Messina, FORO G gallery: STILL REMAIN. Mostra personale di Carmen Cardillo

Still Remain è la nuova mostra di Carmen Cardillo con doppia sede e doppio opening.Sarà in esposizione contemporanea a Catania e a Messina. S’inaugura, sabato 14 Gennaio alle ore 18 presso KōArt /Unconventional Place di Catania dove sarà possibile vedere le istantanee pubblicate all’interno del libro edito da Ed. Quaderni d’Arte KōArt/Unconventional Place, Catania del maggio 2021 con i testi di Aurelia Nicolosi e Ilenia Vecchio. Il secondo opening, Domenica 15 gennaio alle ore 17.00 presso la FORO G gallery di Roberta Guarnera a Messina, spazio in cui saranno esposte le fotografie in bianco e nero e i frottage realizzati nel 2016.


FORO G gallery
foroggallery.com
Via Lago Grande 43B 98165 Ganzirri (Messina)
Instagram: @forog.gallery

Trieste, Museo Revoltella: I Macchiaioli, dalle discussioni nel Caffè Michelangiolo alle battaglie per l’indipendenza

LA MOSTRA

I Macchiaioli.
L’avventura dell’arte moderna

Trieste, Museo Revoltella
 19 novembre 2022 – 10 aprile 2023

Allestimento della mostra
“I Macchiaioli. L’avventura dell’arte moderna”

I Macchiaioli, artisti rivoluzionari

Il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831 dette luogo a un’accesa e interminabile discussione sociale e politica sulle strategie sino a quel momento adottate per realizzare l’indipendenza e l’Unità d’Italia, generando un diffuso senso di frustrazione e un prepotente desiderio di rivalsa nella nuova generazione di artisti toscani, che ancor prima di impugnare le armi cominciarono la loro personale rivoluzione con l’arte, ritrovandosi, dal 1855-56, nelle sale del Caffè Michelangiolo di Firenze.
I termini soprattutto artistici di tale atteggiamento fortemente polemico furono avvertiti dai critici coevi, le cui parole tuonarono talvolta implacabili nelle recensioni alle mostre promotrici di Firenze, capitale artistica dei piccoli staterelli italici prima e dell’Italia poi.
La prima grande polemica pubblica ebbe luogo quando, il 23 maggio 1857, il direttore della Promotrice fiorentina, Augusto Casamorata, comunicò a Telemaco Signorini la mancata accettazione da parte della Commissione Artistica della Società Promotrice dei due dipinti Casa Goldoni e Ponte delle Pazienze a Venezia, accusati di accentuazioni chiaroscurali eccessive, rigettando di fatto i tipi stilistici peculiari della ‘macchia’ e accendendo un dibattito critico destinato a suscitare una eco nazionale, poi fondamento della fortuna critica riscossa dai Macchiaioli sino a oggi.
Nel 1861, Abbati, Altamura, Bechi e D’Ancona, insieme ad altri, contestarono pubblicamente il Giurì dell’Esposizione Nazionale di Firenze, rifiutando la prestigiosissima medaglia d’oro conferita a Vito D’Ancona, disconoscendo la professionalità dell’organo giudicante, considerato retrogrado e inadeguato al ruolo.
Questi pittori ‘belligeranti’, cui nel 1862 fu assegnato il nomignolo di Macchiaioli da un anonimo redattore della “Gazzetta del Popolo”, davano conto del tenore dei loro bollenti spiriti reazionari, alzando il tono della discussione e infiammando il clima di torpore intellettuale della Toscana granducale, anche attraverso gesta eclatanti come questa, che sensibilizzarono e stimolarono il dibattito critico.
La loro congenita inclinazione a preferire alla rarefazione dell’immagine la tenuta formale del disegno, la piena assimilazione del costruttivismo luministico macchiaiolo, composto sull’assioma luce-ombra, la convergenza, in Toscana, di soggettività tanto diverse fra loro, provenienti da ogni parte d’Italia, i viaggi d’erudizione compiuti da Parigi a Firenze e viceversa, portarono poi, dalla prima metà degli anni Sessanta alla precoce messa in opera di un linguaggio verista che evolse, man mano fino alla fine del secolo, in senso naturalista.

Allestimento della mostra
“I Macchiaioli. L’avventura dell’arte moderna”

Sezione 1 – Il passaggio dal bozzetto al quadro di storia, alla “macchia”, attraverso l’osservazione del paesaggio
Intorno alla metà del XIX secolo la pittura di storia rappresentava l’identità nazionale, attraverso la memoria delle grandi gesta e dei personaggi del passato. Questo genere fu aggiornato dai Macchiaioli attraverso uno stile più vibrante di impronta “impressionistica”.

“…il guadagno facile e la facile rinomanza non dovevano essere l’obiettivo di un’arte nobile e onesta e che vi era più onestà e nobiltà a farsi coll’arte interpreti della vita contemporanea che rappresentare un passato storico con paludamenti accademici e con viete tradizioni scolastiche […]. Nel 1859, tornato che fui dalla campagna di Lombardia, vidi accettati dalla Promotrice sette miei quadri di soggetti militari e sei venduti. Dipinse il D’Ancona in quel tempo una tela di quattro figure quasi al vero, rappresentandoci il Dante che incontra Beatrice accompagnata da due compagne, il fondo era l’Arno ai Tiratoi, laddove fu demolita una porta pittorica allo scalo del fiume, l’ora era il tramonto. Questo suo lavoro riuscì importante per le qualità che hanno sempre distinta la sua pittura, era sobrio d’intonazione, era largo e grandioso di esecuzione, e tutte le mezze figure al vero fatte prima o dopo da lui con tanta predilezione, ebbero tutte queste qualità di larghezza…”. Telemaco Signorini

Sezione 2 – Il chiaroscuro violento, l’intimismo della Scuola di Piagentina, la luce abbagliante di La Spezia
La cifra espressiva originalissima e le qualità innovative dei Macchiaioli risiedono nella capacità di slegarsi dallo svolgimento complessivo del racconto, analizzato per frammenti e soltanto dal punto di vista strettamente estetico-poetico. Brevi spaccati di paesaggio costituiscono le tessere e le molecole vitali del grande mosaico della natura, passati sotto la lente di ingrandimento dell’artista, che ne rileva la costruzione luministica più intima: “il chiaroscuro” che messo a nudo ed espoliato di ogni dettaglio accessorio, restituisce in tutta la sua primitiva eloquenza il carattere estetico e il senso più genuino e profondo del soggetto rappresentato. Un’ampia serie di luminosissime tavolette di piccole dimensioni dipinte en plein air costituiscono le prove più emblematiche del lessico empirico macchiaiolo, affermatosi quale baluardo avanguardistico dell’arte occidentale del decennio ’56-’66, quando questo gruppo di artisti indipendenti coniò una nuova cifra espressiva, cogliendo con spontanea immediatezza il timbro distintivo e strutturale (ma già all’epoca a Firenze si parlava di “impressione”) delle forme. Nella seconda metà degli anni Sessanta, la cosiddetta Scuola di Piagentina era «…Un luogo di campagna “umile e modesta”, come la ricorda Signorini, pianeggiante con orti, frutteti e ancora poche case; le colline celebri di Fiesole, San Miniato e Arcetri si scorgono solo in lontananza. Qui appena fuori dalle mura, uscendo da Porta alla Croce, […] abitavano contadini occupati nella coltivazione degli ortaggi, e poche famiglie borghesi, non aristocratiche, che vivevano in villette, casali, assai diverse dalle dimore di campagna signorili…», nelle quali si respirava un clima di protezione e accogliente familiarità. Quasi in parallelo con l’esperienza di Castiglioncello, ricapitolazione sintetica della luce e della vitalità cromatica della “macchia”, a Piagentina le forzature chiaroscurali venivano sorprendentemente meno, aprendosi a tonalità più tenui, di pacato intimismo, recuperando in questo ufficio l’amore per l’interno di gusto borghese, di estrazione olandese o comunque nordeuropea, ma soprattutto ispirato alla vita reale, al convivio quieto della gente comune non sempre considerata nei momenti di maggiore responsabilità civile o di specificità sociale.

Sezione 3 – La poesia della natura. Il verismo e l’eleganza, fra esterni e interni
Le mostre promotrici di Firenze, maggior centro nazionale per l’arte dell’epoca, aperte nel 1845 e frequentate da un pubblico numerosissimo, erano una occasione irripetibile per la propagazione della pittura nella società civile e, attraverso l’autonomia di scelta e il libero mercato, decretavano l’oggettivo successo e la diffusione delle opere di un artista o di un indirizzo creativo specifico, contrapponendo così il gusto fortemente condizionato delle committenze pubbliche, prevalentemente ipotecate a prudenti citazioni dal passato dei pittori istituzionali, colme di educativo sentimentalismo nazionalista, ai generi nuovi del bozzetto storico e della pittura dal vero, di gusto rurale, alto borghese o di genere.
Sebbene in questo nuovo contesto, non mancassero, né in Italia né in Francia, le fratture e le incomprensioni fra le frange realiste più avanguardiste, per definizione sempre avanti al gusto comune, e la platea delle esposizioni, impreparata a cogliere le novità dell’ultima ora, questo fu tuttavia il terreno su cui si produsse il costante progresso dell’arte toscana, che avanzò prima cercando di dissipare le pedanti consuetudini narrative accademiche imprimendo una svolta luministica ed essenzialista, poi recuperandone i caratteri, addolciti e naturalizzati, di circostanziato e morbido descrittivismo.

Sezione 4 – Il naturalismo, fra natura e paesaggio urbano
Secondo i precetti della filosofia naturalista, l’arte doveva sforzarsi di compiere una trascrizione del dato reale quanto più possibile oggettiva, effettuando quel necessario processo di analisi e di verifica, che era stato fino a quel momento appannaggio esclusivo della scienza. Gli artisti toscani di questa nuova età, non potendo più procedere per ulteriori sottrazioni descrittive – percorso la cui parabola ascendente è testimoniata da dipinti degli anni Sessanta come Tetti al sole di Sernesi o Il muro bianco di Cabianca o,

soltanto per citare un’altra opera fondamentale, La rotonda dei Bagni Palmieri di Fattori – recuperavano quelle connotazioni narrative che qualificarono tutta l’arte del periodo. Come era avvenuto nella pittura regionale del passato, da Giotto a Leonardo in avanti e risentendo evidentemente di una tradizione così radicata nel retaggio culturale collettivo, i progressi del pensiero contemporaneo erano stati ricondotti alla limpida immediatezza delle austere forme chiuse, dove l’eccellenza del disegno imprimeva le cadenze a piombo degli abiti semplici delle contadine, ora assunte a vere e proprie icone della plurisecolare civiltà rurale e stagliate, come ne La vendemmiatrice di Faldi, nel controluce della rifrazione crepuscolare quale proiezione prospettica dell’idioma universale della natura.

Sezione 5 – Quiete e religiosa osservazione del Creato
Una profonda inquietudine pervade la percezione leghiana, ipotecata a una descrittività breve, solcata dalle cadenze malinconiche di quelle valli desolate e di quelle «...gabbrigiane […], una razza di donne fiere […] che portano in capo delle ceste enormi di mercanzia. Arse dal sole, disseccate dalla fatica…». Proprio come ai tempi di Piagentina, seppure con prescrizioni apparentemente opposte, le sillabazioni della sintassi leghiana vertono ancora su una spiccata perspicuità statuaria che, nei ripetuti assoli del ritratto, ricompone la complessa modulazione drammatica quale trascrizione di una esistenza infelice, ora più vicina all’aspro substrato courbettiano.
Sulla scorta delle ricognizioni visive condotte lungo il corso di tutta la sua carriera, Signorini – certamente con maggiore libertà per i declivi disabitati delle Cinque Terre, dell’Elba, di Pietramala o di Settignano, lì potendo, da sopra, facilmente dislocare il suo punto di vista gettato a volo d’uccello, spingendolo in alto o in basso, modificando sia perpendicolarmente che trasversalmente l’angolo prospettico – commisurava questa conoscenza quanto mai lucida dello spazio a una scatola ottica rigida, chiusa architettonicamente su tre lati.
Quando con diminuzioni tonali, quando con accentuazioni cromatiche piene e compatte, Cannicci rispondeva ancora alle prescrizioni quasi sottaciute del Purismo, in cui Martelli individuava «…un artista che dalla realtà moderna risale alle virtù dei preraffaelleschi […] non per sforzo di imitazione ma per pura affinità di sentimenti…».

Sezione 6 – Fin de Siècle. Gli anni della maturità
Gli artisti della avanguardia toscana avviarono un’opera di modificazione dei principi e dei riferimenti culturali autoctoni che avevano animato la ben nota riforma macchiaiola; i pittori aderenti a questo speciale filone naturalista, forti degli altissimi contenuti qualitativi delle loro prerogative stilistiche, si confrontarono nella ricerca, non più esasperata dai violenti contrasti luminosi né dalle abbreviazioni formali neo- quattrocentesche della prima ora, con le innovazioni prodotte in ambito europeo dal Realisme e dal contemporaneo Impressionismo. Avvertirono la emotività letteraria dei romanzi sperimentali di Zola e Verga e l’aleggiare della nuova sensibilità naturalista, formando una vera e propria scuola di pensiero che andava plasmando una cifra stilistica del tutto originale e immediatamente riconoscibile, poggiata sulla severa tenuta formale del disegno e sulla puntuale ripresa dal vero dei valori luministici del soggetto, solitamente a sfondo naturalistico o sociale, attinente alla contemporaneità, alla vita in campagna o della media borghesia.



Catalogo edito da Skira.


SEDE
Museo Revoltella
Via Armando Diaz, 27
34123 – Trieste (TS)

INFORMAZIONI
T. +39 040 982781
www.arthemisia.it
www.triestecultura.it
www.discover-trieste.it

ORARI
Dal lunedì alla domenica e festivi 9:00 -19:00
Martedì chiuso(la biglietteria chiude un’ora prima

Hashtag ufficiale
#MacchiaioliTrieste

UFFICIO STAMPA
Arthemisia
Salvatore Macaluso
sam@arthemisia.it
press@arthemsia.it | T. +39 06 69308306
Relazioni esterne Arthemisia
Camilla Talfani | ct@arthemisia.it

Dal 13 gennaio 2023 in libreria e negli store “Attraversamenti – Un racconto in prosa e in poesia” di Roberta Melasecca | Eretica Edizioni

Dal 13 gennaio 2023 in libreria 

Attraversamenti – Un racconto in prosa e in poesia
di Roberta Melasecca

Eretica Edizioni 

Dal 13 gennaio 2023 nelle librerie e nei principali store online è disponibile la pubblicazione “Attraversamenti – Un racconto in prosa e in poesia” di Roberta Melasecca, edito da Eretica Edizioni, inclusa nella collana Quaderni di poesia

Attraversamenti è la narrazione, in prosa e in poesia, di una storia terminata in modo non felice ma dalla quale emerge la certezza che l’amore sia una realtà imprenscindibile della vita con la sua bellezza e crudezza. Il racconto è strutturato come una tragedia greca con le diverse parti – prologo, epilogo, intermezzo, parodo – non sequenziali in modo che stia al lettore ricostruire i percorsi della vicenda. All’interno del libro è presente anche una illustrazione di Marcello Maltese, architetto e artista, dal titolo Conchiglia, immagine evocativa dell’intimo sentimento che permea i versi. 

In occasione delle diverse presentazioni del libro (le cui date saranno presto note), verrà approfondito anche il progetto Cross Love, a cura di Roberta Melasecca, che vuole invitare a riflettere sui molteplici volti dell’amore interpretandone differenti linee tematiche: amore come relazione nella sfera pubblica e privata; amore come potenza dell’anima nel suo complesso di emozioni, sentimenti, empatie, passioni; amore donativo; amore come forza ed energia interiore ed energia dell’anima; amore “transitivo”, che sottolinea il riconoscimento nella relazione, e “intransitivo”, che evidenzia il narcisismo affettivo, come anche analizzato da diversi autori durante il Festival Filosofia 2013 di Modena, Carpi e Sassuolo. Il paesaggio delle esperienze amorose è ampio e variegato e attraversa ogni giorno nuove forme che cercano riconoscimento, diritti ed equilibri mentre l’avvento dei media digitali mostra meccanismi inediti di incontro e il mercato e l’economia del desiderio determinano impensate formule amorose. Cross Love dunque invita a presentare visioni della triade classica di eros (ἔρως), agape (ἀγάπη) e philia (ϕιλία) attraverso una rilettura all’interno della società contemporanea delle diverse dimensioni del vivere: ogni momento del progetto indagherà il tema secondo una prospettiva specifica e coinvolgendo diversi operatori culturali.

Roberta Melasecca è architetto e curatrice d’arte contemporanea. Segue le ricerche di numerosi artisti, scrive testi critici, promuove progetti culturali in Italia e all’estero; è ambasciatrice del Progetto Rebirth Terzo Paradiso di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto ONLUS; opera da molti anni nell’ambito dell’arte partecipata adottando un modello di lavoro orizzontale che coinvolge artisti, diversi operatori culturali e le comunità locali.

Eretica Edizioni è una Casa Editrice indipendente che pubblica opere sia di autori emergenti sia di autori affermati nelle diverse sezioni: Narrativa, Saggistica, Fumetti, Poesia, Salute. Il direttore è Giordano Criscuolo. 



INFO

Attraversamenti
Un racconto in prosa e in poesia
di Roberta Melasecca
Editore: Eretica Edizioni
Collana: Quaderni di poesia
Illustrazione all’interno: Marcello Maltese, Conchiglia, penna ad inchiostro su cartoncino, 2022
Pagine: 98 pp.
Formato:12.5×19.5 – brossura
Pubblicazione: 2023
ISBN: 978883344379
Prezzo di copertina: 15 euro

Dove acquistare:
ERETICA EDIZIONI
LA FELTRINELLI
MONDADORI
AMAZON
UNILIBRO

Contatti

Roberta Melasecca
roberta.melasecca@gmail.com
www.melaseccapressoffice.itwww.interno14next.it
dryapple.wordpress.comwww.festivaldeltempo.it

Eretica Edizioni
ereticaedizioni@gmail.com
www.ereticaedizioni.it

Firenze, Museo degli Innocenti: L’universo creativo di Escher, dove si fonde scienza e natura, matematico e magico, rigore analitico e capacità contemplativa

Una immagine dell’allestimento della mostra “Escher” – Giorgio Magini fotografo Escher – Anteprime

LA MOSTRA

Firenze, Museo degli Innocenti
20 ottobre 2022 – 26 marzo 2023

A Firenze la mostra record d’incassi dedicata a “ESCHER”
è ospitata in una sede espositiva unica, negli spazi dello storico Museo degli Innocenti che, grazie alla collaborazione con Arthemisia, è diventato un punto di riferimento del capoluogo toscano come luogo di grandi mostre d’arte.

Prima sezione – Gli inizi

I primi lavori di M.C. Escher prendono ispirazione dall’Art Nouveau, un celebre movimento artistico sviluppatosi in Europa alla fine del XIX secolo caratterizzato da ornamenti e forme decorative ispirate a soggetti naturali.

Questa influenza è dovuta principalmente a Samuel Jessurun de Mesquita, importante esponente dell’Art Nouveau Olandese e insegnante presso la scuola di grafica ed arti decorativa di Harlem in Olanda frequentata da Escher. L’artista ha sempre nutrito un profondo interesse per la natura e ha, anche in seguito, eseguito numerose stampe con raffigurazioni realistiche di fiori e insetti.

Durante la sua permanenza in Italia dal 1922 al 1935 egli intraprese molteplici viaggi nel Belpaese, in particolare nel meridione, disegnando monumenti, paesaggi, flora e fauna, che al suo ritorno a Roma, dove si era stabilito, trasformava in opere grafiche: xilografie e litografie. In queste opere per lo più caratterizzate da prospettive insolite, una meticolosa osservazione della natura si fondeva con vedute che spaziavano verso orizzonti lontani.

Seconda sezione – Italia

L’artista olandese aveva visitato l’Italia una prima volta a seguito dei suoi genitori nel 1921. Nel 1922, finiti gli studi, ritornò per stabilirsi poi definitivamente a Roma nel 1923.

Questo soggiorno aiutò Escher ad ampliare i suoi orizzonti artistici, portandolo a collaborare con altri artisti che vivevano a Roma come Joseph Haas Triverio, artista grafico di origine svizzere, che oltre ad introdurlo nel giro delle gallerie d’arte fu anche suo fedele compagno nei viaggi che ogni primavera intraprendevano per immortalare paesaggi e villaggi del Belpaese.

Escher prendeva la sua ispirazione dalla natura. In una lettera spedita da Ravello scrisse: “…Voglio trovare la felicità nelle cose più piccole, come una pianta di muschio di due centimetri che cresce su una roccia e voglio provare a lavorare a quello che desidero fare da tanto tempo: copiare questi soggetti minuscoli nel modo più minuzioso possibile…”

In Italia lo studio dei paesaggi e della natura rigogliosa porta Escher a concentrarsi sulle strutture geometriche alla base di panorami ed elementi della natura.

Nel 1935 l’artista si trasferisce in Svizzera per allontanarsi dal fanatismo del regime fascista, da lui considerato inutile e pericoloso.

Terza sezione – Tassellature

Nel 1936 il secondo viaggio di Escher nel sud della Spagna segna un giro di boa cruciale nel suo sviluppo artistico. In quell’occasione ha modo di visitare i celebri monumenti come l’Alhambra di Granada e la Mezquita di Cordoba, da cui trae ispirazione per uno studio metodico dei motivi utilizzati dagli artigiani del XIV secolo per decorare muri e archi delle architetture moresche.

In seguito, si appassiona alla tassellatura: decorazioni geometriche basate su triangoli, quadrati o esagoni che si ripetono, come piastrelle, per coprire un piano senza lasciare spazi vuoti.

Egli lavorò minuziosamente a 137 acquerelli, raccolti in un libro di esercizi, che riproducono diversi motivi di tassellatura e che rappresentavano tutti i 17 diversi modi di riempire una superficie piana attraverso le operazioni di traslazione, rotazione e riflessione di un unico tassello, oltre a uno studio sulle varie possibilità di colorazione.

Questa sezione mostra come infine Escher modifico le forme puramente geometriche, alla base delle sue tassellazioni, con figure animate come animali o figure umane: caratteristica che divenne distintiva della sua arte, in cui fantasia, geometria e soggetti figurativi sono sapientemente combinati.

Quarta sezione – Metamorfosi

Escher ha creato un mondo in cui diversi tipi di tassellatura (il procedimento di divisione regolare del piano) danno vita a vortici di trasformazioni e forme astratte si trasformano in forme animate.

Un universo in cui gli uccelli possono gradualmente tramutarsi in pesci e che vede una lucertola diventare la cella di un alveare. A volte le trasformazioni portano a elementi antitetici ma complementari, come il giorno e la notte o il bene e il male, intrecciando gli opposti all’interno di una stessa composizione.

Quinta sezione – Struttura dello spazio

Fin dalle sue prime stampe di paesaggi Escher dimostra un’attrazione per la struttura dello spazio più ancora che per l’elemento pittoresco. Nel 1937, dopo aver lasciato l’Italia, smette di cimentarsi con la struttura spaziale in senso analitico: non rappresenta più lo spazio in modo lineare, così come lo aveva osservato, ma inizia piuttosto a produrre sintesi in cui diverse entità spaziali confluiscono in un’unica stampa con logica stringente.

È possibile ammirare il risultato di questa operazione nei lavori in cui diverse strutture si compenetrano, come se si trovassero su superfici riflettenti. L’attenzione per le strutture prettamente matematiche raggiunge il suo apice più avanti, come conseguenza della sua passione per le forme dei cristalli e le superfici topologiche come il nastro di Moebius, cioè oggetti che sono percepiti come superfici a due facce ma che, ad una più attenta osservazione, mostrano di avere una sola faccia.

Sesta sezione – Paradossi geometrici

Le conoscenze matematiche di Escher erano principalmente visive e intuitive. Le sue architetture e composizioni geometriche si caratterizzavano per aberrazioni prospettiche che, a prima vista, si presentavano come perfettamente plausibili ma che, dopo una più attenta ispezione, si rivelavano impossibili. Nel 1954, in occasione del Congresso Internazionale dei Matematici ad Amsterdam, vennero esposte alcune stampe dell’artista che da allora cominciarono a essere molto apprezzate dalla comunità scientifica. L’artista iniziò un dialogo con matematici e cristallografi che rappresentò una vasta fonte di ispirazione per la sua ricerca sulle costruzioni impossibili, le illusioni ottiche e la rappresentazione dell’infinito.

Questa sezione analizza come Escher abbia cercato di forzare oltre ogni limite la rappresentazione di situazioni impossibili, ma che all’apparenza sembrano coerenti, attraverso una selezione di alcune delle sue opere più famose: Ascesa e discesa, Belvedere, Cascata, Galleria di stampe e Relatività. Questi capolavori riflettono un aspetto essenziale dell’arte del grafico olandese: il suo complesso rapporto con la matematica, la geometria e le composizioni infinite.

Settima sezione – Lavori su commissione

Escher non conobbe la notorietà se non negli ultimi anni della sua vita. Per sbarcare il lunario si dedicò quindi spesso a lavori su commissione.

Erano per lo più progetti modesti, come la copertina di un programma concertistico, semplici biglietti di auguri ed ex-libris (etichette decorate che venivano applicate sui libri per indicarne il proprietario).

Eseguì anche commesse pubbliche come la progettazione di banconote e francobolli. Nel 1967 eseguì un’incisione di sette metri intitolata Metamorfosi III per l’ufficio postale dell’Aia, nei Paesi Bassi: un’opera che oggi è considerata uno dei suoi capolavori.

Ottava sezione – Eschermania

Oggi è possibile trovare riferimenti ai lavori di Escher negli ambiti più disparati: da quello artistico alla cultura popolare. Diversi pittori contemporanei e artisti digitali sono stati influenzati dal lavoro che il grafico olandese ha svolto nel campo della tassellatura, interpretandolo secondo il proprio stile.

La rappresentazione del paradosso ha avuto un ascendente importante su molti musicisti e gruppi pop degli anni Sessanta che usavano le sue immagini sulle copertine dei loro album.

Le geometrie dell’artista olandese hanno inoltre ispirato diversi personaggi dei fumetti e dei cartoni animati. Il mondo della pubblicità ha trovato terreno fertile nell’arte estrosa di Escher e case di moda e stilisti di fama internazionale, come Chanel o Alexander McQueen, hanno reso omaggio al suo universo immaginifico sulle loro passerelle.

Le opere esposte in quest’ultima sezione spaziano dai fumetti alle pubblicità, dalla musica alla moda, ai film e alle opere d’arte contemporanea, tutti settori influenzati dalla sua arte. Questi lavori dimostrano come la “Eschermania” abbia contagiato tutti i settori creativi e come l’opera di questo artista sia ancora fonte di ispirazione per la cultura contemporanea.

Il catalogo è edito da Maurits.


INFO

Ufficio StampaArthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

Vercelli: la grande mostra di Giacomo Manzù, rende la città una Capitale della scultura e dell’arte

GIACOMO MANZÙ.
“La scultura è un raggio di luna”

Vercelli, Arca ed ex Chiesa di San Vittore

10 marzo – 21 maggio 2023

Mostra a cura di Marta Concina, Daniele De Luca, Alberto Fiz

Intorno alla retrospettiva di Manzù, c’è una città tutta da scoprire: Vercelli. “La rassegna di Giacomo Manzù – afferma il Sindaco Avv. Andrea Corsaro – ha anche l’obiettivo di accrescere la conoscenza delle realtà locali, in particolare le istituzioni museali, l’università e le chiese diventando occasione preziosa per far conoscere la ricchezza del patrimonio storico e artistico della città.

Dopo l’evento dedicato a Francesco Messina, la mostra che oggi viene presentata, costituisce un’ulteriore occasione per riscoprire la grande arte plastica che ha caratterizzato il Novecento italiano facendo di Vercelli la città della scultura”.

La mostra allestita in diverse sedi inizia nella ex chiesa di San Marco, prestigioso contenitore interno noto come “ARCA” (collocato nella navata centrale della chiesa), al quale si accede oltrepassando il grande portale vetrato d’ingresso. L’articolazione dello spazio consente di visitare anche parte delle navate laterali ricche di storia, affreschi, pannelli esplicativi e la pregevole cappella Pettenati, recentemente restaurata. Il percorso della mostra conduce all’abside della chiesa ora organizzato come bookshop. Lo spazio di ARCA (essenzialmente un grande contenitore adatto a grandi eventi temporanei) è stato pensato secondo un progetto che conduce a valorizzare le opere esposte con la narrazione dei beni che riguardano l’evento.

La mostra proseguirà poi in alcuni spazi della ex chiesa di San Vittore, luogo un tempo religioso e oggi adibito ad esposizioni artistiche. 

La mostra è l’occasione per riscoprire una città ricca di sorprese. Il centro storico ha un impianto medioevale di particolare pregio che culmina nella nota piazza Cavour, riferimento di numerose manifestazioni cittadine, al cui centro sorge uno dei monumenti più caratteristici della città. Ma è possibile ipotizzare un itinerario particolarmente suggestivo attraverso vie, piazze, edifici, torri, l’antico broletto, piazza Risorgimento che consente di spaziare dal Medioevo al Novecento.

Sono poi molti i musei che meritano attenzione e tra questi si possono ricordare Il Museo del Tesoro del Duomo, il Museo Leone, il Museo Borgogna, il Museo Civico Archeologico e il Museo del Teatro Civico che formano un percorso di conoscenza vario e articolato. Di notevole significato sono le chiese della città. Sono ben 46 gli edifici sacri l’abbazia di Sant’Andrea e la cattedrale dedicata a Sant’Eusebio, oltre alla chiesa sconsacrata di San Vittore che, come detto, accoglierà parte della mostra dedicata a Manzù ed in particolare ove sarà collocato il Grande Cardinale Seduto di oltre due metri di altezza.

In quest’occasione poi l’allestimento della mostra crea una stretta relazione tra le opere di Manzù (accanto alle sculture non manca una serie di preziose opere su carta degli anni Quaranta e Cinquanta) e i luoghi di accoglienza.

ARCA è il luogo ideale per essere la sede principale della mostra. Le sculture in marmo, ebano e bronzo ci immergeranno nel mondo di Giacomo Manzù con una percezione di carattere visivo e sensoriale. Una scansione tematica consente di rileggere l’opera di Manzù in maniera lineare. ARCA è stata progettata nel 2007 come spazio aperto in grado di ospitare eventi artistici di natura differente.


Giacomo Manzù (1908 – 1991)

Breve Biografia
(a cura di Alberto Fiz)

Giacomo Manzù, pseudonimo di Giacomo Manzoni, uno dei maggiori scultori del Novecento, nasce a Bergamo il 22 dicembre 1908, dodicesimo di quattordici fratelli.

La famiglia non ha possibilità economiche, il padre calzolaio, arrotonda le magre entrate con l’attività di sagrestano ed il piccolo Giacomo può frequentare la scuola fino alla seconda elementare.

Nelle botteghe degli artigiani dove il futuro scultore impara a scolpire e dorare il legno, prende confidenza con altri materiali come la pietra e l’argilla, mentre frequenta i corsi di Plastica Decorativa presso la scuola Fantoni di Bergamo.

Durante il servizio militare a Verona, ha l’occasione di ammirare e studiare le porte di San Zeno e si appassiona ai calchi dell’Accademia Cicognini.

Dopo un breve soggiorno a Parigi nel 1930 si stabilisce a Milano dove l’architetto Giovanni Muzio gli commissiona la decorazione della Cappella dell’Università Cattolica di Milano, lavoro che lo impegno per due anni.

Intanto realizza le sue prime opere in bronzo, si dedica al disegno, all’incisione, all’illustrazione e alla pittura.

Manzù comincia a modellare teste in cera e bronzo guardando a Medardo Rosso.

Nel 1932 prende parte a una mostra collettiva alla Galleria del Milione e nel 1933 espone una serie di busti alla Triennale

Nel 1934, alla Galleria della Cometa di Roma, tiene la sua prima grande mostra, insieme ad Aligi Sassu, con il quale divide lo studio.

Con l’opera Gesù e le Pie Donne vince il premio Grazioli dell’Accademia di Brera per lo sbalzo e il cesello.

Nel 1936 si reca a Parigi, con l’amico Sassu dove visita il Musée Rodin, conosce gli impressionisti e sviluppa i primi germi di ribellione che lo porteranno ad aderire al movimento di Corrente.

Considerato fra le personalità più significative della scultura italiana, nel 1939 inizia la serie dei Cardinali, ieratiche immagini in bronzo dalla schematica struttura piramidale avvolte nella massa semplice e potente della stola. Realizza poi il ciclo di bassorilievi in bronzo con le Deposizioni e le Crocifissioni in base a una poetica che si richiama a Donatello.

Negli anni Quaranta, come reazione alla violenza della guerra, Manzù riprende e riunisce sotto il titolo Cristo nella nostra umanità, le opere della Crocifissione e della Deposizione in cui il tema sacro viene utilizzato per simboleggiare prima la brutalità del regime fascista e poi gli orrori della guerra.

Nel 1941 Manzù ottiene la cattedra di scultura all’Accademia di Brera, dove insegna fino al 1954, quando si dimette per dissensi sul programma di studio.

Tra i molti riconoscimenti il suo nudo Francesca Blanc vince il Gran premio di scultura alla Quadriennale di Roma del 1942, mentre alla Biennale di Venezia del 1948, vince la medaglia d’oro per la serie dei Cardinali.

Nel 1945 si stabilisce a Milano e nel 1946 l’incontro con Alice Lampugnani è all’origine dell’importante opera Grande ritratto di signora e di un centinaio di disegni.

Nel 1947 Manzù illustra le Georgiche di Virgilio, e viene organizzata una grande mostra antologica dei suoi lavori al Palazzo Reale di Milano.

Nel 1954 prosegue l’attività d’insegnamento alla Sommerakademie di Salisburgo fino al 1960. A Salisburgo conosce Inge Schabel (1936-2018), che diventerà la sua compagna di vita e con cui avrà due figli, Giulia e Mileto. Lei e la sorella Sonja diventeranno da allora le modelle dei suoi ritratti.

In quel periodo inizia a lavorare  alla realizzazione della Porta della Morte per la basilica di San Pietro in Vaticano compiuta nel 1964. La porta vaticana, che lo impegna per diciassette anni, diviene l’epicentro di una poetica che, nel dialogare con la tradizione, ne rifiuta gli aspetti più strettamente accademici. Manzù realizza anche la Porta dell’Amore per il Duomo di Salisburgo (195 -1958), e la Porta della Pace e della Guerra per la chiesa di Saint Laurens a Rotterdam (1965-1968).

Ritorna poi alla figura a tutto tondo ed a temi più intimi come Passi di danza, Pattinatori Strip-tease e gli Amanti.

Nel 1964 si trasferisce in una villa nei pressi di Ardea, vicino Roma e nel 1969 viene inaugurato il Museo Amici di Manzù di Ardea.

Manzù si è occupato anche di teatro disegnando scenografie e costumi, tra cui quelli per l’ Oedipus rex di Igor Stravinskij nel 1965, per Tristano e Isotta di Richard Wagner nel 1971 e per il Macbeth di Giuseppe Verdi nel 1985.

Nel 1977 realizza a Bergamo il Monumento al partigiano e nel 1979 dona la sua intera collezione allo stato italiano. Del 1989 è la sua ultima grande opera, una scultura in bronzo alta sei metri posta di fronte alla sede dell’ONU a New York.

Giacomo Manzù muore a Roma il 17 gennaio 1991.


Ufficio Stampa: STUDIO ESSECI – Sergio Campagnolo
Tel. 049 663499; www.studioesseci.net
referente Simone Raddi, simone@studioesseci.net

Asti, Palazzo Mazzetti: Boldini coglieva al volo l’attimo fuggente quando un’occhiata rivelava lo stato d’animo

LA MOSTRA

Giovanni Boldini e il mito della Belle Époque

Asti, Palazzo Mazzetti
Fino al 10 aprile 2023

Allestimento della mostra “Boldini e il mito della Belle Époque”

Boldini lo stregone, Boldini il fauno, Boldini il pittore!
Questo e molto altro era quell’omino insolente dall’accento italiano che passeggiando per Parigi, da sotto la bombetta, guardava chiunque dall’alto in basso, ricambiando un saluto con una smorfia di distaccato disappunto. Lui, figlio del modesto pittore-restauratore Antonio, sapeva cosa fosse il disagio, avendo provato sulla sua pelle l’umiliazione della miseria, di quel corpicino striminzito compreso in un solo metro e cinquantaquattro di altezza. Lui che da giovane non era stato considerato un buon partito per il suo unico grande amore, Giulia Passega, andata in sposa a un giovanotto di buona famiglia, impiegato alla prefettura.
Ecco chi era, davvero, Boldini: un ragazzo della provincia padana venuto dal basso, finito nei salotti dell’alta società, nel cuore pulsante della civiltà e di un’epoca che lo avrebbe consacrato quale uno dei suoi più iconici protagonisti.

La mostra Giovanni Boldini e il mito della Belle Époque pone l’accento sulla capacità dell’artista di psicoanalizzare i suoi soggetti, le sue “divine”, facendole posare per ore, per giorni, sedute di fronte al suo cavalletto, parlando con loro senza stancarsi di porle le domande più sconvenienti, fino a comprenderle profondamente e così coglierne lo spirito, scrutandone l’anima.

Farsi ritrarre da Boldini significava svestire i panni dell’aristocratica superbia di cui era munificamente dotata ogni gran dama degna del proprio blasone. Occorreva stare al gioco e accettarne le provocazioni, rispondendo a tono alle premeditate insolenze ma, infine, concedersi, anche solo mentalmente, facendo cadere il muro ideologico dell’alterigia, oltre il quale si celavano profonde fragilità.

Dopo giorni di pose immobili, conversando e confessandosi, durante i quali il “fauno” poteva anche permettersi il lusso di perdere intenzionalmente tempo tracciando svogliatamente qualche segno sulle pagine di un taccuino per osservarle e comprenderle o abbozzare uno studio su una tavoletta, quando la confidenza era divenuta tale da addolcire gli sguardi e talvolta esplodere perfino nel pianto liberatorio e più spesso in atteggiamenti nevrotici o eccitati fino alla follia, ecco che solo allora scattava la scintilla predatoria dell’artista.

Egli coglieva al volo l’attimo fuggente, quel momento unico in cui un’occhiata più sincera rivelava lo stato d’animo e la mimica del corpo si faceva più espressiva, l’istante in divenire fra un’azione e l’altra, quando la forza motoria di un gesto si esauriva, rigenerandosi prontamente in quello successivo.
Negli anni della maturità e poi della senilità, le lunghe e vorticose pennellate, impresse come energiche sciabolate di colore, rimodellavano in senso dinamico i corpi delle sue “divine” creature e il suo stile, a un tempo classico e moderno, costituiva la miglior risposta alle vocazioni estetiste e progressiste manifestate dagli alti ceti sociali.

Attraverso 80 opere, la mostra si articola in sei sezioni tematiche Il viaggio da Ferrara a Firenze, verso Parigi; La Maison Goupil; La fine del rapporto con Berthe, Gabrielle e i caffè chantant; Il “soffio vitale” nel ritratto ambientato; Il gusto fin de siècle; Le nouveau siècle – che seguono gli anni di attività di Boldini e ne narrano la completa parabola espressiva.

Allestimento della mostra “Boldini e il mito della Belle Époque”

Prima sezione – Il viaggio da Ferrara a Firenze, verso Parigi
Nel 1863 ottenne 29.260 lire quale parte dell’eredità lasciata anni prima dal prozio paterno, somma che nel volgere di qualche mese (1864), gli consentì di lasciare per sempre Ferrara e raggiungere il principale centro culturale e artistico dell’epoca, Firenze, entrando in stretto contatto con i Macchiaioli e stringendo amicizie fondamentali come quella con Telemaco Signorini.

Nell’indagare con attenzione le fasi iniziali dell’attività artistica del precocissimo Giovanni Boldini, ossia il periodo ferrarese compreso tra il 1857 e il 1864, si evidenzia anzitutto il controverso quanto pregnante rapporto che egli ebbe con il padre pittore Antonio.
Il ventenne pittore ha modo di apprezzare il mutato clima politico e sociale, iniziato con l’annessione di Ferrara al nuovo stato sabaudo grazie ai risultati del Plebiscito del 1860. Gli esiti positivi si avvertono subito, grazie al nuovo fervore culturale e ad un rinnovato edonismo, nato in contrapposizione al mesto e stagnante clima penitenziale della dominazione papalina. Giovanni assorbe come una spugna tutto ciò, anche se questa aria di fermento lo investe soprattutto nel versante ludico e amoroso, vista la giovane età. Egli intreccia relazioni con alcune ragazze ferraresi, che talora ritrae (come nel romantico “La pensée”), frequenta feste e ritrovi, veste gli abiti del sarto Delfino Santi, il più ricercato della città, e si stacca sempre più dall’influsso del padre.

Nel 1866 Boldini partecipò alla sua prima mostra collettiva, organizzata dalla “Società di incoraggiamento in Firenze”, con due quadri. Scrisse allora acutamente Telemaco Signorini che aveva evitato la convenzione di far risaltare su un fondo uniforme il volto dell’effigiato (come faceva a Ferrara Giovanni Pagliarini, il miglior ritrattista locale).

Seconda sezione – La Maison Goupil
Nell’ottobre del 1871, quando risiedeva a Firenze e terminati i viaggi che si alternarono fra Ferrara, la Francia e l’Inghilterra, Boldini si trasferì definitivamente a Parigi, abitando inizialmente nell’Avenue Frochot e poi a Place Pigalle con la modella e compagna Berthe e iniziando una stretta collaborazione con il potente mercante Goupil, conclusasi nel 1878.

Subì il fascino abbagliante di Marià Fortuny i Marsal – prima di lui capofila dei pittori della Maison Goupil – e dei suoi orditi grafici traboccanti di luccichii. Vi vedeva definitivamente imboccata la strada di quel progresso tanto atteso e la provvidenziale opposizione al concetto di separazione fra l’opera e l’autore, chiamato dal verismo di Capuana a scomparire ed eclissarsi nel testo, tacendo le sue opinioni, affinché gli eventi si producessero in perfetta autonomia, trascritti quale fedele specchio moralistico della realtà.

Il folklorismo spagnoleggiante di Fortuny aveva del resto influenzato anche quella stagione della pittura del Mezzogiorno d’Italia e così Michetti, nel Corpus Domini, spiegava senza incertezze le sue eloquenti iperboli cromatiche, traslate, anche nei timbri retorici, nel successivo gergo dannunziano. Boldini, dal canto suo, aveva invece in parte disattivato il prototipo fortunyano, mutuandone le accezioni peculiari, specialmente quelle ornative, trascrivendole però in un contesto lessicologico estremamente complesso e vario. Se ne svincolò più facilmente nei ritratti e questo fu possibile soprattutto grazie alla sua strabiliante padronanza tecnica, capace di ridurre nell’ombra perfino il geniale caposcuola catalano, con il quale, nei primissimi anni Settanta, si avvicendò quale pittore capofila della Maison Goupil.

Gli echi del fortunysmo non risuonarono tuttavia a lungo nel modellato dell’artista e sullo scorcio degli anni Settanta quegli schemi descrittivi, fin lì di grande successo, furono completamente scompaginati dal definitivo crescendo della sua sensibilità dinamica.
I luccicanti saloni dei fastosi palazzi patrizi entro i quali avevano conversato deliziosamente damine e marchesini svanirono per sempre dall’immaginario pittorico boldiniano, e con essi il gusto Impero e le certezze sociali nelle quali si era riconosciuta fino ad allora l’alta borghesia francese.

Terza sezione – La fine del rapporto con Berthe, Gabrielle e i cafè chantant
Sulla rive droite della Senna, nella zona tra la collina di Montmartre e Place Pigalle – dove il peintre italien visse, al numero 11, fino al 1886 – si trovavano vere e proprie “case d’artista”. Sullo stile di vita bohémien e sul clima decadente delle piccole strade che correvano sconnesse fra gli slarghi e le vigne della vecchia provincia agricola, la sera si apriva lo scandaloso sipario del demi-monde, inondato dall’alcol e gremito di prostitute i cui clienti abituali erano gli stessi mariti ed “irreprensibili” capifamiglia della borghesia
francese, che le disprezzavano di giorno.

Gli ultimi ritratti di Berthe risalgono al 1878-80, anche se l’unione della modella con Boldini dovette durare, come testimoniano gli appunti di viaggio di Signorini, almeno fino al luglio 1881: «...alla locanda per aspettare Tivoli ed andare in campagna da Boldini. Arrivo a Chatou presso Bougival, visto Boldini e Berta…».

Più o meno in questo periodo, evidentemente ma misteriosamente, si chiuse uno dei capitoli più felici della vita dell’artista.
Così quella incantevole figura di ragazza, seducente e naturalmente aristocratica, la sua prima vera divina, dopo un intero decennio lasciava definitivamente il posto a Gabrielle, la sua rivale in amore, che già dal 1875 si incontrava in segreto con il celebre artista in una garconiere presa in affitto in rue Demours.

Durante gli incontri segreti con la nobildonna, moglie del conte Costantin de Rasty, il pittore la ritrasse rappresentando una bellezza sensuale e misteriosa nella quale prevalgono l’ebbrezza della passionalità e una costante tensione psicologica, vissuta fra consapevolezza del pericolo e sopraffazione dei sensi: “È bella, è bruna, e ardente. Altolocata e ammogliata anche. Un’amica ricevuta nei migliori salotti, che sapeva tutto di tutti, adorabile pettegola, divertentemente sagace, di fronte alla quale la femminile esperienza e la sottile astuzia della povera Berthe erano divenute puerili attitudini quanto mai sprovvedute”.

Trasportato dalle vertigini della passione, l’artista si era trovato quasi occasionalmente a spingere con foga, per la prima volta senza censure, su un pedale narrativo sfrenato, a lui sconosciuto, mediato soltanto dall’eleganza del filtro stilistico, quasi come se i propositi creativi e culturali posti in opera a termine degli appuntamenti clandestini potessero riscattare o restituire dignità a quella relazione fosca, fondata sul tradimento della compagna e del marito.

Nella cosmopolita Ville Lumière dei café-chantant e degli Impressionisti fiorirono le aspirazioni di un’intera generazione di donne che incarnavano lo spirito stesso della modernità. Artiste, come le pittrici Berthe Morisot e Mary Cassatt o la scultrice Camille Claudel, ma anche scrittrici, attrici e cantanti o più semplicemente eccentriche protagoniste del loro tempo, vivevano con rinnovato senso d’indipendenza la propria condizione femminile.

Quarta sezione – Il “soffio vitale” nel ritratto ambientato
L’inedito riversarsi a Parigi di centinaia di pittori, ognuno tormentato dalla permanente ossessiva necessità di individuare scorci, figure e soggetti originali, dette luogo a una sorta di “studio di massa” senza precedenti – al limite della psicoanalisi – dei luoghi, degli ambienti e delle attitudini di quell’umanità così eterogenea.

Da esperto casanova, Boldini intratteneva in studio le sue modelle tentando di rompere l’etichetta attraverso pungenti boutades, apparentemente fuori luogo e, contando sull’effetto sorpresa, orchestrava conversazioni inaspettatamente confidenziali e provocatorie, sostanziate in frizzanti scambi di battute.

Con estrema sfacciataggine, sollecitava facili risate, allentando così i freni inibitori e vincendo l’imbarazzo delle sue muse ispiratrici, psicologicamente turbate e obbligate a rispondergli a tono. In un susseguirsi di parafrasi e giochi di parole, confessava la sua ammirazione per loro. Se da un lato le attaccava dubitandone sfacciatamente l’integrità morale, proferendo domande e velate proposte normalmente irricevibili da una gran dama di nobili costumi, dall’altro, altrettanto maliziosamente, invocava la loro compassione lamentando la poca considerazione che avevano dell’artista e soprattutto dell’uomo.

Di domanda in risposta le anime più fragili vacillavano, fornendo talvolta torrenziali confessioni sul loro stato di donne e mogli incomprese e insoddisfatte. Così “l’amico sensibile”, l’amateur di lungo corso, il grand maître peintre, lo stregone custode degli arcani segreti della bellezza e dello charme femminili, sussurrava loro qualche utile suggerimento per riaccendere il fuoco della perduta passione.

Quinta sezione – Il gusto fin de siècle
Possedeva un’allure particolare, avvolta da un’aura di mistero, e le sue reparties alimentavano il mito della donna irraggiungibile, caratterizzato dall’esprit des Guermantes. Le sue plateali sfuriate costituivano un monito di alterigia per il prossimo, la stessa che vive negli occhi e attraverso le posture perfettamente equilibrate e gli abiti di alta moda delle femmes divines di Boldini.

La contessa Greffulhe, figlia di Joseph de Riquet de Caraman, principe di Chimay, e moglie del visconte Henry Greffulhe, erede di un impero finanziario e immobiliare, pianificava le proprie apparizioni con oculatezza, presentandosi in pubblico con elegantissimi e talvolta eccentrici abiti di tulle, garza, mussola e piume o con originalissimi kimono, con soprabiti di velluto a motivi orientaleggianti, firmati da Worth, Fortuny, Lanvin e Babani.

Manifestazioni di estremizzato egocentrismo come quelle della contessa Greffulhe, pur fra molte critiche, godevano, tuttavia, di un plauso diffuso e costituivano la prolessi dell’emancipazione femminile in progressivo e incalzante divenire.
Nel 1901 Boldini dipinse uno dei ritratti più iconici della sua carriera di artista, quello di Cléo de Mérode, la ballerina dell’Opéra di Parigi, famosa per la sua bellezza eterea.

Figlia della baronessa Vincentia de Mérode e di un gentiluomo austriaco dell’alta società che non la riconobbe, Cléo era timida e introversa, estremamente differente dalla maggior parte delle sue compagne di fila, per natura della loro stessa professione, chiassose ed eccentriche.
Era composta ed elegantissima, vestita negli abiti di Jacques Doucet. A volte, nei momenti di pausa dal ballo, se ne stava da sola a leggere un libro. Non amava il demi-monde, sebbene la sua popolarità infastidisse alcune grandi cortigiane come Liane de Pougy che, nel 1904, in un roman à clef intitolato Les Sensations de Mlle de La Bringue la ritrasse quale “Méo de la Clef: … Cette demoiselle de La Clef personnifiait l’amour sans le faire…”.

L’eccezionale fotogenia della piccola Cléo e le sue forme sensuali ma al contempo aggraziate fecero di lei un modello di bellezza estremamente emancipato, dal quale rimasero affascinati artisti del calibro di Gustav Klimt, Henri de Touloue-Lautrec, Edgar Degas e, naturalmente, Boldini, che ne restituì un’immagine di universale modernità ed eleganza.

Sesta sezione – Le nouveau siècle
L’artista ritraeva le sue donne un attimo prima che, sopraggiungendo l’autunno della vita, la loro bellezza appassisse per sempre, che le loro foglie di rose profumate cominciassero a cadere. A volte, come uno stregone, raccoglieva i fragili petali e con un gesto d’amore ricomponeva quei fiori appassiti restituendogli un attimo di eterna primavera. Ritraendo le sue donne, Boldini rappresentava un’epoca, la bella epoca, prima quella della sua giovinezza, quando Parigi felice e opulenta viveva l’ebbrezza del benessere economico e del progresso sociale e, poi, quella della senilità e della decadenza, quando il primo conflitto mondiale inibì la pubblicazione delle riviste di moda e il maestro si scoprì inesorabilmente vecchio.

…Milli subì il fascino misterioso di quel piccolo uomo dallo sguardo ipnotico che tante cose aveva da raccontare, di quell’anziano signore dai finissimi capelli biondi, dalla bocca fresca e dai grandi, vivaci occhi azzurri, lo ascoltava parlare per ore seduta sulle bergères sulle quali avevano posato, prima di lei, le divine muse del diabolico ritrattista, ora con la vista compromessa, riparato alla luce tiepida di quelle pareti, dalle quali come fantasmi, come stelle di un firmamento tramontato per sempre, spuntavano i volti traslucidi delle sue femmine e guardandoli si udivano le «…voci, voci di donne morte od invecchiate, voci di ammiratrici, di amiche, di amanti… Vous rappelez-vous, Boldini? Grida dal quadro da cui protende il busto opulento la bella madame J. de C. che sentimmo vecchia ripetere con desolata monotonia la domanda angosciosa che fa pensare al grido dei dannati ricordanti la vita… Vous rappelez-vous, Boldini?»”.

Con avidità mefistofelica Boldini, per oltre sessant’anni, aveva fatto sfilare sulle sue sedute Impero le donne più avvenenti dell’alta società francese, immobili e intimidite sotto lo sguardo rapace e diretto del genio che – parafrasando artisticamente i loro dialoghi, riferendo di loro ciò che esse volevano più di ogni altra cosa tacere – le adulava e le invitava a esprimersi senza indecisioni, perché a un artista, come a un medico, si doveva confidare proprio tutto. Si inebriava con la fragranza del loro profumo ogni volta diverso e metabolizzava l’essenza delle loro personalità controverse per poi sferrare impietosamente il suo fendente con il pennello, riducendo a niente quel presupposto perbenismo che avevano voluto manifestare entrando per la prima volta nel suo studio.


SEDE
Palazzo Mazzetti
Corso Vittorio Alfieri, 357
Asti

INFORMAZIONI
T. +39 0141 530 403
M. +39 388 164 09 15
www.museidiasti.com
info@fondazioneastimusei.it
prenotazioni@fondazioneastimusei.it

ORARI
Martedì – domenica 10.00/19.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)
Lunedì chiuso

Hashtag ufficiale

#BoldiniAsti

Ufficio StampaArthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

Treviso, Museo Civico Luigi Bailo: Arturo Martini – È dovere per la città una mostra riservata al proprio “figlio”

ARTURO MARTINI. I capolavori

Treviso, Museo Luigi Bailo

31 marzo – 30 luglio 2023

Mostra a cura di Fabrizio Malachin e Nico Stringa

A Treviso sono state realizzate tre mostre dedicate ad Arturo Martini. La prima nel 1947, quasi del tutto dimenticata, a torto, era stata allestita a pochi mesi dalla scomparsa dell’artista. La seconda nel 1967 rimane epica per il gran numero di opere radunate per l’occasione, per la cura di Giuseppe ‘Bepi’ Mazzotti, e ancora per la progettazione degli allestimenti di Carlo Scarpa. L’architetto inscenò negli ambienti del Museo Santa Caterina soluzioni di altissima suggestione che fecero scuola per molti anni per gli allestimenti delle esposizioni temporanee. Questi fatti resero quella mostra l’evento martiniano per antonomasia, facendo conoscere e riscoprire Martini al grande pubblico. La terza nel 1989 in occasione del centenario della nascita. Fu questo un evento che si poneva l’obiettivo d’indagare la fase giovanile dello scultore, analizzando il periodo e le opere comprese tra il 1905 il 1921. Molte le opere inedite presentate in quell’occasione, valorizzando tutti gli apporti e le culture che contribuirono alla formazione dell’artista. A distanza di oltre 30 anni dall’ultimo evento organizzato a Treviso (75 dal primo), organizzare una grande mostra che raccolga i capolavori diventa una straordinaria opportunità e una sfida. Dopo quella di Scarpa-Mazzotti, un’occasione per i più qualificati studiosi per fare il punto sugli studi martiniani, esaltando la dimensione e la modernità del genio della scultura del Novecento. Recentemente (maggio 2022) è stato completato il restaurato del complesso museale “Luigi Bailo”: elegante e moderno ben si presenta oggi per accogliere le ricche collezioni civiche ma anche grandi mostre temporanee.

Arturo Martini, La Nena, terracotta, 1929 circa

Quello permanente è un allestimento dedicato ad opere dalla fine dell’800 tra Treviso e Venezia (Luigi Serena, i Ciardi, gli artisti capesarini eccetera), con l’arte di Alberto Martini e Gino Rossi, ma soprattutto con l’artista trevigiano per eccellenza dell’epoca, Arturo Martini. È doveroso evidenziare che il Museo Bailo ospita la più ampia collezione pubblica martiniana, un vero e proprio palinsesto con la produzione giovanile, le ceramiche, le grafiche e celebri sculture fino agli anni della sua maturità. L’anima del Museo si annuncia fin dall’esterno del complesso: una studiata parete finestrata lascia intravvedere, anche ai più distratti passanti sulla pubblica via, un maestoso gruppo scultoreo di Martini, collocato nel primo chiostro dell’Istituto. Si tratta del gruppo di Adamo ed Eva, opera dalle proporzioni monumentali, concepita proprio per spazi esterni visto che fu realizzata dallo scultore nel 1931 per il giardino della Villa di Acqui Terme di Herta von Wedekind e Arturo Ottolenghi. Una scultura che è uno dei capolavori del Museo Bailo, sia per ciò che rappresenta dal punto di vista estetico e nel catalogo martiniano, ma anche per la sua alta valenza simbolica: l’Adamo ed Eva fu assicurato alle collezioni cittadine grazie al concorso di molti privati cittadini che, attraverso una pubblica sottoscrizione, ne consentirono l’acquisto nel 1993: la mostra si colloca così nella ‘casa’ di Martini, e simbolicamente nel trentennale di questa straordinaria acquisizione. L’evento inaugurale che ha aperto il nuovo museo Bailo è stato la mostra “Canova Gloria Trevigiana. Dalla bellezza classica all’annuncio romantico”, curata da F. Malachin, G. Pavanello, N. Stringa: un’esposizione di successo che si è posta sulla scia della prima monografica assoluta dedicata ad Antonio Canova, inscenata a Treviso nel 1957 da Luigi Coletti, raccontando aspetti inediti in modo accattivante. Quella dedicata a Canova è stata la prima tappa di un percorso ideale nella storia della scultura che sta conducendo il nostro Istituto: partendo da Antonio Canova si arriva fino ad Arturo Martini, passando da Luigi Borro e da Antonio Carlini (quest’ultimo fu maestro di Martini tra il 1905 e il 1908). Tra la mostra di Canova e quella di Martini, sarà infatti allestita (dicembre 2022 – marzo 2023) una mostra dedicata a Carlini (la prima mostra in assoluto a lui riservata facendo conoscere uno scultore quasi completamente inedito), creando un’ideale filo rosso che consentirà di apprezzare l’evoluzione del linguaggio della scultura moderna (gli eventi riservati ai cosiddetti ‘minori’, come possono sembrare gli scultori Borro e Carlini, sono non solo un dovere per i nostri Istituti, ma un contributo essenziale per apprezzare perché i ‘grandi’ devono essere qualificati come tali e, nel nostro caso, a meglio comprendere Martini che sviluppò la sua straordinaria arte innovativa anche come reazione alle regole carliniane). Tra le motivazioni non è secondario il rapporto dell’artista con il territorio trevigiano dove è nato, si è formato e dove ha continuato a coltivare amicizie e affetti. Una grande mostra riservata al ‘suo figlio’ è un dovere per la città, un’occasione per tutte le città dove ha vissuto e operato, un’opportunità per i musei e i collezionisti che conservano i suoi capolavori: un rinnovato impegno pubblico quindi, com’è una mostra, per rinnovare l’attenzione per uno dei più importanti scultori di tutti i tempi in coincidenza (lieve il ritardo) con il 75° della morte.


Ufficio Stampa:
Studio ESSECI, Sergio Campagnolo
Tel. +39 049.663499 roberta@studioesseci.net (Roberta Barbaro)

Roma, Museo Nazionale Romano: Il programma degli interventi per il restauro delle quattro sedi

Museo Nazionale Romano: il programma degli interventi per il restauro delle quattro sedi


Il Museo Nazionale Romano si prepara a divenire uno dei principali cantieri culturali della Capitale

Il progetto “Urbs, dalla città alla campagna romana“, finanziato dal Programma Nazionale per gli investimenti Complementari al PNRR, permetterà la realizzazione nei prossimi anni di un articolato programma di lavori nelle quattro sedi del MNR per completare il restauro degli edifici storici di sua competenza, rispondere alle emergenze legate all’invecchiamento degli impianti e aprire nuovi monumentali spazi espositivi.
Il risultato sarà l’ampliamento e la riorganizzazione del percorso museale in tutte e quattro le sedi, con la restituzione al pubblico di molte opere finora invisibili. Si racconterà la storia di Roma, dalle origini all’epoca contemporanea, anche attraverso i risultati più recenti dell’archeologia, privilegiando una visione innovativa, che renda il percorso accessibile a tutti i tipi di pubblico.

Il Museo Nazionale Romano, insieme al Parco Archeologico dell’Appia Antica, è tra i 14 «grandi attrattori culturali» scelti dal MiC aventi ad oggetto interventi strategici per il rilancio della cultura e del turismo in Italia. Il Museo ha ottenuto uno stanziamento di 71 milioni di euro, che si aggiunge ad altri finanziamenti pregressi, per un totale di circa 100 milioni complessivi. Il programma interessa le quattro sedi delle Terme di Diocleziano, di Palazzo Massimo, di Palazzo Altemps e della Crypta Balbi, tutte al centro di un progetto di restauro e riallestimento che, conformemente al cronoprogramma del PNRR, durerà quattro anni.

Durante il completamento dei lavori, che comporterà parziali chiusure nelle quattro sedi del Museo, si alterneranno presentazioni tematiche temporanee per mostrare opere poco note o mai viste, pezzi finora relegati nei depositi e manufatti restaurati recentemente.

Terme di Diocleziano

Rifacimento dell’impiantistica, verifiche statiche e controlli antisismici sono necessari per il ripristino e l’apertura al pubblico delle sette Grandi Aule attorno alla basilica di Santa Maria degli Angeli. Gli ambienti maestosi, che ospitarono nel 1911 la grande mostra archeologica per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, amplieranno la superficie espositiva del Museo, permettendo la presentazione permanente e ciclica di opere e di contesti molto importanti, ma da decenni nascosti al pubblico.
Inoltre, grazie a un accordo stipulato con la Soprintendenza Speciale di Roma e il Parco Archeologico dell’Appia Antica, saranno restituiti al percorso museale i piani superiori delle quattro ali del Chiostro di Michelangelo, in tutto quasi 400 m di lunghezza di portico (circa 100 m per lato), e quelle del chiostro piccolo della Certosa, 160 m di estensione (40 m per lato). Spazi importanti, quelli della Certosa di S. Maria degli Angeli, che, per il nuovo allestimento del Museo, accoglieranno la storia della città nel contesto del Latium Vetus (Lazio antico), dalle origini fino all’epoca di Diocleziano. Al primo piano del Chiostro di Michelangelo, saranno esposti i contesti che raccontano la storia più antica della città, dalle origini fino alla fine della repubblica, cioè dal X al I secolo a.C. Dalle necropoli protostoriche, già presentate, di Roma e dell’Osteria dell’Osa a Gabi, si continuerà con quelle, orientalizzanti, di Castel di Decima, Laurentina e Ficana (VII sec. a.C.). Grazie a un finanziamento della Confederazione Elvetica, è in corso il restauro di una grande tomba principesca della necropoli della Laurentina, la n. 93, mentre con un contributo della Fondazione Droghetti si lavora al recupero della ricca tomba femminile 359 di Castel di Decima. Nella terza ala saranno presentati i centri del Lazio arcaico come Crustumerium, Fidene, Gabi e Lanuvio, con la famosa Tomba del Guerriero, mentre nella quarta ala verrà raccontata la trasformazione di Roma e dei centri del Lazio antico dall’epoca medio-repubblicana (IV sec. a.C.) fino al II-I secolo a.C., con santuari ed ex voto provenienti dal Tevere e da centri come Ariccia. Nelle gallerie al primo piano del Chiostro piccolo della Certosa, sarà presentata la città imperiale: a partire dai recenti ritrovamenti della Soprintendenza Speciale di Roma, sì racconterà la “città dei vivi” dall’epoca di Augusto fino a quella di Diocleziano. Una sezione a parte è riservata alla “città dei morti”, con la documentazione funeraria. Verranno esposte in un unico racconto iscrizioni funerarie, sarcofagi, rilievi, urne, ritratti e corredi funerari databili tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C. Il percorso sulle necropoli continuerà nei giardini, con moltissimi reperti, e nella forica, cioè nella latrina termale antica. Ci sarà anche una sezione dedicata alla storia del complesso delle Terme di Diocleziano e alla sua trasformazione in Certosa nel Cinquecento; infine un’ultima sezione, ricavata all’interno delle Grandi Aule, offrirà un’introduzione breve e spettacolare alla storia di Roma per chi, arrivando alla stazione Termini, avrà solo un tempo limitato da dedicare alla visita.

Palazzo Massimo

A Palazzo Massimo il progetto principale è quello di coprire il cortile interno in modo da ampliare il percorso di visita esponendo le tante opere oggi conservate nei magazzini e fornendo la possibilità di creare un ambiente immersivo dove evocare l’Impero romano attraverso la ricostituzione di un luogo iconico, come un santuario. Il tema del percorso sarà quello di Roma come centro dell’Impero, dall’epoca di Augusto fino a quella di Massenzio (dal I all’inizio del IV sec.): la vita e la successione degli imperatori; la complessità della religione e la diversità dei culti; le conquiste e i loro effetti sull’economia e sulla rappresentazione romana del mondo; il lusso privato, l’otium, la cultura e la vita nelle residenze aristocratiche. Al piano terra verranno esposti i documenti più significativi per la storia dell’Impero, dai Fasti e i Ludi secolari alle celebri insegne del potere di Massenzio. Il primo piano sarà dedicato all’Impero, alle sue conquiste, alle tante religioni che vi erano praticate e rappresentate, dall’Egitto all’Oriente. In sintesi la grandezza di Roma. Qui troveranno posto materiali esotici provenienti da Asia e Africa, con un allestimento multisensoriale. Il secondo piano resta dedicato all’otium, con le grandi ville suburbane come quella di Livia e della Farnesina, animate da splendide pitture, ma anche da una ricca e raffinata vita intellettuale, con la letteratura greca e latina. Sarà inoltre riaperto il Medagliere, il più grande e antico che si conservi, chiuso per l’emergenza Covid, e sarà ampliato il numero di monete esposte, che saranno inserite in tutti i percorsi tematici del Museo Nazionale Romano per creare una sorta di medagliere diffuso nelle quattro sedi.

Palazzo Altemps

Palazzo Altemps rimarrà il luogo del collezionismo, incentrato sulla collezione Boncompagni Ludovisi, che farà da filo conduttore alla visita. Ma il nuovo percorso, più didattico, farà capire i tanti modi in cui, dall’antichità all’epoca rinascimentale e moderna, la scultura greca era reinterpretata e trasformata, a seconda dei vari contesti sociali e intellettuali in cui era utilizzata. 
Il nuovo percorso inizierà, al piano terra, con una presentazione sintetica della lunga storia del Palazzo e delle famiglie che l’hanno creato e trasformato. La sezione successiva mostrerà in modo concreto cos’era una collezione di scultura nella Roma nel Seicento: attraverso la collezione Boncompagni Ludovisi si racconterà come venivano scelte le opere, come venivano restaurate, come venivano realizzate creazioni originali a partire da frammenti, pastiches, o create delle versioni moderne di opere antiche.
Si illustreranno poi i diversi usi della scultura greca in età imperiale. Nei nuovi spazi intorno alla sala del Gioiello si succederanno gli originali greci, come il Trono Ludovisi, le copie romane di opere di Mirone, Policleto e Fidia, anche trasferite da Palazzo Massimo e dalle Terme di Diocleziano, e le creazioni romane elaborate a partire da modelli greci, come le Erme Ludovisi.
Il primo piano accoglierà le rielaborazioni romane delle opere dei grandi maestri come Prassitele e Lisippo, per mostrare quanto è labile il confine tra originali greci e copie romane e, infine, i rapporti tra scultura greca e romana in epoca ellenistica, con un contesto eccezionale e poco conosciuto quale il gruppo di sculture da giardino di Fianello Sabino di fine II – inizi I sec. a.C., che costituisce la più antica collezione di sculture greche conservata nella zona di Roma.
Lo scrigno straordinario di Palazzo Altemps, uno dei più begli edifici nobiliari rinascimentali di Roma, situato a due passi dalla piazza Navona, sul percorso turistico più importante del centro storico, è il luogo ideale per presentare, oltre alla collezione Boncompagni Ludovisi, i più grandi capolavori della scultura antica, quali il discobolo Lancellotti, il pugile seduto e il principe ellenistico di bronzo.
I lavori di restauro della sede, in parte già avviati, riguardano il recupero del secondo cortile, la sala del Gioiello, e il suo portico realizzato agli inizi del Cinquecento, così da restituire al pubblico un vasto ambiente di 400 mq, spazio straordinario, coperto da un lucernario agli inizi del Novecento. L’intervento riguarda anche il restauro dell’altana, la più antica di Roma; il ripristino del teatro, l’unico conservato in un palazzo privato romano, e la fruizione della Chiesa, dove Gabriele D’Annunzio sposò Maria Hardouin di Gallese, che ospiteranno concerti ed eventi culturali.

Crypta Balbi

Attualmente, la Crypta Balbi è conosciuta come il museo in cui si presenta la trasformazione della città tra la tarda Antichità e il Medioevo. In realtà, questo museo copre solo una minima parte della sede di Crypta Balbi. Attualmente, il 90% circa della superficie dell’isolato di competenza del Museo Nazionale Romano non è accessibile, a causa dello stato drammatico di degrado degli edifici e dell’impossibilità, per ragioni di sicurezza, di aprire al pubblico il percorso archeologico. 
Il progetto prevede il ripristino dell’intera area comprendente il convento cinquecentesco voluto da Ignazio di Loyola e gli edifici circostanti, che presentano una stratigrafia che va dal 1300 a tutto il 1900.
La Crypta Balbi conserva inoltre preziose testimonianze della storia recente, di cui abbiamo il dovere di conservare la memoria, dalle vicende più tragiche della Seconda Guerra Mondiale, come il rastrellamento del 16 ottobre 1943 nel Ghetto, agli Anni di Piombo, con la scoperta del corpo di Aldo Moro il 9 maggio 1978.
L’intervento, da 71 milioni di euro, conserverà e valorizzerà queste memorie attraverso restauri filologici che non privilegeranno un’epoca o un’altra, ma che si soffermeranno su ogni fase della storia di Roma, restituendola al grande pubblico e ai romani.
Una volta concluse le operazioni di sgombero e di messa in sicurezza degli edifici, la fase dei lavori partirà a breve, rendendo necessaria una chiusura temporanea della sede museale a partire da gennaio per tutto l’anno 2023. 
Il primo obiettivo è quello di ampliare il percorso espositivo, presentando la storia di Roma da Costantino fino all’epoca contemporanea. Sarà organizzato in tre grandi sezioni: nella prima, su via delle Botteghe Oscure, sarà presentata Roma e le sue trasformazioni dall’epoca di Costantino fino al Medioevo. Lo spazio espositivo sarà fortemente ampliato, con il ripristino del cortile interno.
Il piano terra sarà dedicato alle trasformazioni della tarda Antichità, dal IV al V secolo. Al primo piano sarà presentato l’inizio del Medioevo, con i Longobardi, dal VI fino all’VIII secolo, mentre al secondo piano il percorso cronologico si estenderà dall’età Carolingia fino all’XI secolo.
Si passerà nella seconda sezione del museo attraverso le gallerie sotterranee del complesso monastico. Il percorso riguarderà il quartiere antico della Crypta Balbi, con la visita dei resti archeologici intorno all’esedra, al mitreo e al quartiere abitativo. 
La terza sezione, su via dei Delfini, verso il Ghetto, si concentrerà sulla storia moderna e contemporanea di Roma, da Ignazio di Loyola fino ad Aldo Moro.
Nel progetto complessivo, che sarà portato a termine grazie al programma Urbs del PNC, il museo è solo una parte del quartiere culturale che l’isolato della Crypta Balbi diventerà nei prossimi anni. 
L’area centrale e i cortili annessi saranno liberamente accessibili e fruibili dai cittadini e dai visitatori, attraverso un passante urbano che prevede quattro accessi, uno su ciascun lato dell’isolato, a cominciare da via Caetani e poi via delle Botteghe Oscure, via dei Polacchi e via dei Delfini. Saranno presenti dei luoghi di ristoro e dei laboratori artigianali, nonché delle zone di incontro e di convivialità. L’isolato di Crypta Balbi sarà anche dotato di un centro studi, di un centro d’archivio e di produzioni digitali, di una foresteria per studenti, studiosi e artisti e da un centro per gli eventi e per le mostre temporanee. Si tratta quindi di restituire alla comunità un pezzo straordinario della città, che diventerà a tutti gli effetti un grande quartiere culturale nel cuore di Roma, in un contesto storico e archeologico di eccezionale rilevanza.

Il ripensamento del Museo Nazionale Romano attraverso un progetto unitario e lungimirante, che coinvolge edifici e opere, si impone dunque come scelta necessaria e prioritaria, rispondente ad esigenze non più procrastinabili, di tutela, di riqualificazione e di valorizzazione urbana e sociale.


Uffici Stampa

MUSEO NAZIONALE ROMANO
Angelina Travaglini | mn-rm@beniculturali.it

Adele Della Sala | ads@ufficiostampa-arte.it
Anastasia Marsella | am@ufficiostampa-arte.it

Venezia: Centocinque opere d’arte contemporanea tra stampe, sculture, serigrafie, dipinti, arazzi, arricchiscono la Città  

La galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro si arricchisce di una cospicua e prestigiosa collezione di opere d’arte contemporanea

Centocinque opere di arte contemporanea dal valore complessivo di oltre 17 milioni di euro donate alla Città di Venezia.

Il sindaco Brugnaro: “Una collezione straordinaria grazie alla generosità di Gemma De Angelis Testa”.

La galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro si arricchisce di una cospicua e prestigiosa collezione di opere d’arte contemporanea da destinare alla fruizione pubblica nell’ambito del sistema museale gestito dalla Fondazione Musei civici di Venezia. La Giunta comunale, nella seduta odierna, ha infatti approvato l’accettazione della donazione della collezione Gemma De Angelis Testa: 105 opere d’arte contemporanea tra stampe, sculture, serigrafie, dipinti, arazzi, dal valore complessivo di 17.317.000 euro, come attestato dal soggetto terzo CPG Art Advisory di Milano. Si tratta della più recente acquisizione per le collezioni della Galleria e, per estensione e qualità delle opere, la più importante dai tempi del lascito de Lisi Usigli avvenuto nel 1961.

Un patrimonio artistico e culturale, che – evidenzia il provvedimento – grazie alla generosità della signora Gemma De Angelis Testa nei confronti della Città di Venezia contribuirà a promuovere e a valorizzare l’arte contemporanea a favore delle nuove generazioni.

La firma dell’atto di donazione si è svolta questa mattina a Ca’ Farsetti alla presenza del sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, e della signora Gemma De Angelis Testa, moglie del grande creativo e pubblicitario italiano Armando Testa.

“Sono davvero felice – ha dichiarato Gemma De Angelis Testa – di festeggiare questa donazione con la Città di Venezia, che ringrazio per aver reso semplice questa operazione grazie anche alla preziosa collaborazione di degli storici dell’arte Gabriella Belli e Gianfranco Maraniello. Ho visitato per la prima volta Venezia nel 1970 in occasione della Biennale d’Arte Contemporanea. Questa città mi ha regalato moltissime emozioni e proprio qui ho fatto gli incontri più importanti della mia vita: con l’arte contemporanea e con mio marito. Nel 1980 ho acquistato la prima opera della mia collezione (di Cy Twombly), che negli anni si è via via arricchita. Spero che altri collezionisti seguano il mio esempio e che il nostro Paese possa arricchirsi presto di molti altri musei di Arte contemporanea”.

“Il mondo cammina sugli esempi – ha rimarcato il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro donando alla signora De Angelis Testa un leone d’oro. Il regalo che oggi viene fatto alla città resterà alle nuove generazioni. L’invito che vorrei rivolgere a tutti coloro che ne hanno la possibilità è di donare: è un gesto di generosità che va a beneficio di tutta la collettività”.

La raccolta annovera capolavori di Robert Rauschenberg e Cy Twombly affiancati ai Maestri dell’Arte povera Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Pier Paolo Calzolari, Gilberto Zorio. Il viaggio nell’arte del secondo ‘900 si articola con opere fondamentali della produzione di Anselm Kiefer e con lavori iconici di Gino De Dominicis, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Mario Schifano e ancora sculture di Tony Cragg ed Ettore Spalletti. L’altra metà dell’avanguardia è ben rappresentata nella collezione, con le visioni di Marina Abramovic, Vanessa Beecroft, Candida Hofer, Mariko Mori, Shirin Neshat, tra le altre. Le scelte e i percorsi del gusto della collezionista partono dalla metà del secolo scorso e sviluppano un dialogo continuo con la produzione di Armando Testa. Un prezioso nucleo della donazione è costituito da 17 capolavori del geniale creativo, con opere celeberrime dagli anni Cinquanta in poi, che ripercorrono l’universo immaginifico di Armando Testa. La collezione mette in relazione tra loro autori diversi dell’arte internazionale, con le fotografie di Thomas Ruff e Thomas Struth, i lavori di John Currin, Thomas Demand, Anish Kapoor e Marlene Dumas, le tele di David Salle e Julian Schnabel in continuo rimando alle creazioni di Tony Oursler, Gabriel Orozco, Kcho. Il gusto collezionistico si esprime anche nelle importanti presenze di Sabrina Mezzaqui, Paola Pivi, Marinella Senatore mentre la dimensione internazionale della raccolta si articola nel tempo e nello spazio con lavori di Kendell Geers, Yang Fudong, Subodh Gupta, Chantal Joffe, Brad Kahlhamer, Lari Pittman. Le opere abbracciano tecniche, culture e geografie diverse, tutte centrali nella contemporaneità, da William Kentridge a Chris Ofili, da Adrian Paci a Do-Ho Suh, da Chen Zhen a Francesco Vezzoli, Bill Viola e Ai Weiwei, da Piotr Uklanski a Trisha Baga.

Annunciata in primavera, alla Galleria di Ca’ Pesaro, una mostra dedicata in cui tutte le opere saranno esposte.


Fondazione Musei Civicipress@fmcvenezia.it
Sito web: https://www.visitmuve.it/

In collaborazione con
Studio ESSECI, Sergio Campagnolo
roberta@studioesseci.net
simone@studioesseci.net

Experiences, La Biblioteca dei Libri sfogliabili: Rete d’acciaio di Clarice Tartufari

Dall’incipit del libro:

Mentre il nuovo anno, trascinato da Oriente, sopra un carro di nuvole accese, entrava nella stanza dei giovani sposi, portando loro in dono lo stormire delle foglie, sempre vive sui colli del Gianicolo, e il canto impetuoso della fontana Paolina, Ilaria, uscita allora dal sonno, aveva guardato Vaga, in piedi presso il letto, poi aveva guardato Ippolito, puntato di fianco col gomito sui guanciali, e ad entrambi aveva rivolto in silenzio la domanda medesima con la espressione esultante dello sguardo azzurro:
— Oggi è il primo giorno del primo anno che io passo qui, non è vero, Vaga? È il primo giorno del primo anno che io ti appartengo, non è vero, Ippolito?
Vaga, di una lucentezza bruna nel viso scarno, le aveva risposto con auguri di perpetua felicità, riannodandole affettuosa, sollecita, una ciocca dei capelli biondi; lo sposo aveva risposto esclamando:
— Dopo sette mesi ancora mi pare un sogno! — e, irrequieto, aveva accennato a Vaga di consegnargli un astuccio di raso, che le aveva di nascosto affidato la sera prima, e ne aveva fatto scattare la molla sotto gli occhi sbalorditi d’Ilaria.
— Sei pazzo, sei pazzo! Ha ragione papà quando lo dice! Mio Dio, che prodigio di turchesi! — aveva poi mormorato con voce assorta, quasi la gioia le facesse émpito per l’orgoglio di riconoscere una volta di più che il marito era pazzo davvero, pazzo di lei.
— Sono prodigiose perché hanno il colore delle tue pupille! — e, avanzando il mento aguzzo, corrugando nel viso a scatti l’arco accentuato dei sopraccigli neri, egli le aveva imposto con inflessione di voce innamorata, ma imperiosa:
— Mirale bene queste turchesi; mirale come se fossero uno specchio. Ti ci ritroverai col turchino de’ tuoi occhi rari. Nel passare davanti alla vetrina del nostro gioielliere, mi è parso che tu mi fissassi.
Ilaria aveva approvato, spiegandosi benissimo che il marito riconoscesse i suoi occhi in tutte le gemme di tutte le vetrine.


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Rete d’acciaio di Clarice Tartufari

Questo romanzo, pubblicato in una sola edizione nel 1919, si colloca nell’ambito del realismo incentrato sui problemi sociali delle donne che ritroviamo espressi anche in Aleramo o Deledda, temi ampiamente dibattuti a partire dal secondo decennio del Novecento.

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CLARICE GOUZY TARTUFARINOTE BIOGRAFICHE


Nota bibliografica tratta da Wikipedia
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Clarice Gouzy, sposata Tartufari (Roma, 14 febbraio 1868 – Bagnore, 3 settembre 1933), è stata una scrittrice italiana.
Dopo aver conseguito il diploma magistrale si sposa e si trasferisce a Bagnore sul Monte Amiata, in provincia di Grosseto, dove trascorrerà quasi tutto il resto della sua vita.
Inizia la carriera di scrittrice con bozzetti, poesie e racconti pubblicati in piccoli opuscoli tirati in poche copie (detti plaquettes) o su riviste. L’esordio in campo letterario avviene con la pubblicazione del volume Versi nuovi (1894), che non gode di particolare successo, a cui seguirà una seconda raccolta di poesie intitolata Vespri di maggio (1896). In seguito scrive, per una quindicina d’anni, opere teatrali, tra le quali: Modernissima (1900), Dissidio (1901), Logica (1901), Arboscelli divelti (1903), L’eroe (1904), La salamandra (1906), Suburra, Lucciole sulla neve (1907) e Il marchio (1914).
Decisamente più importante è la sua produzione narrativa, dove la Tartufari riesce a dare il meglio di sé, al punto che Benedetto Croce arriva a reputarla superiore a Grazia Deledda[1][2]. Tra i suoi romanzi più importanti: Roveto ardente (1901), molto apprezzato da Luigi Capuana, Il miracolo (1909), che fu particolarmente elogiato in Germania, All’uscita del labirinto (1914), che Giovanni Boine giudicò positivamente, e Ti porto via! (1933). Morì il 3 settembre 1933 a Bagnore.

CLARICE GOUZY TARTUFARI: NOTE STORICHE SU ENCICLOPEDIA TRECCANI
Carlo D’Alessio, GOUZY, Clarice, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 58,
Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2002.