismo; la sua produzione lo annovera tra i paesaggisti come Caspar David Friedrich e, per certi versi, il più moderato John Constable. Johan Christian Dahl nacque a Bergen il 24 febbraio 1788 da una famiglia di umili condizioni (suo padre era un pescatore). Fu educato presso la cattedrale di Bergen da un mentore che voleva farne un buon pastore; ciò malgrado, riconosciuta la propria vocazione artistica, Johan abbandonò gli studi teologici e iniziò a frequentare la scuola di pittura di Johan Georg Müller, che allora godeva in città di una distinta notorietà. Dahl passò quindi sotto la guida di Lyder Sagen, che consentì al giovane di completare gli studi all’accademia di Copenaghen, in Danimarca.

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Roma: La Biblioteca Casanatense dal 1701 ai giorni nostri

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La Biblioteca Casanatense è una biblioteca aperta nel 1701 presso il convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva a Roma. Nata come biblioteca pubblica, ebbe come primo nucleo la collezione formata da circa 25.000 volumi che il cardinale Girolamo Casanate (1620-1700) donò, insieme con la somma di 160.000 scudi, con un testamento del 5 ottobre 1698, per realizzare una grande biblioteca romana affidata ai domenicani. L’edificio che ospita la biblioteca fu appositamente costruito, secondo la volontà dello stesso Casanate, all’interno del complesso della Minerva, su progetto dell’architetto Antonio Maria Borioni. Con successive acquisizioni la biblioteca si arricchì di opere riguardanti sia le tradizionali discipline religiose e teologiche che studi di filosofia e diritto romano, di economia e opere riguardanti la città di Roma.

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IMMAGINE DI APERTURA – Roma, Biblioteca Casanatense – Foto Lalupa (Fonte: Wikipedia)

Friedrich Overbeck – Italia e Germania

Italia e Germania, 1811-1828, Neue Pinakothek, Monaco

IL DIPINTO

Italia e Germania (in tedesco Italia und Germania) è un dipinto allegorico del 1828 di Friedrich Overbeck. Il quadro, esposto alla Neue Pinakothek di Monaco (ma ne esistono altre versioni al Museo Georg Schäfer di Schweinfurt e alla Galerie Neue Meister di Dresda), intende simboleggiare l’amicizia dei due paesi (o meglio regioni culturali) attraverso la loro personificazione sotto le sembianze di due donne reciprocamente affettuose. Dal punto di vista storico dell’arte si riconduce allo stile dei Nazareni.

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Autoritratto con la famiglia (1820)

L’ARTISTA

Johann Friedrich Overbeck (Lubecca, 3 luglio 1789 – Roma, 12 novembre 1869) è stato un pittore tedesco, esponente del movimento pittorico dei nazareni. Nato a Lubecca da una famiglia di pastori protestanti per generazioni, era figlio di Christian Adolph Overbeck (1755–1821), avvocato, poeta, uomo di chiesa nonché borgomastro della cittadina. Suoi nonni paterni erano Georg Christian Overbeck (1713–1786), avvocato, ed Eleonora Maria Jauch (1732–1797). Suo zio era invece teologo e prolifico scrittore, oltre che rettore del ginnasio in Konigstrasse, poco lontano dall’abitazione degli Overbeck, dove il giovane Friedrich studiò e si avvicinò all’arte e alla letteratura classica.

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Le Passeggiate del Direttore: La tomba di Iti e Neferu

Cosa c’è di meglio di una web serie per tenervi compagnia? A grande richiesta, vi presentiamo LE PASSEGGIATE DEL DIRETTORE, la prima stagione di una serie firmata dal Museo Egizio, un viaggio nella storia suddiviso in brevi episodi. 

Il Museo Egizio di Torino è il più antico museo, a livello mondiale, interamente dedicato alla civiltà nilotica ed è considerato, per valore e quantità dei reperti, il più importante al mondo dopo quello del Cairo. Nel 2004 il ministero dei beni culturali l’ha affidato in gestione alla “Fondazione Museo Egizio di Torino”. Nel 2019 il museo ha fatto registrare 853 320 visitatori, risultando il sesto museo italiano più visitato. Nel 2017 i Premi Travellers’ Choice di TripAdvisor classificano l’Egizio al primo posto tra i musei più apprezzati in Italia, al nono in Europa e al quattordicesimo nel mondo.
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Le Passeggiate del Direttore: La tomba di Iti e Neferu

IMMAGINE DI APERTURA – Ingresso del museo egizio, Torino (Fonte Wikipedia)

Mauro Bologna, Aldo Lepidi – CoViD-19

Questo libro si pone esattamente questo obiettivo: spiegare in poche pagine, con linguaggio semplice (ma preciso e dettagliato), quello che la scienza può dirci ad oggi del virus SARS-CoV-2 e della malattia da questi causata, la CoViD-19. Bologna e Lepidi ripercorrono in poche pagine tutto ciò che la scienza ha potuto svelare: che posto occupano i virus nella storia della vita sulla Terra che particolarità ha questo specifico Coronavirus, come opera nella cellula infettata e che struttura ha il suo RNA. La seconda parte sposta l’attenzione sulla sindrome, la sua epidemiologia, la diagnosi, l’eziologia, la prevenzione e la profilassi.

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di cromaconceptovisual da Pixabay