Se sai usarlo, anche WhatsApp è strumento di cultura

di Sergio Bertolami

Capita sempre più spesso che qualcuno mi chieda d’iscrivermi a uno dei gruppi nati sui social che vanno per la maggiore. Le relazioni oggi iniziano e si sviluppano, non più in una piazza cittadina, ma su WhatsApp, Facebook o Twitter. Da principio si mantengono gli assunti di base che hanno portato a costituire il gruppo, ma quando i componenti superano il “numero di Dunbar” la coesione comincia a incrinarsi. L’antropologo Robin Dunbar è attualmente alla guida di un team di ricerca sulle neuroscienze sociali ed evolutive dell’Università di Oxford. Il numero massimo di persone, che non bisognerebbe oltrepassare per mantenere relazioni stabili, è stato da lui fissato intorno ad una media di 150. Fino a cento contatti siamo ancora nell’ambito delle conoscenze private, superata questa soglia ci troviamo fra persone con le quali intratteniamo rapporti di lavoro; ancora oltre i rapporti divengono saltuari e occasionali. Questo, a mio avviso, può spiegare, in qualche modo, perché nei social network i gruppi numerosi possono diventare stucchevoli e irritanti. I componenti si conoscono sempre meno fra di loro e finiscono col non conoscersi affatto. Si accresce, pertanto, quella sorta di promozione personale che arriva all’esibizionismo: sopportarli è il prezzo da pagare se si vuole continuare a rimanere nel gruppo. Un prezzo che tuttavia potrebbe essere, sempre e comunque, vantaggioso.

Mi faceva notare un’amica che ognuno di noi legge in virtù delle proprie conoscenze. Alcuni tendono a percepire più di quanto è espresso in un testo, poiché attivano confronti e relazioni. Per altri può valere esattamente l’opposto, cioè non capiscono nulla di quanto leggono oppure tendono a travisarlo. Naturalmente questo vale pure per i social, anche perché queste letture sono colte al volo mentre si svolgono mille faccende. Nondimeno sono convinto che, se sai usarli bene, anche i social potrebbero essere strumenti di cultura. Infatti, nei giorni scorsi mi sono reso conto, in modo ancora più tangibile, che la cultura non è semplicemente il complesso delle conoscenze che abbiamo appreso attraverso lo studio e l’esperienza, ma anche la ricerca continua di allargare i propri limitati confini o il rielaborare quanto credevamo acquisito. Mi è bastato leggere in un post l’espressione “Sic est” per richiamare alla memoria un’affermazione di Seneca ben più incisiva. “Sic est, non muto sententiam”, che tradotto suona “è così, non cambio opinione”. Di primo acchito avrei postato l’espressione latina così com’era; ma ho pensato che sarebbe passata come una superflua e banale ostentazione linguistica. Tuttavia, ripescare nel mio passato, dal Libro I, la Lettera Decima che Seneca scrive al suo amico Lucilio è stata per me una letizia inaspettata. Lo dico col sorriso sulle labbra, perché vi assicuro che è insistente in me il desiderio di abbandonare specialmente WhatsApp, con tutti quei post di condiscendenze esagerate e ostentate, condivisioni, réclame autoreferenziali, idee fisse e ripetitive che qualcuno ha opportunamente definito pandemiche.

La lettera di Seneca parla vivaddio del valore che ha la solitudine. «Rifuggi dalla moltitudine, dai pochi, persino da uno solo», consiglia il filosofo all’amico. E gli racconta di quando Cratete di Tebe – nel suo vagare come un cane randagio, perché per lui la casa e la città si trovavano in ogni punto dell’universo – incontrò un ragazzo che se ne stava in disparte. Gli domandò cosa facesse lì tutto solo. «Parlo con me stesso», fu la risposta. E Cratete ribatté: «Fa’ molta attenzione, stai parlando con un cattivo individuo». Ognuno di noi sa bene che sovente chi si isola dagli altri rimugina pensieri tristi e melanconici. Solitamente, chiarisce Seneca, teniamo d’occhio chi è in preda al dolore e alla paura, perché non faccia uso cattivo della solitudine. Se è dissennato è bene che non sia lasciato solo con sé stesso: ora rimugina brutti propositi, ora manifesta sentimenti che prima nascondeva. Eppure, spiega Seneca a Lucilio, «non c’è nessuno con cui vorrei che tu avessi rapporti se non con te stesso». Oso addirittura affidarti proprio a te stesso. Vedi come ti stimo? Ripenso a quanta forza d’animo esprimi nelle tue parole; per questo mi sono subito rallegrato fra me e me e ho detto: «Queste frasi nascono dal cuore, non dalle labbra; costui non è uno dei tanti, mira al bene». E quale bene, Lucilio, bisognerebbe chiedere a Dio? «Chiedi l’integrità della mente, la salute dell’anima e infine quella del corpo».

Probabilmente nessuno si è curato di tradurre il testo originale latino che ho inserito su WhatsApp e che ora ho sintetizzato. Con certezza so che una sola persona del gruppo ha scoperto che si trattava di Seneca. Spesso metto alla prova i miei interlocutori con una sorta di esercizi iniziatici, ai quali sottopongo per primo me stesso. Esercizi di concentrazione e di riflessione. In questo caso occorreva che, spontaneamente, qualcuno manifestasse la volontà di scoprire l’autore e quale messaggio volesse trasmettere. Non ho messo nel mio post l’ultima parte della lettera. Era mio desiderio che il lettore scoprisse il “piccolo dono” che Seneca spedisce al suo amico Lucilio. Lo ha trovato nelle pagine di Atenodoro. «Sappi che sarai libero da ogni passione, quando arriverai al punto di chiedere a Dio solo ciò che puoi chiedere davanti a tutti». Invece, come sono stolti gli uomini, commenta Seneca: quando parlano a Dio gli si rivolgono sottovoce; se qualcuno li ascolta, tacciono, e quello che non vogliono che gli uomini sappiano lo raccontano a Dio. «Vedi, dunque, se non è utile questo insegnamento: vivi in mezzo agli uomini come se Dio ti vedesse e parla con lui come se gli uomini ti udissero. Stammi bene». Amici miei, questi sono i messaggi che hanno oltrepassato la profondità del tempo. Non sono figurine trovate su Google.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Thomas Ulrich da Pixabay

WhatsApp? Facebook? Credetemi: è come incontrarsi nei vecchi bistrot di provincia

di Sergio Bertolami

Quando rifletto su quel che resta del giorno, mi sovviene il mio amico Camillo Marino che a Pier Paolo Pasolini confessava la «febbre che ti assale quando ti accorgi che la provincia rischia di strozzarti, di uccidere le tue migliori speranze». So cosa i due hanno fatto insieme (alla faccia dei piagnoni di provincia), ma ormai da tempo non posso più chiedere a Camillo cosa rispose Pasolini alla sua esternazione. Forse quello che rispose a Manlio Cancogni: «Quando un treno va a cento all’ora, tutti quelli che ci sono sopra vanno alla stessa velocità, anche se sono degli zoppi; se il treno come in Italia va a trenta, i passeggeri, per quanto facciano, non possono correre di più». A pensarci bene si potrebbe sempre cambiare treno, però. Si potrebbe raggiungere una stazione in cui passano le Freccerosse o le Freccebianche e provare a respirare aria nuova. Si potrebbe persino andare a vivere vicino a un aeroporto, anziché a una stazione, per stare con un piede a Parigi e con un altro a New York.

La realtà è però un’altra: molti lasciano la provincia, conservando il sogno di tornarci e finire qui il resto della vita. Quest’aria piccolo borghese della provincia, chiusa, condizionante sotto mille aspetti, che ti dà modo di lamentarti senza fare nient’altro di utile, pare calzare a pennello quando all’imbrunire vengono meno le inquietudini della gioventù e sembra appagante pure l’ambiente riparato di una stanza. È una fluttuazione tra claustrofobia e claustrofilia, tra l’oppressione dei luoghi angusti e il desiderio di stare appartati. Per alcuni, l’unica soluzione è isolarsi, come per Ireneo Funes in Borges, che può contare solo su di una prodigiosa memoria da quando la paralisi lo tiene chiuso nella sua camera. Oppure come Antoine Roquentin in Sartre, che perde goccia a goccia il suo passato di viaggiatore e rintanato in provincia continua a cenare al Ritrovo dei Ferrovieri e ad ascoltare sempre lo stesso disco: Some of These Days.

Accade così anche per molti personaggi nei romans-romans di George Simenon, quando descrive la sonnacchiosa provincia francese. Si ritrovano nei bistrot. Per la maggior parte quel rito segna la fine della giornata. Verso le cinque del pomeriggio il piccolo sarto Kachoudas va a bere uno o due bicchieri di bianco. Ci vanno anche il cappellaio Labbé e tanti altri. «La sala era gremita, c’era addirittura gente in piedi. I contadini più modesti si riunivano nei piccoli caffè attorno al mercato; lì invece venivano i più ricchi, o i più intraprendenti… Vicino alla Grosse Horloge, c’erano due caffè, dello stesso tipo del Café des Colonnes, con i soliti clienti che si facevano vedere a ore fisse e giocavano a carte, a tric trac o agli scacchi. Solo che non erano gli stessi gruppi: o si apparteneva all’uno o all’altro, e lui faceva parte di quello del Café des Colonnes».

A me, questi bistrot, ricordano molto i Social Network. I gruppi WhatsApp di oggi, con quel parlottio confuso e petulante. C’è uno che mi dà appuntamento su Instagram dove ogni sera terrà una diretta alle 23,30. Mi ricordano i gruppi che hanno scoperto i meeting con Skype, Zoom, Cisco. Quanti gruppi frequentate alla sera, smettendo col lavoro? Lo chiedo perché almeno, una volta, il signor Labbé s’infilava il pesante cappotto nero e uscendo ripeteva al commesso: «Chiuderà lei il negozio. Buonasera, Valentin». Ora, senza neppure muoversi dalla scrivania c’è chi colloquia in video con Massimo Cacciari. Come si fa a sottrarsi a tutto questo, mostrandosi sempre cortesi? Ho scritto a una amica, su Facebook (dove sennò?): «Cara Pina, grazie per la tua considerazione. Il fatto è che il mio impegno culturale non è più rivolto a Messina, se non marginalmente. È una città che non reagisce e mi piange il cuore, perché meriterebbe davvero quanto le persone dicono di amarla. Studio e scrivo in continuazione. Conto di pubblicare, ma molto rimarrà nel cassetto, perché mi pare che ben pochi siano affascinati da ciò che interessa me. Cosa? Leggere le fonti, spacchettarle, analizzarle. Sto diventando come Jean Floressas Des Esseintes, il protagonista di À rebours, il romanzo di Joris-Karl Huysmans. Io tuttavia non mi ritiro dalla società come fa Des Esseintes. Al contrario, vi partecipo col sorriso sulle labbra: annuisco alle buone intenzioni, incito a tradurle in realtà, ma oramai non credo che tutto ciò possa realizzarsi. Almeno in tempi brevi».

Questo vorrei rispondere a tutti. A tutti! A ben guardare la data, l’ho postato prima della pandemia ed ora lo confermo. A proposito di À rebours, Huysmans pensava di scrivere un libro ermetico che avrebbe stimolato solo una decina di persone, ma al contrario scoppiò come una granata. Non interessò affatto ad alcuni dei suoi illustri amici. Huysmans perse Zolà, ma conquistò Mallarmé e Valéry. Morto un papa se ne fa un altro.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Annalise Batista da Pixabay 

Walter Tobagi: “Presi nella frenesia di ogni giorno, rischiamo d’inciampare nella memoria corta”

A distanza di tempo questo articolo pare ancora di attualità per ricordare i principi che muovevano chi, un tempo, partecipava alla politica, senza tessera di partito ma con le idee chiare. Provate a leggerlo anche voi e capirete dalle stesse parole di Walter Tobagi – ucciso dalle Brigate Rosse la mattina del 28 maggio 1980 – perché oggi la sinistra italiana ed europea, annegata nell’ideologia, fatica a trovare il proprio orizzonte politico al quale puntare attraverso una mirata organizzazione, pianificazione e strategia.

di Sergio Bertolami

Non ci crederete se vi dico che rammento esattamente quelle immagini trasmesse dal telegiornale quarant’anni fa. La mattina del 28 maggio 1980, il corpo di Walter Tobagi riparato con pietà da un lenzuolo bianco. Riverso a terra, sul ciglio del marciapiede, l’ombrello ancora chiuso poco distante da lui. Non immaginavo, allora, che a quel giornalista assassinato dai terroristi a soli 33 anni, avrei legato una parte della mia vita. Per questo vorrei richiamarmi a qualcosa riguardante più i miei ricordi che Tobagi, giacché del professionista, dell’intellettuale, del sindacalista alla guida dell’Associazione della stampa lombarda, oggi le pagine dei giornali sono piene. Di mestizia, fra sincerità e convenzioni. Vorrei, semplicemente e modestamente, raccontare della dedizione con la quale ho, in qualche modo, contribuito a tenere viva la sua memoria.

Cominciamo dal primo degli episodi che mi si affollano in mente. Un aereo, volando sopra un mare di nuvole bianche, dalla Sicilia mi porta a Milano. Sono atteso, per rapporti di lavoro, da una società di consulenze immobiliari. Tutti in piedi, attorno al grande tavolo delle riunioni; saluti, scambio di convenevoli e brochure. Chi mi presenta accenna: l’architetto è persona impegnata non solo nella progettazione; a Messina ricopre il ruolo di presidente del Centro Culturale Walter Tobagi. I presenti rimangono stupiti, vogliono che spieghi loro come mai dei siciliani, a distanza di oltre un decennio, ricordino un giornalista del Corriere della Sera. Ho illustrato, in pochi tratti, la disciplina e il lavoro tenace di chi, come Walter Tobagi, sapeva mettere in pericolo un ottuso sogno rivoluzionario, demolendo solo con le parole i principi della lotta armata. Il suo era, a mio avviso, il modo di agire che poteva cambiare il mondo: all’interno delle istituzioni, modificando i difetti di un capitalismo dimentico di ogni umanità. Non ho parlato, in quella stanza piena di luce e manager, di Owen, Fourier, Saint-Simon, insomma delle utopie urbanistiche nel XIX secolo che sempre mi sono state a cuore. E non ho parlato neppure di politica. Ho taciuto di Gennaro Acquaviva, che un giorno decise di fondare una rete italiana di Centri Culturali intitolati a Walter Tobagi. S’ispiravano all’opera di quel giornalista, socialista di idee ma senza tessera, riformista, cattolico. Ho incontrato Acquaviva a Palermo, anni dopo. A un convegno politico. Anche lui sbigottì quando, nel corso della pausa caffè, mi presentai. Esisteva ancora in Italia un Centro Tobagi, dopo che uno tsunami aveva azzerato il PSI craxiano? Pranzammo insieme e mi vide come un segno del destino. Pochi giorni prima, a Roma, si era recato da un notaio per rimettere insieme i cocci di quella iniziativa anni-Novanta, fondata su di un programma didattico-culturale che realizzasse scuole di formazione politica. In un’epoca, che sembra appartenere ormai ad un’altra galassia, quella era la risposta socialista alle scuole di formazione politica d’ispirazione cattolica sostenute dalla grande cultura gesuita. Ogni parte metteva in campo il meglio di sé. I democristiani, Pintacuda e Sorge. I socialisti schieravano, quali professori di primordine, Giuliano Amato, Salvo Andò, Giorgio Benvenuto e persino un religioso come Gianni Baget Bozzo. L’idea di Gennaro Acquaviva era valorizzare il cattolicesimo sociale aggregandolo al riformismo liberal-socialista. Non era stato proprio lui che, nel 1984, aveva spinto Bettino Craxi al rinnovo della stipula del concordato fra Stato italiano e Chiesa cattolica?

I ricordi sono come una matriosca: s’infilano uno nell’altro. Ad Acquaviva non raccontai come mi sono ritrovato tra i fondatori dell’associazione che, in seconda battuta, avrei presieduto. Lo racconto a voi. Peppino Magistro, segretario del PSI a Messina, aveva colto col suo ineguagliabile e disinteressato intuito politico le potenzialità della proposta di Acquaviva. Mise insieme una lista di nomi e incluse anche me. Mi disse: chi meglio del direttore editoriale della rivista dell’Ordine degli Architetti di Messina può far parte di una associazione esterna al partito, impegnata nella cultura e nella politica, in grado di assumere posizioni autonome e autorevoli? Mi trovai così nell’elegante studio di un notaio, fra persone a me del tutto sconosciute o di cui avevo solo letto sulle cronache politiche della Gazzetta del Sud. Magistro aveva pensato bene di riunire le diverse anime della cultura progressista cittadina del tempo, giovani e meno giovani, professionisti impegnati. Persone che non parlavano seduti al bar dello sport, ma che la partita la giocavano in campo. Con un denominatore comune: essere fuori dal coro. «Alcuni nascono grandi», dice un personaggio di Shakespeare, «alcuni lo diventano, altri sono sorpresi dalla grandezza che è loro gettata sulle spalle». La grandezza era quella di Walter Tobagi, non certo la nostra che sottoscrivendo finalità e statuto assumevamo coscientemente un impegno. L’impegno era quello di sostenere azioni forti, esprimere e fare esprimere un pensiero pluralista, non ideologico, non condizionato e neppure condizionabile dai partiti. Me lo ha ripetuto fino alla fine il mio amico Magistro, lui così vicino a Nicola Capria che gli aveva chiesto di affiancarlo dopo avere lasciato le Acli di cui era stato presidente. Lui, Magistro, che sapeva coniugare quel cattolicesimo sociale e quel riformismo socialista ora rappresentati dal nascente Centro Tobagi. Nel metterci la firma mi chiedevo cosa avrei trovato in quel gruppo, che si richiamava agli ideali di Walter Tobagi.

Rispondo: vi ho trovato mille occasioni per rafforzare ciò in cui già credevo: che non c’è libertà nella povertà, che occorre combattere l’appiattimento sociale, lo sconforto che ti porta all’accettazione passiva delle idee ricorrenti del momento, che occorre concentrarsi su di una professione colta e lungimirante, sulle nuove tecnologie senza mai dimenticare i maestri del passato. Dalla sera in cui a Messina fondammo il Centro Culturale, ho cominciato a leggere quanto aveva scritto Tobagi e quanto su di lui è scritto. Tenere vive le memorie, questo è il nostro compito di uomini, ne sono convinto. Fare da cerniera tra passato e futuro. Per questo, se oggi mi imbatto in certe discussioni prive di sostanza, in cui si sbaglia in modo marchiano, preferisco ricordare a tutti di migliorare la capacità di ascolto. Come quando si parla di un elettorato popolare che sembra a molti sfuggire di mano. L’aveva, eccome, la capacità d’ascolto, Walter Tobagi. Giudicate voi: «C’è un vizio facile di trattare il “popolino”. La verità è che le sottili distinzioni ideologiche valgono in altri contesti sociali. Qui conta il richiamo di Bertolt Brecht: “Voi che volete insegnarci a vivere, ricordate che prima viene la bistecca e poi la morale”. E il voto è niente più che uno strumento, il mezzo di cui la povera gente si serve per dare corpo alle proprie speranze o per punire le promesse deluse». Non basta? Sentite: «Il segreto della nuova politica, meno ideologia e più concretezza, potrebbe essere questo: non promettere la luna, ma preoccuparsi dei bisogni della gente». E se qualcuno non lo ha capito ancora, non c’è proprio rimedio.

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Musumeci sa cos’è l’identità siciliana, ma fa finta di non saperlo

di Sergio Bertolami

Nei giorni scorsi il Governatore Musumeci ha dichiarato di non sapere cosa sia l’identità siciliana, asserendo che nessuno lo sa. In verità, sarebbe bene che parlasse per sé. Vorrei però aiutarlo, per fargli scoprire che anche lui, sotto sotto, ne è consapevole, anche se preferisce non affrontare i termini autentici del dibattito. Richiamando alla memoria un po’ di storia, gli chiederei di pronunciare la parola “ciciri”. Ve la ricordate la guerra del Vespro? Quei terribili novant’anni occorsi per conquistare l’autonomia dagli Angioini? Quando i siciliani incontravano un sospetto, gli mostravano un pugno di ceci e gli chiedevano di pronunciare la parola “ciciri”. Se fosse stato un francese avrebbe risposto “sisiri”. Forse Musumeci non ha associato l’episodio al fatto che la lingua è uno dei tanti segni identitari ed è legata alla cultura di un popolo.

Non è immaginabile che Musumeci disconosca del tutto cosa sia l’identità, neppure nella sua accezione più ampia. Lo ha dimostrato egregiamente, dal momento che ha conferito ad Alberto Samonà la delega di “Assessore regionale ai Beni culturali e della Identità siciliana”. Scelta ineccepibile dal suo punto di vista, perché il neoassessore è sostenuto da una cultura di destra; ineccepibile soprattutto in quanto è persona che ha costruito la propria appartenenza politica attraverso un percorso identitario più vicino a quello del Governatore, piuttosto che a quello di Salvini. Che ora militi nella Lega Nord, poco importa. Poco importa, naturalmente per Musumeci!

Tuttavia, fuori da ogni fraintendimento, chi nei giorni scorsi ha sostenuto che Musumeci dovesse fare scelte differenti, a mio avviso, non capisce un cecio di pragmatismo politico, che prescinde dall’etica, dai sentimenti e dalle questioni di principio. Cercherò di spiegarlo a quanti, da posizioni di sinistra, mormorano per trovare ogni pretesto e screditare l’assessore fresco di nomina. L’unica vera caduta ideologica, Alberto Samonà l’ha commessa quando pur avendo brillantemente superato le “parlamentarie on line”, si è visto a suo dire estromesso dall’elenco dei candidati al Senato del M5 Stelle. È chiaro che neanche Samonà, in quel caso, aveva capito cosa fosse essere identitario ad un gruppo politico. Lui, con il suo veleggiare con la barra tutta a dritta, non era certo un timoniere affidabile agli occhi del capitano Di Maio. Ecco invece perché è stato accolto a braccia aperte nella Lega di Salvini, ed ecco perché ora il premio gli viene consegnato dalle mani di Musumeci, riconoscente agli alleati.

Per meglio esemplificare il concetto di identità, ricorro al “principio di non contraddizione” espresso da Aristotele. Vi prego di seguirmi. “A” non può essere “non A”, cioè B. Se disponiamo su di un tavolo delle mele verdi, l’unica mela rossa, capitata per caso in quell’insieme, non è una mela verde. Ciò non toglie che sia pur sempre una mela, ma anche un bambino capirebbe che è una mela di una differente qualità e quindi di differente gusto. Fuori di metafora, l’assessore Samonà, organico all’attuale governo regionale di destra, non è escluso a priori che possa dimostrarsi un intellettuale capace di espletare il compito affidatogli. La maggior parte dei lettori sa che è organico colui che sceglie da che parte stare. Quindi, salvo un breve momento di smarrimento pentastellato, l’assessore alla Cultura ha sempre scelto la sua parte politica a destra e svolgerà a destra il suo ruolo in virtù della propria scienza e coscienza.

Meravigliano però quanti, già da questa mattina, hanno ammainato i vessilli da combattimento issati nei giorni precedenti con tanta animosità: nella speranza, dicono, che l’assessore sappia valorizzare il patrimonio siciliano, espressione della identità isolana. Ciò che mi pare sia stato sottovalutato è un importante principio di ottica. Il principio della “polarizzazione per riflessione”. Mi spiego, abbiate pazienza. La luce (che permette di vedere ogni elemento naturale col suo proprio colore) può essere polarizzata anche in conseguenza di un fenomeno di riflessione. Se provate a guardare, anche semplicemente uno specchio d’acqua chiara, attraverso un filtro polarizzatore come sono degli occhiali da sole, la luce riflessa dalla superficie diventerà più forte o più debole ogni volta che si cambierà posizione. Ciò poiché, anche inconsapevolmente, si è fatto ruotare il filtro polarizzatore e quindi l’angolo di polarizzazione. I fisici lo chiamano angolo di Brewster.

Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che l’assessore guarderà le problematiche col filtro polarizzatore della sua parte politica. Quindi anche le cose più chiare, come l’acqua, assumeranno una tonalità differente. Una tonalità che animerà la discussione e renderà complessa e articolata l’interazione politica. Perciò, chi fuori dai giochi si limita semplicemente a sperare e a chattare finirà col morire disperato, se non assumerà una coscienza politica costruttiva. Vale ricordare e comprendere da subito che, come diceva Nietzsche, «Non ci sono fatti ma solo interpretazioni».

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I beni culturali sono o non sono la carta d’identità dei siciliani?

di Sergio Bertolami

Le differenti posizioni politiche arricchiscono sempre il dibattito per la ricerca delle soluzioni a tutela della comunità. Ciò vale nelle migliori democrazie. Un confronto di idee, espresso in modo pacato e riflessivo, è sempre auspicabile. Per gli antichi la “disputatio” era metodo attinente alla ricerca di una qualche verità politica, scientifica o teologica. Pur tuttavia, lungi dall’alimentare polemiche, vorrei porre l’attenzione sul fatto che per i politici regionali il problema rimane quello di continuare a considerare il patrimonio siciliano come un bene di poco conto, anziché una vera ricchezza. A tutti gli effetti, è merce di scambio. Con l’aggravante di non impegnarsi a trovare, per questo assessorato, un degno sostituto del compianto Sebastiano Tusa.

Non ho difficoltà a concordare con quanti asseriscono che la scelta di un assessore, piaccia o no, sia nelle prerogative del Governatore Musumeci e quindi sia parte delle valutazioni della gestione politica. Mi fanno sorridere, infatti, le manifestazioni improprie di certi pseudo intellettuali che invitano i siciliani “a disertare parchi archeologici, musei, iniziative, sagre, polpette, tric e trac in mano ai leghisti”. Vorrei piuttosto ricordare che fu proprio un assessore ai Beni Culturali, nella prima Giunta presieduta da Salvatore Cuffaro, a dettare le linee guida di quella che da allora si chiama “identità siciliana”. Per chi non lo sapesse è quell’Alessandro Pagano che da Forza Italia attualmente milita nella Lega Nord, siciliano laureatosi all’Università di Messina, oggi su tutti i giornali per avere chiamato Silvia Romano “neo-terrorista”.

La scelta della lega Nord da parte del nostro Governatore Musumeci non è quindi, a mio avviso, il punto nevralgico del discorso. È un fatto di mera cronaca politica, che però porta alla luce l’inconsistenza della preparazione culturale dei nostri politici. L’identità siciliana non è una espressione il cui contenuto può essere manipolato ad uso di una parte politica. È il frutto di una stratificazione millenaria. Le “Curiae generales” del 1130 a Palazzo dei Normanni, per la proclamazione del Re di Sicilia, rappresentano la convocazione del primo parlamento della storia moderna in ambito internazionale. Questo è un fatto identitario del popolo siciliano. Un fatto culturale, prima che politico. Quindi l’idea di porre al centro dell’attenzione l’identità siciliana e accorparla al titolo di un assessorato alla Cultura è stato senza dubbio un importante fatto culturale oltre che politico. 

Oggi, tuttavia, la scelta di un appartenente alla Lega Nord per ricoprire il ruolo di assessore alla Cultura siciliana è, più che mai, contro ogni logica. Sarebbe stato un fatto meramente politico proporre alla Lega un assessorato all’Agricoltura, come si prospettava. Ma non si possono usare i Beni culturali e l’identità siciliana, ovverosia la “carta di identità” di questa Terra, per contrattazioni rispondenti a logiche di potere. Esistono dei limiti che non vanno mai superati. Ecco quindi che la petizione proposta è manifestazione di un dissenso democratico sui contenuti della scelta culturale e la inopportunità politica. Fu Charles De Gaulle (un nazionalista, non certo un uomo di sinistra o un moderato centrista) a bollare i politici: «Sono giunto alla conclusione che la politica sia una cosa troppo seria per lasciarla fare ai politici».

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Cassandra Duval da Pixabay