Storie plurali di un territorio… per un Mediterraneo regione, non frontiera – 2/5

di Giuseppe Campione

2. Le città e le stanze del territorio, nella metafora di L.B. Alberti, scene locali dai contorni incerti e sovrapposti, che “nel loro montaggio complessivo, si catalizzeranno nei luoghi di maggiore dinamismo”, e allora la regione del nostro possibile approccio saranno connessione, relazione, in una maglia di gravitazioni e di gerarchie, saranno sistema. (G. Campione, La composizione visiva del luogo, Rubbettino, 2005).

Ma come si costruiscono le ‘città leggenda’ per un immaginario catalogo? Dalle grandi epopee letterarie eurocentriche dell’Ottocento alla filmografia contemporanea, la ‘narrazione’ della città e l’edificazione dei suoi ‘miti’ divengono le reali strategie di marketing urbano e, al tempo stesso, in modo più o meno consapevole, influiscono sui modi della città di intervenire su se stessa, come operazioni di trasformazione e cosmesi: la città prospera alimentando la propria leggenda, e il progetto architettonico – realizzato – diventa strumento della città per restare, rinnovandosi, comunque in modo percepibile all’altezza del proprio mito. Il ‘percorrere’ la città, il ‘camminare’, il ‘pedalare’, divengono in questo contesto non più solo strumenti di lettura, ma di vera e propria ‘scrittura’ delle narrazioni urbane o metropolitane.

Fattore in controtendenza, di livellamento e tendenziale omologazione percettiva delle diverse emergenti specificità di ogni mito, uno spazio pubblico che oscilla fra indebita metastasi del ‘pianeta degli slums’ e luogo globale dell’insicurezza e della paura. Ma anche la paura è un potente mezzo di narrazione: il discorso sulla città, ciò che la città narra, diviene allora “discorso della paura, esso stesso capace di contribuire, fino alla concretezza dell’intervento fisico, alla costruzione e al mantenimento del mito. In questo caso però è lo stesso mito ad omologarsi: le ‘geografie della paura’ contemporanee disegnano – e costruiscono – città che, a partire dalla loro unicità e differenza, in contesti fra loro dissimili e remoti, tendono a replicare i medesimi ‘antidoti’ rassicuranti.

Cinema, arti visive e letteratura sviluppano il “tema della città”, come, in maniera altrettanto massiccia, la pubblicità e tutte quelle immagini e discorsi che ogni giorno ri-creano le “città del mito”. In certi casi, la mappa mentale delle città può dirsi addirittura creata dall’insieme dei discorsi e delle rappresentazioni che si sono succedute e integrate componendo un’immagine che a volte oscilla tra lo stereotipo e il ritratto sfaccettato. Così ad esempio riflette Italo Calvino: Prima che una città del mondo reale, Parigi, per me come per milioni d’altre persone d’ogni paese, è stata una città immaginata attraverso i libri, una città di cui ci si appropria leggendo.
Augè (“Per inventare un nuovo futuro”, La Repubblica,1 febbraio 2005) ci riporta a quella che Lyotard chiamava la fine delle grandi narrative, un momento che corrisponde alla perdita delle illusioni: dai miti d’origine che sono spariti da tempo ai miti escatologici del futuro. Nel postmoderno spariranno anch’essi. Diamo per scontato, ad esempio, che le consuete rappresentazioni dell’integrazione mediterranea si fondino su presupposti decaduti: che le regole del gioco territoriale siano mutate e che serva ridefinire le specificità delle regioni rivierasche e dei loro possibili rapporti, nella traccia di denominatori comuni tra e nella varietà che si cela in ogni classificazione fatta dall’esterno, celandone la loro coessenzialità alla rappresentazione che partoriamo. Che il mondo mediterraneo, si riprendano le complesse definizioni, sia vario all’infinito, induce però a cercarne significato operativo ai nostri fini di geografi intenti a ridefinire le opportunità di connessione.

Una concezione suggerita dalle forme, confermata da strutture territoriali comunque fondate su baie riparate, lembi costieri di pianura, promontori difendibili anche se appoggiate a masse continentali. Fino all’estremo lembo di cultura greco-mediterranea verso nord, in fondo all’Adriatico, su una costa senza rocce, nel fango rimodellato in arcipelago della laguna, da dove Vincenzo Coronelli descriverà il mondo come un generale arcipelago, un Isolario che copriva i cinque continenti. Una concezione che affascina oggi per la sua efficacia nel dar conto di un mondo frammentato sì, ma connesso come non mai (G.Zanetto ( pro man.) e Campione, 2007, cit.).
Il declino di una concezione dello spazio geografico come susseguirsi di distese contigue, dominate da un’enfasi sui confini come sedi di conflitto, con i mari come vuoti; l’estinguersi rapido di un assetto geopolitico ha abbattuto (o, meglio, reso inutile) una frontiera che è stata caricata di significati di separazione tra mondo moderno e spazi, più o meno organizzati della povertà, spazi dei conflitti. Nella simultaneità, che sostituisce la velocità del moderno, il piccolo globo azzurro simbolo della rete globale rappresenta un mondo in cui non hanno senso le avanguardie, in cui il confine tra cultura ed economia è dissolto, in cui è decaduto il mosaico di aree omogenee garantite dal costo di superamento dell’attrito della distanza.

Ma che territorio costruisce la simultaneità della rete, dato che in esso la competizione ha infiniti partner e tutti possono sottrarsi ai monopoli ed al conformismo locali? E, ci sembra, finiscano col disegnare un paesaggio urbano diffuso che si squaderna in un territorio allargato? Territorio che non si ramifica necessariamente in conurbazioni lineari, né in sovrapposizioni sostanzialmente degradanti il tessuto urbano, ma denota rarefazioni insediative molteplici, in un processo di cariocinesi.
Il mondo contemporaneo così, ci ricorda Guarrasi (La città incompleta, Palumbo, Palermo, 2002), può essere considerato come un sistema territoriale complesso, articolato appunto in complessi regionali: ognuno di questi complessi manifesta a sua volta un certo grado di differenziazione interna derivante da vincoli storico-ambientali, la cui azione si sviluppa nel lungo periodo. Una tipologia di situazioni territoriali aperte, collocate nell’intersezione di uno spazio relazionale, con le sue relazioni verticali, orizzontali, complesse, per utilizzare Dematteis (Progetto implicito, Franco Angeli, Milano,1995). Un territorio urbano pensato al plurale, perciò, dove si accumulano, si sedimentano storie plurali. Nella polifonica dissonanza e nella programmatica incompletezza dell’agire umano: Un evento che accade, che sta accadendo e che si disloca perturbando, disordinando, secondo i canoni decostruttivi di Derrida (Come non essere postmoderni, Medusa, Milano,2002). Un evento come storia, dice ancora Augé (id.), come perturbazione del sistema proprio per il carattere eretico di ogni utopia. Così eventi emergono dalla ormai stentata omogeneità degli stati nazionali e lo stato sussiste solo in quanto efficiente sostegno in un libero trascorrere di capitali e tecnologie che li trova intenti a fluidificarne il mercato anziché segregarlo e proteggerlo.

E’ nelle keywords di Gottmann sulla teoria geografica che troviamo un definirsi dell’iconografia, l’insieme dei simboli cioè in cui crede la gente, anche, e perché no?, in un modo acritico che però si è sedimentato nel tempo, come un qualcosa (una forza?) che può determinare l’organizzazione degli spazi. Un elemento perciò discriminante o cloisonant, proprio perché esprime, in cospicua misura, “la caratteristica dei gruppi sociali a trovare identità religiosa, nazionale, culturale attraverso la costruzione di un set definito di credenze, di idee e di icone, a scala locale”.
A guardare quel che succede oggi, ci ricorda il Gottmann, la realtà non è così semplice; “alla liberazione dai vecchi ceppi -dalle minacce ancestrali a tutte le promesse della globalizzazione- risponde il risveglio dei nazionalismi, dei regionalismi, degli interessi locali, dei vecchi istinti tribali. La vera compartimentazione dello spazio non è nella geografia della materia” (“Geographie politique”, in Encyclopédie de la Pléiade, Géographie Générale, Gallimard, Paris, 1992). Comunque se è in ragione di questi fattori “à la fois matériels et spirituels”, diciamo culturali, che si determina le cloisonnement politique du monde, l’iconographie “permette di selezionare tra i fattori culturali quelli che condizionano i fenomeni di cloisonnement, i regionalismi”, creando altresì “la chiave del dialogo tra geografia culturale e geografia politica. Da questo dialogo ne verranno ulteriormente evidenziate appartenenze, identità radicate, idee ereditate, miti, linguaggi, simboli, icone.

Tuttavia la dissoluzione dell’ordine territoriale tradizionale non produce necessariamente le informi distese tipiche delle urbanizzazioni del terzo mondo, non dissolve i luoghi, non sostituisce con solidarietà di rete gli organismi locali: se pur può essere così, non è necessariamente essere così. Se gli standard comunicativi si fanno globali e implicanti una gamma vastissima di attività (fino alla omologazione in poltiglie culturali sincretiste scambiate per tollerante integrazione), resta pur vero che nessun attore economico è competitivo se con lui non compete il suo territorio: dai servizi pubblici alla solidarietà sociale all’identità etnica, alla semplicità, chiarezza e rispettabilità delle regole, dalla qualità e disponibilità di energia e acqua, dalla sicurezza personale al livello di tecnologia ed efficienza delle altre imprese tutto ciò fa spesso il differenziale di competitività.

Più direttamente soggetto al controllo diretto dei suoi membri, dotato della forza delle strutture spontanee (cioè rodate da infinite azioni di correzione ed aggiustamento e condivise dai suoi attori), il territorio consolidato (giustamente inteso come la forma tipica della regione geografica come frutto possibile e raro) compete e viene confermato se non addirittura consolidato dai processi di omologazione dei mercati. La coincidenza di economia, cultura e società nello stesso territorio è uno strumento formidabile di competitività.

La possibilità di rapide ed efficienti connessioni a tutto campo mina le strutture territoriali artificiose e coatte, premia quelle spontanee; la possibilità di connessione con qualunque luogo non lede l’utilità delle connessioni col vicino con l’obiettivo di costruire territori efficienti. Cadute le grandi cortine tra blocchi, le grandi aree limitrofe trovano ravvivati interessi di integrazione, di tessitura di trame territoriali fondate sulla reciproca specializzazione e scambio.

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Parte seconda
Parte terza
Parte quarta
Parte quinta

Palazzo Chiericati e Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari: Il Trionfo del colore

Mostra “Il Trionfo del colore. Da Tiepolo a Canaletto e Guardi
Vicenza e i capolavori dal Museo Pushkin di Mosca
Palazzo Chiericati e Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari
Dal 23 novembre 2018 al 10 marzo 2019

I capolavori della grande stagione settecentesca dell’arte veneta patrimonio del Museo Pushkin di Mosca tornano eccezionalmente in Italia per essere ammirati dal 23 novembre al 10 marzo nella mostra “Il Trionfo del Colore. Da Tiepolo a Canaletto e Guardi. Vicenza e i Capolavori dal Museo Pushkin di Mosca”. 

I capolavori della grande stagione settecentesca dell’arte veneta patrimonio del Museo Pushkin di Mosca tornano eccezionalmente in Italia per essere ammirati dal 23 novembre al 10 marzo nella mostra “Il Trionfo del Colore. Da Tiepolo a Canaletto e Guardi. Vicenza e i Capolavori dal Museo Pushkin di Mosca”. 

L’esposizione avrà luogo a Palazzo Chiericati, sede del museo civico e alle Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari, sede museale di Intesa Sanpaolo a Vicenza dove sarà esposta la Madonna con i santi Ludovico di Tolosa, Antonio di Padova e Francesco di Assisi di Giambattista Tiepolo, incorniciata dalla collezione di dipinti del Settecento veneto conservata nel Palazzo vicentino, tra i quali il celebre corpus di dipinti di Pietro Longhi. 

La mostra, che sino ad ottobre è visitabile al Museo Pushkin, è prodotta da MondoMostre e congiuntamente promossa dal Comune di Vicenza, il Museo delle Belle Arti A.S. Pushkin di Mosca e Intesa Sanpaolo, in doppia veste di sponsor per entrambe le sedi e di partner culturale, grazie alla propria sede museale vicentina. La curatela è di Victoria Markova, capo Dipartimento di cultura italiana del Museo Pushkin, insieme al Prof. Stefano Zuffi, storico dell’arte con la consulenza scientifica del Prof. Giovanni Carlo Federico Villa. 

I dipinti provenienti dal Pushkin saranno coprotagonisti di un’affascinante narrazione con trenta opere dello stesso ambito e periodo, selezionate dall’ampio patrimonio dei Musei Civici di Vicenza, ricco di oltre 50.000 pezzi, e dal patrimonio di Intesa Sanpaolo conservato a Palazzo Leoni Montanari, sede vicentina delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo. Il percorso creerà un racconto capace di mettere in scena lo sviluppo dell’arte veneta del Settecento e il suo impatto deflagrante sull’arte europea, con artisti attivi in ogni angolo del vecchio Continente: apprezzati, imitati, seguiti, collezionati; abili nel muoversi in ogni ambiente ed eseguire soggetti sacri e profani che saranno modello per le generazioni successive.

In attesa del nuovo allestimento della sezione Sette-Ottocentesca di Palazzo Chiericati, la mostra costituirà un importante momento per le opere della collezione provenienti dalla Pinacoteca stessa, poiché torneranno a poter essere esposte in Italia dopo oltre un decennio. Il percorso conduce all’interno di quel magico momento dell’arte europea che fu il Settecento veneziano e veneto, reso eterno dai suoi protagonisti quali Giambattista Tiepolo, Giambattista Pittoni, Luca Carlevarijs, Giambattista Piazzetta, Antonio Giovanni Canal detto Canaletto, Francesco Guardi e Pietro Longhi. 

Si potrà fruire della bellezza delle loro opere nelle due sedi della mostra ma anche in chiese, palazzi e ville della città e del territorio. Percorrendo gli Itinerari appositamente messi a punto dagli organizzatori. Tra le tappe il Palladio Museum e le tre ville a pochi minuti da Vicenza e che rappresentano i maggiori capolavori ad affresco del Settecento europeo: Villa Valmarana ai Nani, Villa Cordellina e Villa Zileri che, anche per le pitture che li adornano, sono “Patrimonio dell’Umanità”.

“Abbiamo fatto conoscere all’ampio pubblico moscovita e russo l’arte veneta e i tesori d’arte della nostra Pinacoteca e di Palazzo Leoni Montanari – sottolinea Francesco Rucco, Sindaco di Vicenza – Ora offriamo ai veneti e ai nostri turisti la possibilità di ammirare i tesori dell’arte veneziana oggi patrimonio del Pushkin e avere un “saggio” di quanto il museo civico di Palazzo Chiericati offrirà stabilmente non appena ne sarà completato il nuovo allestimento”.

L’eccezionalità di questa mostra è data dalla possibilità di contemplare, tutti insieme, oltre cinquanta capolavori di cui una parte significativa appare sui manuali di storia dell’arte. In una straordinaria avventura visiva che consente di percepire appieno una grande stagione che ha visto la nostra arte – con Giambattista Tiepolo, ma anche Sebastiano Ricci, Pittoni e Canaletto – essere esempio assoluto per quella occidentale.

“Il Trionfo del colore mette insieme i principali valori che fondano il Progetto Cultura della nostra Banca, a partire dalla valorizzazione delle straordinarie collezioni d’arte Intesa Sanpaolo e dalla condivisione di iniziative con prestigiose istituzioni nazionali e internazionali. Abbiamo portato al museo Pushkin i nostri dipinti del Settecento veneto ed ora ammiriamo i capolavori provenienti da Mosca e quelli conservati nella Pinacoteca civica di Vicenza. Si conferma così un rapporto di profondo dialogo e scambio culturale sia con la Russia, sia con l’amministrazione di Vicenza, dove ha sede la prima delle Gallerie d’Italia cui la Banca ha dato vita”, commenta Michele Coppola, Direttore Centrale Arte, Cultura e Beni Storici, Intesa Sanpaolo.

Storie plurali di un territorio… per un Mediterraneo regione, non frontiera – 1/5

di Giuseppe Campione

Dai processi di interpretazione culturale, sottesi alle incidenze e alle eccedenze territoriali, con ambiguità, distanziamenti, racconti dello sviluppo storico nella crisi non risolta dei discorsi occidentali, delle antropologie, che pur egemoni per via di declamata, non sufficientemente contrastata, portata planetaria, alla globalizzazione vista dalla parte delle vittime.

Quali sono gli elementi essenziali di una cultura, i suoi confini? Come si scontrano ed entrano in rapporto l’io e l’altro? E adesso quali le possibili relazioni (e le opposizioni locali), con le attese, le compromissioni, i mutamenti, le sopravvivenze culturali, con percorsi tutto sommato autonomi, anche se su linee ancora non compiutamente definite, nel crocevia europeo-mediterraneo che si imbozzola nelle narrazioni da mattino del mondo?

Le nostre non possono che essere rappresentazioni degli effetti che si manifestano talvolta in esotismi di maniera, quando addirittura non cercano di abbellire la mattanza “poetica”, anche tragica, del viaggio a perdere, la piccola morte solo estetizzante: teorie, come borse degli attrezzi, con improbabili strumenti posti a decifrare il reale passo dopo passo, senza cadere nella presunzione delle narrazioni esclusive e dei saperi unifunzionali. Per testualizzazioni che, dice Ricoeur, è come se postulassero relazioni, appunto, tra “il testo e il mondo”. La testualizzazione genera senso, prima isolando un fatto o un evento e poi lo contestualizza nella realtà che lo ingloba. In ogni caso la capacità di produrre senso dipenderà dalla coerenza creativa e dalle ri-percorrenze consentite alla ri-creazione del lettore: l’immagine che è dopo l’oggetto.

Una proiezione mentale che trasfigura, ri-crea in quella comunicazione iconica, nella grammatica delle immagini. La geografia allora sarà scrittura, ma anche critica sovversiva: un viaggio, un modo di capire e di muoversi in un mondo eterogeneo, solo cartograficamente unificato: lo Stretto, frontiera o regione? Ma cos’è regione se non insieme di flussi e di relazioni che connotano spazi aperti ma con funzioni che si risolvono in struttura d’insieme? Nuove pratiche spaziali: tenendo conto che è sempre più difficile ignorare che le vecchie topografie sono esplose. Dice Clifford: Non è più possibile lasciare il proprio tetto fiduciosi di trovare qualcosa di radicalmente nuovo, un tempo e uno spazio altri. La differenza la si incontra nella più contigua prossimità, il familiare affiora agli estremi della terra. È il nuovo dis-orientamento, con nuove strutture interpretative, paesaggi, linguaggi. La casa del territorio, lo spazio armonicamente urbano di L.B. Alberti, e la città, come principio ideale delle storie dell’uomo, come dal Cattaneo. Come unica patria che “il vulgo”, riconosce…anche oggi, quando la geografia dei flussi del Castells, sembra decretare “la fine dei territori” (B. Badie). Cultura e identità non si radicano in terre ancestrali; vivono per impollinazione (Césaire).

Forse tradizioni lingue cosmologie valori sono più deboli: ma non passivi. Ordini di diversità che non possono diventare monocultura, ma creazione, traduzione di altro. E allora basta oscillare tra metanarrazioni tra omologazione ed emergenza, tra perdita ed invenzione: rappresentazioni ibride e sovversive che prefigurano un futuro inventivo. Morin parla di secoli di barbarie europea; conquiste, asservimento, colonizzazione, certo con alcuni effetti di civiltà, con scambi, incroci, contatti creativi, in logiche ambivalenti. E la barbarie non finisce, anche se quella europea è in regressione, in regressione relativamente ad altre, politiche, prassi che sviluppano una dialogica tra mondializzazione economica e mondializzazione umanistica. Reinventare l’“umanesimo”, allora? si domanda Morin. Pensare la barbarie è contribuire a rigenerare l’umanesimo. Dice Bauman che la finzione della “natività della nascita, la sua virtù performativa” ha sempre svolto il ruolo di protagonista tra le formule messe in campo dallo stato moderno: uno stato come compimento del destino di una nazione (con l’inevitabile ‘cuius regio-eius natio’).
Ma la velocità del mondo non ci consente più affidamento a vecchi riferimenti. E allora: le identità sono vestiti da indossare e mostrare, non da tenere chiuse in armadi. E quando persino il ‘monumento’ Renda sottolinea che la storia di Sicilia dell’otto-novecento, è la storia dei racconti: da Verga, dei Malavoglia certo, ma di mastro don Gesualdo soprattutto, di De Roberto, con la sua “maniera”, di Pirandello, con i dolorosi interrogativi dei vecchi e i giovani, di Lampedusa, compiaciuto tra mitopoiesi, malinconia e impotenza, dicevo, quando il diligente Renda scrive così la storia, perché non dobbiamo ammettere in tutta consapevolezza che sapere è soprattutto narrare?

La virtù della percezione poetica, dell’intuizione lirica, dà più spazio al bisogno di ontologia che scavalca la ripetitività dello storicismo che ci ha formati, de-formati, e che ci dà chiavi di lettura di spazi e vissuto? Anche Bacon dice che la trasformazione-violazione immaginaria dell’oggetto ricrea tutto un mondo di significati e di percezioni possibili.

Certo una lettura-proposta da approfondire. Quella di una geografia sdoganata dall’accademia, che si ri-proietta nello spazio del nostro vissuto e lo squaderna, utilizzando tutti i percorsi di un sapere importante, quello letterario ad esempio. Sarebbe follia pensare ad una geografia che voglia riappropriarsi di ambiti di conoscenza spaziale in termini esclusivi, ma pensare ad una funzione utile per intrecciare, far dialogare soggetti della rete, forse dovrebbe essere in qualche modo possibile. Era questo che dicevo anni fa, quando, vivendo ancora Gambi, parlavamo di qualcosa che avremmo potuto fare, e che poteva sembrare ad esempio “la geografia e il paese”. E allora penso potremmo, in questa linea, ri-inquadrare la geografia in un diverso rapporto con le letterature comparate, per un più significativo scandagliare su luoghi, percezione, racconto: una geografia dei luoghi letterari?

Le letture partiranno da Asor Rosa, con l’attenzione da lui prestata a ‘geografia e letteratura’ nella storia della letteratura di Einaudi, al “Romanzo e ai luoghi” dei volumi sul Romanzo, sempre di Einaudi. Anche con Dionisotti, senza perdere di vista letture da Barthes alla filosofia di Wunenburger, ai vecchi lavori di Bachtin. Poi ritrovare tanto Gambi, a parte lo Stretto, quello delle isole Eolie, della Calabria della Romagna etc. e il Farinelli, di 30 anni fa, il testo sul Paesaggio per Casabella, che poi è andato su “i segni del tempo” e soprattutto della “Geografia” di Einaudi.
Ma atterriamo da tanto volare: I Meridiani, dopo i giornalisti, ritrovano i viaggiatori siciliani del Grand Tour, per l’intreccio dei “discorsi” su cos’è l’Italia. Avranno pure un senso queste e altre operazioni editoriali? C’è bisogno di Narrazioni in questo nostro complicarsi del mondo, di nuova zona di costruzione dei personaggi e dei luoghi, nell’associarsi di nuovi possibili legami semantici?

C’é una riflessione quasi all’incipit, ed era questo poi che ti costringeva ad andare avanti della Fenomenologia, di Hegel, che parla del bocciolo che si dischiude nel fiore e si dilegua, come se il fiore confutasse il bocciolo…poi, la comparsa del frutto che mette in chiaro che il fiore “è un falso modo di esistere della pianta”: è il frutto, invece, la verità della pianta. Ma la fluidità dei questi momenti non li rende, incompatibili, fluidità “che si rimuovono”, ma momenti di un’unità organica, “in cui non soltanto non sono in contrasto”, ma ”l’una non è meno indispensabile all’altra”, è “solamente questa pari necessità a costituire la vita del tutto”.

Un altro vivere la geografia, un raccordare utilmente saperi, nel crocevia di un’Italia lunga e breve : come possedere una storia e allo stesso tempo avvertire insufficienza di ricognizioni sui suoi perché. Ed è forse in questo ossimoro che tutto si tiene. Ma torniamo al senso complessivo della riflessione, nella doverosa necessità di interrogarci sulle geografie. Olsson, un geografo svedese ha scritto: “con l’importanza tradizionalmente attribuita allo spazio, alla misurabilità e al paesaggio visivo, la geografia si è consegnata ai lineamenti superficiali dell’esterno. Dato che l’esterno è nelle cose e non nei rapporti, abbiamo prodotto studi sulla reificazione in cui un uomo, donna, bambino vengono inevitabilmente trattati come cose e non come quegli esseri umani sensibili, in continua evoluzione, che siamo… Ecco perché si sente tanto dolorosamente il bisogno di una prospettiva più umanistica, non solo nella geografia ma nelle scienze sociali in genere”. Geografie del vissuto, allora: anche del dolore degli uomini. Se le lacrime di un bambino rimettono in discussione l’onnipotenza di dio, se dopo Auschwitz addirittura si può decretare la fine di questa onnipotenza, com’è possibile pensare che questo dolore non cambi la terra…e noi raccontiamo la terra, abitiamo le distanze. Non una terra senza uomini: come nella Dissipatio H.G. di Morselli? È possibile andare avanti solo con magnifiche procedure definitorie o con elaborate descrizioni di descrizioni? L’etica del sapere geografico è l’etica della vita, della libertà, della pace. E soprattutto dei perché e degli effetti. Delle tragedie diverse e sempre uguali, con pulizie etniche, genocidi, fame, malattie, mutilazioni, morte, disumanizzazione: una paura che mangia l’anima. Da un lato il male assoluto, metafisico e noi occidente, storicamente, ontologicamente, il bene? Senza accorgersi della persistente asimmetria delle sofferenze? Certo, l’occidente vincerà la guerra, una guerra quasi un videogioco, ma la rabbia accecante dei quasi cinque miliardi di uomini dell’accumularsi dei processi di disumanizzazione, continuerà ad urlare più forte delle sirene. Più forte degli uomini della guerra che parlano con la bocca piena di sole e di sassi. Non è sufficiente perciò esercitarsi solo a profetizzare lo scenario peggiore: la libertà o sarà di tutti o non sarà duratura. Una geografia dell’utopia, allora? Dematteis dice che l’utopia non è sempre il nessun luogo, ma, anche rappresentazione di un mondo possibile: non geo-grafia dell’inesistente, ma anti-geografia dell’esistente.

1. “Abitare le distanze” diventa l’ossimoro che meglio descrive la non resistibile contraddizione “tra il rinnovato bisogno di radicamento nello spazio e la crescente appartenenza al fuori, tra localismo e deterritorializzazione, tra l’esperienza dello stare e quella del transitare, materialmente ed immaterialmente”. Così andremo avanti, a fatica, senza immaginare però di poter imbozzolare, iconografare lo spazio-movimento e senza soprattutto pensare di dover ridurre la complessità. Forse sarebbe possibile un percorso: quello di suggerire i significati, i valori, gli ordini latenti e/o inespressi, con forme di comunicazione persuasiva e scoprire significati nascosti in significanti noti.

E, anche se sembrano superate la mitologia dell’antiurbanesimo e la visione apocalittica del destino della città, non bisogna cedere alla tentazione intellettuale di allargare i problemi. Il fatto è che “la città non ci garantisce più quello che ci ha promesso”: dalla libertà alla cittadinanza, all’attenuazione della diseguale distribuzione della ricchezza, al pluralismo culturale, alla promozione di stili di vita più aperti etc. Ma vivere la città come un incubo non ci porterebbe lontano. Ma allora cos’è la città? Anche se delle città e della loro storia sappiamo molto, dobbiamo rispondere “che nessuna disciplina è riuscita a fornirci una teoria esaustiva in merito.
Le geo-grafie, quelle del senso comune, comunque si sono aperte sempre di più all’ascolto dei luoghi e alla ricerca di significanti non banali, (all’ascolto del grano che cresce, come avrebbe potuto dire Lévi Strauss). Proprio perché la complessità dell’urbano si è rivelata irriducibile, né più né meno della complessità della società.

Di periferie, del loro modo di produzione, della paura che nasce dall’abbandono, di una insicurezza in un certo senso voluta (un nodo scorsoio, come dura replica alle storie del modo di produzione urbano), dobbiamo parlare molto, per esorcizzare la disgregazione sociale e ristabilire i canoni della cittadinanza. Solo lo squadernarsi della città recupererà marginalità e insufficiente qualità di vita: soprattutto può attenuare l’insorgere, su porzioni di territorio a perdere, dei pericolosi effetti di una sorta di cittadinanza parallela, alternativa, generatrice di disvalori che aggregano e danno senso, senso comunque, anche welfare parallelo. È come riandare all’istituzione alternativa e/o parallela di Santi Romano o al sovrapporsi di storie (le storie plurali?) come in Zagrebelsky (La virtù del dubbio, Laterza 2007).

Per periferia si intende in prima istanza l’orlo, il bordo, il limite ultimo di uno spazio, da cui, per estensione, si arriva al concetto di periferia come la porzione più estrema e marginale di uno spazio fisico, in contrapposizione alla sua parte centrale. Parlare di periferia, infatti, non ha senso se non in relazione al concetto complementare di centro. La contrapposizione tra centro e periferia, che vede quest’ultima in una relazione di subordinazione, può condurre tuttavia a una modalità di rappresentazione delle periferie (non a caso usiamo qui il plurale) inadeguata e fuorviante. Si suole contrapporre infatti le periferie, intese come spazi anonimi e privi di identità, ai centri delle città quali luoghi privilegiati dell’espressione della cultura e della storia di una data società. Da un lato si avrebbero, quindi, tanti centri storici con una identità precisa e distinta, e dall’altro altrettante periferie indifferenziate tra loro. La prerogativa della periferia sarebbe così quella di rappresentare le zone di margine di una città che urta continuamente contro i propri confini fisici e normativi e si definirebbe per l’assenza di stratificazioni storiche e funzionali che, invece, individuano e caratterizzano il centro storico. Peraltro la periferia urbana ha assunto col tempo una connotazione sempre più negativa, diventando sinonimo di squallore, degrado, uno spazio di alienazione che segna la fine della città.
Renè Clozier definisce “proteiforme” la periferia, per la possibilità che essa assuma caratteristiche molto diverse tra loro. Lungi dall’esserne una negazione, inoltre, la periferia appartiene a pieno titolo alla città, costituendone un elemento di raccordo e dialogo con le diverse realtà circostanti. Oggi la semplice localizzazione geografica non spiega più tutti i significati attribuiti alla parola periferia ma, a partire dalla sua originale ed anacronistica definizione, “la parte esterna più lontana dal centro della città”, è possibile cogliere tutte le fasi di crescita della città determinate dalla sua dispersione sul territorio. Le considerazioni sulla localizzazione geografica della periferia devono tenere conto di tutte quelle trasformazioni del territorio che sono alla base della nuova condizione urbana. In particolare, il problema della dispersione nel territorio ci spinge a inquadrare il tema della periferia in una dimensione più ampia, nella quale risulta veramente arduo distinguere tra i diversi tessuti insediativi che si sovrappongono, si intersecano, si sommano e si giustappongono indipendentemente da qualsiasi volontà progettuale, e immaginare un dispiegarsi di nuova centralità.

Per parlare di periferia si dovrebbe del resto poter rintracciare un margine, un orlo ultimo che delimita la città compatta da una porzione di territorio abitato privo di qualsiasi forma di urbanizzazione, ipotesi assai lontana dalla realtà. Ogni nuova definizione di confini viene messa in crisi, però, non solo da un movimento centrale di propagazione ma anche, se non soprattutto, da una serie di onde che si diffondono da tanti piccoli fulcri disseminati sul territorio senza alcuna apparente relazione con il nucleo centrale. Per una città compiuta.

E allora, il narrare, che è sempre stato il luogo della trasmissione dei costumi, dei codici e delle leggi, le prime narrazioni epiche non devono essere considerate soltanto opere poetiche ma vere e proprie enciclopedie che contengono ciò che è opportuno mantenere in memoria per affrontare i casi della vita, per consolidare il fare in tutti i suoi elementi necessari a produrre un’azione esperta, per mantenere ordine in una società attraverso il ricordo dei valori e delle regole che è giusto e necessario rispettare, il narrare risponde al doppio registro delle storie plurali: la via attraverso cui si producono nuovi discorsi e la modalità per reiterare e istituzionalizzare un esistente, facendolo diventare costume e regola sociale.
La narrazione è stata lo strumento principe della costruzione e della trasmissione del sapere. La condizione postmoderna parla della preminenza del pensiero e della forma narrativa nella costruzione del sapere, nelle civiltà più evolute, rispetto al sapere scientifico, assegnandole quindi la funzione di trasmissione e di elaborazione delle conoscenze. Avremmo potuto fare i medesimi esempi ascoltando le storie ed i frammenti di storie che vengono narrate e prodotte all’interno di un bar: la narrazione infatti fa parte, in modo integrale ed estremamente interessante ed attivo, della nostra vita quotidiana. Non diversamente, seppure possa essere profondamente diverso il registro, quelle narrazioni quotidiane collaborano alla costruzione di significato, veicolano concezioni del mondo, cooperano all’attribuzione di senso, rispetto ad eventi, accadimenti, situazioni.

Parte prima
Parte seconda
Parte terza
Parte quarta
Parte quinta

Trieste, Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale: Metlicovitz – L’arte del desiderio

Metlicovitz – L’arte del desiderio. Manifesti di un pioniere della pubblicità
Trieste, Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”
16 Dicembre 2018 – 17 Marzo 2019

150 anni fa nasceva a Trieste Leopoldo Metlicovitz, uno dei maestri assoluti del cartellonismo italiano. È lui l’autore di decine di manifesti memorabili, dedicati a prodotti commerciali e industriali, ma anche a grandi eventi come l’Esposizione internazionale di Milano del 1906, a famose opere liriche (Madama Butterfly, Manon Lescaut, Turandot) e a film dell’epoca del muto (primo fra tutti Cabiria, storico precursore del kolossal).
Assieme ad artisti quali Hohenstein, Laskoff, Terzi e al più giovane concittadino Marcello Dudovich, Metlicovitz (che di quest’ultimo fu il “maestro”) operò per decenni alle Officine Grafiche Ricordi di Milano, dopo un avvio come pittore paesaggista nella città natale e un apprendistato come litografo (professione ereditata dal padre) in uno stabilimento grafico di Udine.

Fu proprio grazie all’intuito di Giulio Ricordi, che Metlicovitz poté esplicare, dagli ultimi anni dell’Ottocento, tutte le proprie potenzialità espressive, non solo come grande esperto dell’arte cromolitografica, ma pure come disegnatore e inventore di quegli “avvisi figurati” (così chiamati allora) che, affissi a muri e palizzate, mutarono il volto delle città con il loro vivace cromatismo, segnando anche in Italia la nascita di quell’arte della pubblicità sintonizzata su quanto il “modernismo” internazionale andava proponendo nelle arti applicate sotto i vari nomi di Jugendstil, Modern Style, Art Nouveau, Liberty.

A lui la città di Trieste dedica, nel 150° anniversario della nascita, la prima grande retrospettiva monografica. Con il titolo “Metlicovitz. L’arte del desiderio. Manifesti di un pioniere della pubblicità”, resterà allestita al Civico Museo Revoltella e al Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” dal I6 dicembre 2018 al I7 marzo 2019, per poi passare al Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso dal 6 aprile al 18 agosto 2019.
La mostra è promossa e realizzata dal Comune di Trieste – Assessorato alla Cultura, Sport e Giovani – Area Scuola, Educazione, Cultura e Sport – Servizio Musei e Biblioteche in collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali – Polo Museale del Veneto – Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso e con il contributo della Regione Friuli Venezia Giulia.

La rassegna è curata dallo storico dell’arte e scrittore Roberto Curci e diretta da Laura Carlini Fanfogna, direttrice del Servizio Musei e Biblioteche, e da Marta Mazza, direttrice del Museo Nazionale Collezione Salce. Nella grande monografica rivive l’intero arco della produzione dell’artista. Le opere esposte, 73 manifesti (alcuni di dimensioni “giganti”), tre dipinti e una ricca selezione di “grafica minore” (cartoline, copertine di riviste, spartiti musicali ecc.), saranno organizzate in otto sezioni espositive, sette delle quali ospitate presso il Civico Museo Revoltella e una – la sezione dedicata ai manifesti teatrali per opere e operette – nella Sala Attilio Selva al pianterreno di Palazzo Gopcevich, sede del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”. Le opere provengono per la gran parte dal Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso (68 manifesti), oltre che dalle collezioni civiche (Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”) e da raccolte private.

“La produzione cartellonistica di Metlicovitz, così come quella dell’amico Dudovich, fu – sottolinea Roberto Curci – particolarmente intensa negli anni precedenti la Grande Guerra, con la creazione di autentici capolavori rimasti a lungo nella memoria visiva degli italiani e a tutt’oggi largamente citati e riprodotti in ogni studio sull’evoluzione del messaggio pubblicitario del Novecento. A questo eccellente artista, caratterialmente schivo ed estraneo ad ogni mondanità, alle prove – affascinanti per verve ed eleganza stilistica – da lui devolute sia a realtà commerciali come i popolari Grandi Magazzini napoletani dei Fratelli Mele sia all’universo musicale e teatrale, spiritualmente a lui congeniale (conoscente di Verdi, fu amico soprattutto di Puccini), è dedicata questa mostra che si propone di rappresentare il “tutto Metlicovitz”, straordinario cartellonista, certo, ma anche eccellente pittore ed efficace grafico e illustratore”.

La mostra è corredata da un raffinato catalogo, a cura di Roberto Curci e Marta Mazza (Lineadacqua Edizioni).

Anthony DeStefano – Una guida per il paradiso

Che aspetto ha? Quale sarà la nostra forma, se mai vi entreremo? Ci saranno piante, animali, fiumi? Vedremo Dio da vicino? Oppure conosceremo un’altra forma di «vicinanza»? Sarà possibile incontrare i nostri cari defunti? Tanto facile da evocare, il paradiso rimane, pur dopo millenni di scritti e di riflessioni, una delle «cose» più difficili da immaginare. Anthony DeStefano si è proposto di rispondere in modo molto semplice e diretto a quelle domande

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Jim Al-Khalili – La fisica del diavolo

Jim Al-Khalili è un fisico teorico di eccezionale talento comunicativo. Per lui i paradossi apparentemente insolubili sono un’ottima occasione per spiegare come funziona la scienza. Per questo ne ha scelti nove, tra più e meno noti, e sulla loro traccia ha costruito questo libro, divertente, stimolante, ironico e che ha la capacità di sconcertare con la semplice accumulazione di elementi imprevedibili. Insomma, un libro che non lascia riposare la mente. Si va dal classico paradosso di Achille e la tartaruga (del quale però scopriamo un insospettabile risvolto quantistico) alla più semplice domanda che l’uomo può farsi guardando la volta stellata: perché di notte fa buio?

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Macroregioni: la Democrazia partecipativa è il modello

di Paolo Pantani

Le Macroregioni si ispirano all’obiettivo stabilito con il Trattato di Lisbona che abolisce i “pilastri”, provvede al riparto di competenze tra Unione e Stati membri, rafforza il principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali, promuove la costituzione di macroaree per la coesione territoriale, anche fra paesi non appartenenti alla UE, puntando molto sulle comunità locali, per colmare il “deficit democratico” di cui soffrono tutte le istituzioni europee dall’inizio della loro costituzione. Le Macroregioni sono infatti il risultato di una strategia per realizzare una struttura di governance multilevel che, con il superamento dei limiti territoriali, garantisca la partecipazione delle autorità regionali, locali e dei cittadini alle politiche di cooperazione europee ed euromediterranee per la cultura, la tutela ambientale, la ricerca scientifica, l’innovazione, i sistemi energetici, la connettività territoriale, la mobilità urbana sostenibile e dunque lo sviluppo socio economico della terra meridionale e dei paesi rivieraschi del Mediterraneo.

La Democrazia partecipativa è il modello; la Democrazia partecipata è il concreto processo che prevede il coinvolgimento diretto delle persone nei ruoli e nelle decisioni che riguardano loro. Non si passa quindi attraverso deleghe e cioè rappresentanti eletti formalmente. Esistono strumenti di partecipazione introdotti volontariamente, altri indicati dalla normativa. La Democrazia partecipativa e partecipata lavora per creare le condizioni per cui tutti i membri di un corpo politico possano portare contributi significativi ai processi di decisione, concedendo a un numero sempre maggiore di soggetti l’opportunità di partecipare direttamente a responsabilità di servizio e alle decisioni. La Democrazia partecipata riunisce effettivamente decisori, organizzazioni della società civile e cittadini per discutere su temi di forte rilevanza pubblica e costruire decisioni condivise.

L’unificazione di aree regionali omogenee per territorio, storia, cultura, sensibilità politiche e interessi socio-economici, superando le diversità di appartenenza nazionale, si colloca non nella dimensione di una nuova istituzione che si aggiunge alle altre, ma come una strategia politica che deve essere adottata da tutte le esistenti istituzioni dei vari Paesi (“in primis”, quelle regionali e locali) per attuare nel miglior modo possibile la coesione territoriale  che rappresenta la precondizione dello sviluppo. Questa condizione di non-istituzionalità della Macroregione implica in primo luogo il migliore coordinamento delle istituzioni e delle risorse disponibili nell’ambito delle norme esistenti, e consente poi l’abbattimento e il superamento dei confini politico-amministrativi entro cui sono costretti, invece, stati, regioni ed enti territoriali locali.

La strategia macroregionale è una politica articolata che supera e ricompone nuove comunità geo-politiche di dimensione continentale e avvia veramente quella riforma degli ordinamenti costituzionali che, com’ è noto, in Italia si tenta di realizzare senza successo ormai da diversi decenni. La Democrazia partecipata nella governance della Unione europea è possibile attraverso la Macroregione Mediterranea, la quale rappresenta un ambiente naturale e geo-politico di 500 milioni di abitanti, strategica per il futuro della stessa Europa che così conquista finalmente una maggiore sicurezza, un controllo più sostenibile dei flussi di immigrazione e la partecipazione diretta ad un’area in sicura espansione socio-economica. Questa è l’unica strada percorribile per salvare e rilanciare i territori e le comunità dei vari Paesi europei, a cominciare dall’Italia che in natura ha un ruolo strategico. La nuova “governance multilevel” è fondata sulla partecipazione ed il protagonismo dei Cittadini e delle Autorità regionali e locali (che non sono in contrapposizione con quelle nazionali) e, soprattutto, europee. Una nuova dimensione in cui la Democrazia partecipata è motore dello sviluppo.

La Democrazia partecipativa permette il processo di progressiva integrazione economica e politica dei Cittadini, degli Stati membri dell’Unione europea e di tutte le Istituzioni.  Rigore di metodo, spiccata capacità di analisi critica, vasta conoscenza della dottrina e cura nell’approfondimento delle tematiche affrontate caratterizzano la Democrazia partecipativa macroregionale mediterranea. Accanto al dato normativo vengono considerati, inoltre, gli aspetti e le implicazioni politiche ad esso sottese e gli sviluppi del Trattato di Lisbona in materia di cooperazione territoriale. Non manca, infine, l’analisi partecipativa e democratica dei problemi correlati alla materia, e in particolare del cosiddetto potere estero e dei modelli macroregionali o comunque partecipativi, a qualunque livello, attualmente esistenti in un continuo miglioramento.

Verona, Galleria d’arte moderna A. Forti – L’amore materno

L’AMORE MATERNO alle origini della pittura moderna da Previati a Boccioni
Verona, Palazzo della Ragione, Galleria d’Arte Moderna A. Forti
07 Dicembre 2018 – 10 Marzo 2019
Mostra a cura di Francesca Rossi e Aurora Scotti

Angelo Morbelli, Alba felice, 1892-1893, olio su tela, 50 x 103 cm, Collezione privata

Il tema della maternità, in un momento nodale nell’arte italiana fra Otto e Novecento, è al centro della mostra L’amore materno alle origini della pittura moderna, da Previati a Boccioni proposta dai Musei Civici di Verona negli spazi della Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, dal 7 dicembre al 10 marzo 2019.
“La mostra, curata da Francesca Rossi e Aurora Scotti – dichiara l’assessore alla Cultura Francesca Briani –, è testimonianza dell’importante e proficua collaborazione tra i musei veronesi e i Musei Civici di Milano, il Mart di Rovereto e il Banco BPM. Inoltre, conferma l’impegno dell’amministrazione a sostenere iniziative culturali che si contraddistinguono per la rigorosa e puntuale attività di ricerca dedicata alle collezioni artistiche cittadine”.

L’esposizione è la prima che la città di Verona dedica agli esordi del Divisionismo italiano, con l’obiettivo di promuovere la conoscenza di uno dei periodi più creativi della storia dell’arte del nostro Paese e, allo stesso tempo, restituire un contesto e un fondamento critico di riferimento alle opere della Galleria d’Arte Moderna Achille Forti legate a tale ambito figurativo, a partire da S’avanza di Angelo Morbelli, capolavoro esposto nel percorso dedicato alla collezione civica.

Il fulcro della nuova esposizione è costituito dalla Maternità di Gaetano Previati, un capolavoro di grande formato e fortemente evocativo legato al tema “dell’amore materno” e proveniente dalle collezioni di Banco BPM. “Siamo particolarmente lieti e onorati di partecipare alla realizzazione di questa mostra – dichiara il presidente di Banco BPM Carlo Fratta Pasini – rendendo disponibile, per la prima volta a Verona, il monumentale dipinto di Previati e alcune delle opere più significative, tra quelle che fanno parte del nostro patrimonio artistico”.

Il dipinto esposto alla prima Triennale di Brera del 1891 suscitò un vivace dibattito oltre che sulla tecnica divisionista, anche sui possibili esiti simbolici della rappresentazione.
Il famoso artista-critico Vittore Grubicy, già attento sostenitore di Segantini, individuò nella tela di Previati il prototipo della pittura ‘ideista’.

“La nuova tecnica divisionista elaborata da Previati nel monumentale dipinto, puntava – spiega infatti Aurora Scotti – sulla separazione delle pennellate, ma anziché tendere alla piena tersità luminosa mirava ad agire sulla sensibilità dello spettatore, coinvolgendolo nella emozione psicologica dell’evento. A questo il maestro ferrarese si era preparato con un intenso esercizio su temi che sviluppavano la ‘pittura di affetti’ della Scapigliatura, al fine di evocare, attraverso il ductus stesso della pennellata, uno stato d’animo. Un cardine quindi della pittura di emozione e di sentimento, con un ampio spettro di riferimenti nella tradizione pittorica medioevale e moderna”.

Il percorso espositivo costruito attorno al grande dipinto propone celebri capolavori di Gaetano Previati, Medardo Rosso, Giovanni Segantini, Angelo Morbelli, Giuseppe Pellizza da Volpedo e Umberto Boccioni, capaci di restituire in maniera esemplare l’intensa stagione culturale che ha segnato il transito rivoluzionario della pittura italiana ottocentesca nella direzione europea dell’arte moderna d’avanguardia.
Da qui, la rigorosa selezione filologica di una quindicina di opere che mette in evidenza il confronto tra esiti e ricerche diverse contemporanee al maestro ferrarese, ma anche le ricadute e gli stimoli forniti da queste sperimentazioni alle avanguardie del primo Novecento.
Umberto Boccioni, in particolare, cercò un confronto diretto con Previati: la Maternità del Banco BPM rappresenta uno dei cardini del suo percorso critico come punto di riferimento in quel un puntiglioso programma di studio nella storia dell’arte che, dopo molteplici ricerche, lo portarono al Futurismo.

Alla definizione del progetto legato al tema dell’amore materno hanno inoltre contribuito generosamente tutti i prestatori che hanno così reso possibile la realizzazione della mostra fra cui il Museo Segantini di Saint Motitz. Un riconoscimento particolare va ai Musei Civici di Milano, alle Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco, alla Galleria d’Arte Moderna di Milano e al Mart di Rovereto: istituzioni che hanno collaborato attivamente all’elaborazione dei contenuti del progetto scientifico partecipando anche all’ideazione di un piccolo circuito virtuale sul tema dell’amore materno itinerante tra le sedi di Verona, Rovereto e Milano, che il visitatore troverà segnalato nel catalogo e nei fogli di sala dedicati a Le due madri di Segantini, della Galleria d’Arte Moderna di Milano, e all’Autoritratto con la madre di Giorgio de Chirico, del Mart di Rovereto. Tali opere sono da considerare a pieno titolo parte dell’esposizione.”

“L’esposizione – evidenzia Francesca Rossi – è arricchita da un contributo multimediale dedicato alle fasi di gestazione della Maternità di Previati.
Questa preziosa documentazione deriva dalla campagna di analisi scientifiche condotta con gli strumenti più avanzati delle nuove tecnologie presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze allo scopo di monitorare lo stato di conservazione dell’opera e di comprendere la singolarissima tecnica pittorica impiegata dall’artista”. Un vero dono per le prossime festività che l’Amministrazione offre alla città.