Il punto critico
Nel XVII secolo, il Consolato dell’Arte dei Pastai, con i suoi iscritti, gioca un ruolo di grande importanza a Napoli. I pastai locali, ma anche quelli provenienti da altre provincie, tendono ad associarsi tra di loro, o con i mugnai (che spesso sono i finanziatori) o con i panettieri. Appaiono pure le prime figure imprenditoriali. La bottega, di solito, non è di proprietà del pastaio, ma possiede le qualità di una prima piccola industria, con attrezzature (gramola a stanga e torchio), materie prime in grande quantità (farine e semole), operai e garzoni (anche se pochi) che vi lavorano. La produzione è elevata come la richiesta, tanto che, ai formati classici si aggiungono altri tipi, come, ad esempio, la pastina (i “millefanti”). Anche se la clientela è ancora locale, appaiono, però, le prime grandi forniture. Il pastaio Salvatore di Avossa, nel 1636, stipula un contratto con la Casa dell’Annunziata di Napoli, per una grossa quantità di pasta bianca.
Dopo un momento di crisi economica e di approvvigionamento, nel 1647, con la rivolta di Masaniello, il prezzo della pasta a Napoli, si riporterà ad un livello adeguato, tanto che il suo consumo la inserirà nella categoria degli alimenti popolari. La diffusione crescente, che prima era cittadina, oltrepassa i limiti di città come Napoli o Genova. In pratica, l’artigianato della pasta si evolve a livello industriale.
A differenza di quello che si potrebbe pensare, la meccanizzazione giova alla qualità. La “pasta d’ingegno”, realizzata con la gramola meccanica e con il torchio a trafila, supera la cosiddetta “pasta da ferro”, cioè, quella fatta a mano. I formati sono perfetti e uguali, ma, soprattutto, in maggiore quantità e in minor tempo. La “pasta d’ingegno” sviluppa la mente. Effettivamente, la trafila permette di inventare e produrre formati impossibili da realizzare a mano. Ma il vero segreto del suo successo, sta nell’utilizzo della semola di grano duro (non più farina) per le paste di qualità.
Nel XVII secolo, si afferma, così, la realtà manifatturiera in città come Napoli. Lo attestano i numerosi viaggiatori stranieri che visitano l’Italia nei secoli successivi. I vermicellari di Napoli e i fidelari liguri primeggiano, creando un successo mitico. Nasce, dall’eccellenza dei loro pastai, la reputazione dei napoletani “mangiamaccheroni”. Si crea un’immagine “tipica”: da una parte, il pastaio con la sua bottega, che realizza i maccheroni e li cucina e, dall’altra, il napoletano che mangia vorace la pasta direttamente con le mani. È una tradizione folkloristica, che i napoletani stessi diffondono, furbescamente per incuriosire i turisti.
La produzione della pasta si allarga a macchia d’olio. Nei piccoli comuni costieri liguri e del napoletano si diffonde la lavorazione della pasta. A Napoli, cittadine intere, come Torre Annunziata e Gragnano, si specializzano, tanto che il loro nome diventa icona e sinonimo dell’ottima fattura della pasta. Ma se la lavorazione interessa città come Napoli, Genova, o le regioni storiche, un po’ in tutta la penisola si diffonde invece il suo consumo. Vengono aperti pastifici anche in Italia settentrionale, dove ancora il successo è un’innovazione tutta da “gustare”.
Siamo nel periodo degli opifici, un periodo che durerà quasi due secoli. Non più botteghe, pur se non ancora vere e proprie industrie. Un tipico modello proto-industriale. All’interno della lavorazione esistono ancora sia la confezione meccanica che quella fatta a mano. Le macchine vengono azionate a forza di braccia dagli uomini (non esistono motori) mentre il confezionamento manuale tocca alle donne. Ma anche i compiti accessori e quelli ingrati, sono loro compito, compresa la pulizia dei locali. È comunque una collaborazione tra i due sessi, in un periodo che non riconosceva l’importanza femminile nel mondo del lavoro.