Nelle sale cinematografiche arriva «Wonka» ispirato al romanzo «La fabbrica di cioccolato»

Il film «Wonka» è uscito nelle sale cinematografiche il 14 dicembre 2023. È un film prequel del romanzo di Roald Dahl «La fabbrica di cioccolato» e racconta la storia di Willy Wonka prima che aprisse la sua famosa fabbrica di cioccolato. Il film è interpretato da Timothée Chalamet nel ruolo di Wonka, insieme a Olivia Colman, Sally Hawkins, Rowan Atkinson, Keegan-Michael Key e Jim Carter.
Il film è stato diretto da Paul King, il regista di «Paddington» e «Paddington 2». Le recensioni della stampa sono state generalmente positive, con i critici che lo hanno elogiato per le sue immagini, la musica e la performance di Chalamet. Il film ha già incassato oltre 400 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il racconto cinematografico inizia con Wonka un giovane che vive con la sua famiglia in una piccola città. È un inventore nato e ha una passione per il cioccolato. Un giorno, Wonka scopre una formula segreta per fare il cioccolato più gustoso al mondo. Con questa formula, inizia a costruire la sua fabbrica di cioccolato.

Il lungometraggio segue Wonka mentre cresce e sviluppa la sua fabbrica. Esplora anche la sua infanzia travagliata e il suo rapporto con la sua famiglia. Ne emerge un personaggio complesso e sfaccettato, e il film fa un buon lavoro nell’esplorare la sua psicologia.

Chalamet è perfetto nel ruolo di Wonka. Porta al personaggio un’incredibile presenza scenica e un senso di mistero. Colman è anche eccezionale nel ruolo della madre di Wonka. Hawkins, Atkinson, Key e Carter forniscono supporto solido. «Wonka» è, dunque, un film divertente e commovente, perfetto per tutta la famiglia.

Ma chi era Roald Dahl? autore del romanzo «La fabbrica di cioccolato»? Roald Dahl è stato uno scrittore e sceneggiatore, noto soprattutto per i suoi libri per bambini. Le sue opere comprendono “Charlie e la fabbrica di cioccolato”, “James e la pesca gigante”, “Matilda”, “Il GGG” e “Le streghe”. È anche uno scrittore di fama mondiale, perché i suoi romanzi sono stati tradotti in oltre 50 lingue e hanno venduto più di 250 milioni di copie in tutto il mondo.

Dahl è nato a Llandaff, nel Galles, nel 1916, da genitori norvegesi. Studiò alla Repton School e alla Royal Military Academy Sandhurst, ma lasciò Sandhurst per lavorare per la Shell Petroleum in Africa. Nel 1939, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale, si unì alla Royal Air Force e volò in 30 missioni sul Nord Africa e sul Mediterraneo. Fu abbattuto in Libia nel 1940, ma sopravvisse e gli fu assegnata la Distinguished Flying Cross.

Dopo la guerra, Dahl lavorò come giornalista e scrisse numerosi racconti e sceneggiature. Iniziò a scrivere libri per bambini negli anni ’60 e il suo primo romanzo, “Charlie e la fabbrica di cioccolato”, fu pubblicato nel 1964. Il libro ebbe un enorme successo e fu adattato in un film popolare nel 1971. Dahl continuò a scrivere molti altri libri di successo, e presto divenne uno degli autori per bambini più amati di tutti i tempi.

Lo si ricorda come una figura controversa e alcuni dei suoi libri sono stati criticati per la loro violenza e il loro umorismo oscuro. Tuttavia, i suoi testi sono stati elogiati anche per la loro immaginazione e per gli arguti commenti sociali. Dahl morì a Oxford, in Inghilterra, nel 1990.

Oltre ai libri per bambini, Dahl ha scritto anche diverse sceneggiature, tra cui “Chitty Chitty Bang Bang” (1968) e “The Witches” (1990). Figura complessa e affascinante, come uomo e come scrittore, Roald Dahl ha lasciato un’eredità duratura nella letteratura e nella cultura. I suoi libri continuano ad essere apprezzati ancora oggi da bambini e adulti di tutto il mondo, e le sue storie ci ricordano il potere dell’immaginazione e l’importanza della gentilezza e del coraggio.


Picasso – Quanti aneddoti curiosi sono rimasti nell’immaginario

Fotografia ritratto di Pablo Picasso, 1908

Molti sono gli aneddoti curiosi che delineano il carattere di personaggi famosi. Su Picasso se ne raccontano una miriade. Nel corso della sua vasta carriera, durata oltre ottant’anni, ha esplorato infatti vari stili artistici – tra cui cubismo, surrealismo ed espressionismo – lasciando un segno indelebile nella storia dell’arte moderna, ma anche nell’immaginario. Non è dunque della sua arte che scriveremo in questa pagina, quanto della sua umanità ricca di risvolti sorprendenti.

Un giorno, Picasso stava passeggiando per le strade di Parigi quando vide un uomo che vendeva dei quadri. Erano di scarsa qualità, ma Picasso, da uomo generoso, decise di comprarne uno. Molto felice di vendere il quadro al famoso artista il commerciante gli disse: “Grazie, signor Picasso. Questo quadro è un’opera d’arte autentica, mi creda. È stato dipinto da un mio amico che è un artista di grande talento.”

Picasso sorrise e rispose: “Certo, ne sono consapevole. Sono io l’artista.”
L’uomo rimase stupito e chiese: “Ma come è possibile? In verità l’ho dipinto io stesso.”
Picasso rispose: “Sì, questo lo so. Ma sono stato io l’ho creato.”
L’uomo non capì a cosa l’artista si stesse riferendo, ma non osò contraddirlo. Si limitò soltanto a sorridere e a ringraziarlo ancora una volta per aver comprato il suo quadro.
Dopotutto, Picasso era sempre pronto a riconoscere le capacità degli altri, anche quelli meno talentuosi di lui.

Un altro aneddoto? Eccolo: Picasso era un uomo molto esigente. Un giorno, stava lavorando a un nuovo dipinto quando un amico venne a trovarlo nel suo studio. L’amico guardò il quadro e disse: “Mi piace molto: è davvero molto bello!”
Picasso, però, poco soddisfatto, rispose: “Non è ancora pronto. Ci sono ancora troppi dettagli da sistemare.”
L’amico rimase sorpreso e insistette: “Ma è già perfetto!”
“Perfetto? No, non è ancora perfetto. Non sarà perfetto finché non sarà esattamente come lo vedo nella mia mente.”

È chiaro che Picasso, nel suo lavoro, non si accontentava mai e che cercava sempre qualcosa di più. Come quando, conversando con un gruppo di amici, uno di loro gli domandò quanto tempo ci mettesse a dipingere un’opera. Picasso rispose: “Dipende. Se lo faccio per me, ci metto un’ora. Se lo faccio per un ricco collezionista, ci metto una settimana. E se lo faccio per un museo, ci metto un anno.”

L’ironia e il disincanto nei confronti del mondo dell’arte non gli mancavano di certo. Era, infatti, cosciente che il suo valore era determinato dal mercato, e che le sue opere valevano di più se erano destinate a collezionisti facoltosi o a musei.

Un ultimo aneddoto curioso su Picasso riguarda la sua passione non solo per la pittura ma anche per il gioco d’azzardo. Era un giocatore incallito, e spesso perdeva grandi somme di denaro al tavolo verde. Una volta, si dice che perse una partita di poker con un ricco industriale americano. L’industriale, saputo che il giocatore battuto era il famoso Picasso, gli chiese in cambio un suo lavoro. Picasso accettò, e schizzò un’opera in pochi minuti. Lo intitolò “La Femme au chien”, e da questo disegno trasse uno dei suoi più celebri dipinti, nel quale ha ritratto la seconda moglie, Jacqueline Roque, e il loro cane Kaboul, un levriero afgano.

Pablo Picasso, Femme au Chien (Donna con cane) olio su tela, 1962

Questi non sono che pochi esempi dei tanti aneddoti curiosi che si raccontano su Picasso. L’artista spagnolo era un uomo complesso e affascinante, e le sue storie sono sempre divertenti e istruttive.


Ruth Wakefield e il suo famoso biscotto con gocce di cioccolato

Ruth Wakefield aveva 25 anni quando nel 1930 lasciò il suo lavoro dedicato all’insegnamento per aprire, insieme al marito Kenneth, una locanda ubicata in una casa cantoniera a Whitman, nel Massachusetts. La locanda fu chiamata Toll House Inn, volendo ricordare le stazioni dei viaggiatori, quando cambiavano cavalli e mangiavano qualcosa prima di riprendere il viaggio.

Ruth si dava da fare in cucina ed era anche molto brava. Il suo nome è rimasto famoso per aver inventato accidentalmente nel 1938 il suo particolare biscotto con gocce di cioccolato. Fra le più gustose ricette che preparava per i clienti della locanda c’erano i biscotti al burro. Un giorno rimase senza noci tritate. Guarda il caso della vita: Ruth era amica di Andrew Nestlé che le aveva portato alcune barrette prodotte dalla sua ditta. Quindi decise di sostituire le noci col cioccolato. Spezzettò la tavoletta di quelle barrette Nestlé, sperando che il cioccolato si fondesse una volta messi biscotti al forno.

Ruth Graves Wakefield

Ma il cioccolato non si sciolse del tutto e rimase nell’impasto sotto forma di gocce cremose. Il risultato fu un dolcetto delizioso che divenne presto popolare fra i viaggiatori che sostavano nella locanda. Col passa parola, quel dolce delizioso fu chiamato “biscotto al cioccolato Toll House”. La notorietà assoluta fu raggiunta quando Betty Crocker ne presentò la ricetta in una seguitissima trasmissione radiofonica intitolata Cibi famosi da ristoranti famosi indicando l’ingrediente principale di quei biscotti, ovvero la barretta spezzettata di cioccolato Nestlé. Con la trasmissione la ricetta si diffuse e anche le casalinghe cominciarono a prepararla nelle loro cucine.

La Nestlé riconobbe subito il potenziale del nuovo biscotto e iniziò a vendere gocce di cioccolato appositamente per la cottura al forno. La ricetta fu infine inclusa nel libro di cucina di Wakefield, Toll House Tried and True Recipes. A partire dal 1939, Nestlé iniziò a regalare gocce di cioccolato a chiunque scrivesse chiedendo la ricetta. Nestlé iniziò quindi a produrre gocce di cioccolato appositamente per i biscotti e chiese a Wakefield di poter stampare la sua ricetta sulla confezione del prodotto, i Toll House Cookies. La confezione includeva anche un attrezzo per amalgamare l’impasto. Tutto ciò contribuì a rendere ulteriormente popolare il biscotto, rendendolo un alimento base per la colazione ela merenda.

Il biscotto con gocce di cioccolato divenne rapidamente un fenomeno nazionale ed è ora uno dei biscotti più popolari al mondo. Oggi è disponibile in innumerevoli varianti e la preparazione dei biscotti di Ruth Wakefield è facilmente rintracciabile su libri e siti web. L’invenzione di Wakefield ha avuto un profondo impatto sulla cultura americana e i suoi biscotti sono ancora apprezzati da persone di tutte le età. La storia di Ruth Wakefield e della sua creazione accidentale è una testimonianza del potere della creatività e del fascino duraturo di prelibatezze semplici ma deliziose.


A Vienna non dimenticate la Sachertorte, magistrale composizione di Franz Sacher

La Sachertorte, una squisita torta al cioccolato, è un iconico dessert viennese, rinomato per la sua armoniosa miscela di sapori e consistenze delicati. Il suo concepimento risale al 1832, quando il giovane pasticcere Franz Sacher presentò la nuova creazione al principe Klemens Wenzel von Metternich, nel corso di una grande cena per lo zar russo Alessandro I. La magistrale composizione di Sacher, con due strati di pan di spagna umido al cioccolato avvolti in albicocca e marmellata, e adornata da una ricca glassa al cioccolato, ha affascinato i palati degli stimati ospiti, proiettando la Sachertorte verso la celebrità della pasticceria mondiale.

Il segreto del fascino duraturo della Sachertorte risiede nella sua meticolosa preparazione e nell’equilibrata interazione degli ingredienti. La base del pan di spagna, testimonianza dell’abilità di Sacher, è realizzata con una delicata fusione di burro non salato, zucchero semolato, uova separate, cacao in polvere non zuccherato, farina per tutti gli usi, lievito e un sottile pizzico di sale. Questa complessa miscela viene sottoposta a meticolosa montatura e piegatura, garantendo una struttura ariosa e resistente.

La confettura di albicocche, una sinfonia di note dolci e acidule, completa l’intensità del cioccolato con il suo delicato calore. La marmellata, tradizionalmente preparata con polpa di albicocca e zucchero semolato, viene fatta cuocere a fuoco lento fino ad ottenere una consistenza liscia e leggermente addensata.

Il coronamento della torta Sacher, la glassa al cioccolato fondente, eleva il dessert a nuovi livelli di bontà. Il cioccolato fondente fuso, ricco di cacao, è infuso con panna e zucchero semolato, creando una ganache vellutata e brillante. Questa deliziosa glassa adorna la torta come una corona, aggiungendo un tocco di eleganza e opulenza.

La torta Sacher, con il suo impeccabile equilibrio di sapori e consistenze, si è giustamente guadagnata il primo posto nell’arte pasticciera viennese. La complessa preparazione e la meticolosa attenzione ai dettagli, tramandate da generazioni di membri della famiglia Sacher, salvaguardano l’integrità di questo capolavoro culinario. Mentre generazioni continuano ad assaporare questa squisita indulgenza, la Sachertorte rimane una testimonianza dell’eredità duratura di Franz Sacher e del patrimonio culinario di Vienna.

Oggi, la Sachertorte è uno dei dolci più famosi al mondo. È possibile trovarla in molte pasticcerie di Vienna, ma solo la pasticceria dell’Hotel Sacher di Vienna può utilizzare la ricetta originale, la quale è salvaguardata in una cassaforte presso la pasticceria e viene tramandata di generazione in generazione dai membri della famiglia Sacher. Occorre aggiungere che la ricetta originale della famosa torta al cioccolato è stata oggetto di una disputa legale tra l’Hotel Sacher e la pasticceria Demel, un’altra famosa pasticceria di Vienna. La disputa si è risolta nel 1938, quando è stato stabilito che l’Hotel Sacher aveva il diritto esclusivo di utilizzare la ricetta originale.

L’Hotel Sacher è stato fondato nel 1876 da Eduard Sacher, figlio di Franz. L’hotel è ancora oggi di proprietà della famiglia Sacher e la Sachertorte continua a essere prodotta secondo la ricetta originale.

Oltre all’Hotel Sacher di Vienna, la Sachertorte originale è disponibile anche all’Hotel Sacher di Salisburgo e nelle filiali Cafè Sacher di Innsbruck e Graz. È inoltre possibile acquistarla online sul sito web dell’Hotel Sacher.

In Italia, si può trovare la Sachertorte originale presso il Sacher Shop di Bolzano.


La sete di libertà ai tempi di Platone non è la stessa dei nostri giorni

di Sergio Bertolami

Su WhatsApp leggo il post di una mia amica che fa riferimento ad un brano tratto dalla “Repubblica” di Platone, che dice: «Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia».

Il brano è molto significativo. Soprattutto permette di riflettere, e non è cosa da poco. Tuttavia occorre considerare che il suo contenuto non può essere traslato ai nostri giorni senza contestualizzarne il pensiero. Non dimentichiamo che il riferimento al “contesto” è la grande conquista della nostra modernità. Il contesto sociale e politico di Platone ha come riferimento l’oligarchia, la demagogia, la tirannia. Concetti anche questi da storicizzare a loro volta. All’epoca il popolo era alla ricerca di un governo autoritario. Noi, al contrario, siamo tutelati da una repubblica parlamentare. Proprio oggi alle ore 12 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte riferirà alla Camera sulla crisi politica. Dopo il dibattito (quindi dopo un confronto fra presunti “coppieri”) per appello nominale i deputati saranno chiamati a confermare o meno la fiducia al governo. Non basta! La vera sfida numerica per la sopravvivenza di questa compagine governativa sarà domani al Senato. Non vado oltre, perché mi pare che le garanzie della nostra costituzione (perfettibile) bastino a rassicurarci che, pur apprezzando le intense parole di Platone, non viviamo nella società di 2400 anni fa. 

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Ahkeem Hopkins da Pixabay 

Non sempre il progetto vincitore di un concorso è davvero convincente

di Sergio Bertolami

My God! È lunedì e su WhatsApp sono ricominciate le schermaglie. C’è chi usa il fioretto, chi la sciabola o la spada, e pure l’arbitro non disdegna qualche affondo. Ciò che anima i cuori ardenti della Chat è la contesa. Come a noi, giovani architetti dei primi anni Ottanta, piacevano i concorsi di progettazione. Ci appassionava misurarci sul terreno della competizione, piuttosto che su quello degli incarichi ordinari. E se la competizione era lanciata da una rivista di prim’ordine, che prometteva una visibilità internazionale, allora il gioco si faceva eccitante. Mio fratello Daniele, era un trascinatore irrefrenabile, convinto che occorresse partecipare a molti dei bandi dell’epoca. Sosteneva che avrebbero permesso di emergere anche a degli illustri sconosciuti come noi. Aveva persino scritto a Renzo Piano, che da qualche anno godeva della fama conquistata col Beaubourg (chi lo conosceva prima di allora?), e aveva ricevuto anche risposta e l’incitamento a proseguire nei suoi convincimenti. Io, al contrario, obiettavo ogni perplessità. Avevamo da poco terminato un concorso per la progettazione di una piazza in un comune della Toscana, chiamati da uno dei nostri professori di composizione architettonica. Non avevamo vinto neppure un fiore di consolazione colto nel giardino immaginato. Ci avevamo lavorato alacremente per una quindicina di giorni, con un gruppo di amici indimenticabili. Caffè, sigarette, scherzi, battute di spirito, e poi ancora caffè, cercando di non rovesciarlo sugli enormi fogli da disegno. A colpi di Rapidograph e lametta da barba (per ogni minima correzione), ricominciare da capo avrebbe messo a repentaglio la consegna. L’orologio era il nostro nemico; non la notte o il sonno, ma le lancette delle ore.

Ecco perché ogni volta che, in studio, Daniele si sedeva alla mia scrivania con una rivista in mano, già sapevo che avrei dovuto principiare una battaglia estenuante. Una mattina mi aprì una gran pagina colorata di Domus. Il concorso annunciato non era una piazza per riqualificare un centro storico, un complesso di case fatiscenti da risanare come edilizia economica popolare, una fabbrica dismessa da trasformare in museo. Era semplicemente la proposta per una innovativa moquette, lanciata da Louis De Poortere e dalla prestigiosa rivista di architettura e design fondata da Gio Ponti. In palio i premi per i tre classificati, una mostra alla Fiera di Milano per cinquanta selezionati e, naturalmente, la messa in produzione della moquette prescelta. «Tu pensi che non riusciremo almeno a piazzarci fra quei cinquanta? Non vinceremo, ma sbarcheremo a Milano!». Dall’entusiasmo di mio fratello sembrava che dovessimo subito decidere se prenotare i biglietti del treno o dell’aereo. Mi convinceva, però, che non fosse un lavoro tanto impegnativo da fermare lo studio per qualche settimana. Nonostante ciò, chiesi il parere di Mario e Birgit e fu in sala disegno che piantammo il campo di battaglia. Mario era un giovane architetto, a modo suo figlio della Beat Generation, amato dai nostri clienti che con lui non provavano alcuna soggezione. Tutto il contrario era Birgit, una biondina uscita dall’Università di Belle Arti di Amburgo, di una precisione inappuntabile. Quella fu, probabilmente, l’unica volta che espressero un parere concorde. A loro avviso, il concorso copriva dei giochi già fatti e se proprio, Daniele e io, volevamo parteciparvi occorreva che, da titolare dello studio, prendessi il telefono per cercare una bella raccomandazione. A quel punto il gruppo di lavoro era definito; cosicché, riempire con solo i nostri due nomi il modulo d’iscrizione e spedirlo, fu tutt’uno.

Qualche settimana più tardi ricevemmo un plico contenente dei grandi quadrati di moquette bianca immacolata e due scatole di pennarelli nella gradazione dei bruni. Le istruzioni per l’uso spiegavano il funzionamento delle macchine e degli ugelli a iniezione che avrebbero realizzato il disegno. Come di consueto Daniele sfornò una profusione di schizzi e io selezionai le tre proposte da elaborare nelle modalità corrette. Poi fu tutto un lavoro di geometrie, perché di colori neanche a parlarne. Prima di quanto ci aspettassimo completammo i cartoni, tono su tono, e inoltrammo il tutto alla sede italiana della società belga. Non dovevamo che attendere i risultati. Nel frattempo, rispondevamo, al più, alle canzonature di Mario e di Birgit. Arrivò la data della mostra milanese, anticipata da un elegante catalogo spillato. Fu mio il compito di voltare pagina dopo pagina, attorniato dai presenti incuriositi. Il progetto vincitore s’intitolava “Tessuto urbano” e rappresentava una planimetria catastale da pavimento. Immaginate di camminare come Gulliver lungo le strade e le valli di Lilliput. Neppure il secondo e il terzo premio andarono a noi. Rimanevano ancora cinquanta progetti da guardare. Voltavo ogni foglio con lentezza esasperante, un po’ per creare suspense, ma soprattutto perché, ad ogni pagina in più, diminuiva la possibilità di una nostra traccia. Quando chiusi la quarta di copertina fu chiaro che di noi non c’era ombra. «Cosa mai potevamo aspettarci, noi del profondo Sud? Bastava leggere i nomi dalla commissione giudicatrice per comprendere quale sarebbe stato il risultato finale! Non ti sei procurato neppure un morso di raccomandazione, come avevo suggerito io!». Questa non è che una sintesi estrema dei commenti; gli altri è facile immaginarli. Che il concorso fosse verosimilmente orientato lo dimostrava una miriade di indizi.

Racconto però questa storia, giacché in fin dei conti ha una sua morale. A volte è lo stesso autore a metterla in evidenza, questa specie di lezione di vita, a volte invece è la sorte stessa che a sorpresa la serve in tavola. A noi capitò, quando una gentile voce femminile disse di chiamare per conto della LdP. In verità chi rispose al telefono comprese B&B, nota società di divani e poltrone. Stavo per rispondere di non avere tempo per incontrare un rappresentante di giro. Ma la LdP era proprio quella Louis De Poortere che mesi prima ci aveva lasciato con la bocca amara. La cordiale signora dava per scontato che io conoscessi ogni risvolto del concorso. La manifestazione di Milano non era che la prima tappa di un processo selettivo. La documentazione, raccolta evidentemente in varie parti d’Europa in altrettanti concorsi, era giunta a Mouscron, in Belgio, dove la fabbrica di moquette e tappeti pregiati ha sede centrale. Con questo mi si informava che a giorni avrei ricevuto una proposta di contratto per la produzione di uno dei disegni che avevamo spedito. Messo a punto il contratto, in tempi strettissimi avremmo dovuto procedere con la progettazione e concludere gli elaborati esecutivi. Quello che seguì fu un iter di lavoro artistico svolto, passo dopo passo, con i tecnici dell’azienda. La moquette fu concepita in tre varianti di colori, utilizzando soluzioni e macchine di nuovissima generazione che permettevano di produrre un “contract” di alta gamma per alberghi e uffici open space, navi e aeroporti, grandi ambienti arredati. Per l’Europa e il resto del mondo. Si affacciava sul mercato un nuovo concetto di vendita che evitava il magazzino di stoccaggio. Come al solito mio fratello Daniele aveva colto nel segno. Non avevamo vinto il concorso, non avevamo esposto a Milano a fianco dei nostri colleghi italiani. Ma a differenza loro, che non videro realizzato alcun lavoro, noi potevamo sfogliare il lussuoso catalogo cartonato, interamente a colori, nel quale la nostra moquette compariva nella sezione Design, a fianco di firme prestigiose come Ricardo Bofill o Ettore Sottsass.

Questa storia, nella sua semplicità, dimostra che non sempre il progetto vincitore di un concorso, magnificato in una mostra o in un convegno, celebrato dalle grandi riviste internazionali, lodato da tanti ammiratori, è davvero convincente da trovare un suo riscontro produttivo o d’uso. Dopotutto, il design, quello creato a favore della gente e non solo del marketing ad effetto, è una sintesi che assomma prerogative tecniche, funzionali, economiche, estetiche, riguardanti oggetti prodotti in serie per l’industria e per la vita. Ecco perché a partire da quei primi anni di professione giovanile, piena di fiducia e aspettative, con Daniele ho continuato a lavorare con grande serietà, evitando in progettazione personalismi e boutade. Sempre ridendo, scherzando, bevendo caffè. Sedevamo in poltrona, lui fumando l’immancabile sigaretta. Ogni volta col minimale incantamento di realizzare qualcosa che solo apparentemente il caso ci aveva concesso. Nulla esigendo da nessuno. E questo fino al suo ultimo respiro.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay 

 

Le mosche cocchiere, che come capitan di vaglia spingono i soldati alla battaglia

di Sergio Bertolami

Leggi tranquillo, non sto parlando di te. Questo è lo slogan che dovrei adoperare dopo avere scritto un pezzo su Experiences o un post su Facebook o WhatsApp. Non ti agitare, rilassati. Soprattutto impara a sorridere. Anni fa, per fare un esempio, scrissi che ognuno di noi ha come un angelo custode che si chiama fortuna. All’epoca, la mia fortuna era sonnacchiosa e pigra, mentre gli altri potevano contare su fortune sveglie, attive, scattanti. Un collega di lavoro all’improvviso mise il broncio, credendo che parlassi di lui. Questo soltanto per aver letto che avevo ripreso la personificazione della fortuna da un racconto della tradizione popolare calabrese e lui era proprio calabrese. Mi venne facile, allora, appianare l’equivoco; ma oggi con centinaia di lettori che si offendono, che si pungono e ti pungono, come fare? Capita con le zanzare. Non di zanzare, però, vorrei parlarvi, ma di mosche. Colgo, dunque, un gustoso episodio raccontato su WhatsApp dal mio amico prof. Cosimo Inferrera.

«Quel luglio 1943 fu assai difficile. Avevo poco più di cinque anni. Gli alleati sbarcando a Giardini spararono cannonate sulle colline dietro Calatabiano, dove durante l’emergenza dello sbarco ci eravamo rifugiati. Ci fu molta incertezza su ciò che avremmo potuto subire… Rotto il fronte a Gela, parte degli italiani smisero la divisa e si imboscarono. I tedeschi, da soli indietreggiando commisero atrocità e fucilazioni. Tutti ben noti, purtroppo. Nessuno poteva immaginare cosa avrebbero combinato gli anglo-americani, entrando. In effetti non fecero violenze… tranne qualche ceffone a chi faceva contrabbando. Fu a questo punto che si presentò sulla scena, un uomo di mezza età, aitante, ricco di favella e manieroso, accampando amicizie e benevolenza presso l’Amcot. Tale “Settitrummi” (Sette trombe) si chiamava, di nome o soprannome (non so) e si dette molto da fare per tranquillizzare la nostra famiglia. I miei vecchi, il nonno Cosimo paziente come il ragno e lo zio Corradino fervente socialista, Commissario al Comune di Calatabiano nei mesi critici del dopo guerra, lo inquadrarono subito: “Nenti, na musca cucchiera!”, cioè un bluff. Questo lo capii dopo. La mosca, dissero, si intrufola ovunque. Certe volte si poggia sul crine di un possente cavallo e volgendosi indietro dà a vedere e si illude di governare “u gnuri”. Il cocchiere e la carrozza su cui viaggiano signore e personaggi importanti… A un certo punto però arriva il colpo di frusta che fa svanire l’illusione… E la mosca ritorna mosca».

Vi siete mai soffermati a pensare quando avete imparato un’espressione e quando avete maturato il suo significato? Avete mai incontrato delle “mosche cocchiere”? Avete mai domandato loro: con quale pretesa potete arrogarvi il diritto di dire a qualcuno cosa debba o non debba fare, senza avere alcuna forza o potere di negoziazione? E questo vale, ancor di più, quando ci rivolgiamo alle Istituzioni.

Fabula merito deridet eum qui sine imperio vanas exercet minas, la favola deride a ragione, colui che senza averne il potere pronuncia vane minacce. Da questa massima latina scopriamo, quindi, che già nella Roma dei suoi tempi (cioè nella prima metà del 1° secolo d.C.) Fedro spronava a rendersi conto che prima di parlare occorre accertarsi di contare davvero qualcosa, anziché superbamente presumerlo. Questo concetto – oggi valido più che mai – risale addirittura a molto tempo prima, dal momento che Fedro si ispirò a una favola di Esòpo, vissuto presumibilmente tra il 7°e 6° secolo a.C.

La favola di Fedro e di Esòpo racconta di una mula che a fatica trainava un carro, quando sul timone venne a posarsi una mosca, che prese a rimbrottarla: «Come sei lenta, perché non ti muovi più in fretta, bada che non ti punzecchi il collo col mio pungiglione». Senza neppure scomporsi la mula rispose: «Delle tue minacce me ne sto infischiando, temo piuttosto, costui che seduto a cassetta mi tiene al giogo a colpi di frusta, e mi frena col morso alla bocca su cui sto sbavando. Perciò, smettila con questa tua sciocca arroganza. So bene io quando prendermela comoda e quando, invece, mettermi a correre». La Mosca e la mula, questo è il titolo con cui la favola è stata tramandata e ripresa in varie versioni. La più nota è quella narrata da Jean de La Fontaine nelle sue Favole del 1669: Le Coche et la Mouche.

«Per una strada in salita, erta e sabbiosa, esposta da ogni lato al sole, sei robusti cavalli trainavano a stento una Carrozza. I viaggiatori per alleggerirla erano scesi: le signore, un monaco, alcuni anziani. I cavalli sudati e trafelati stavano quasi per cedere… quando una Mosca si avvicinò ai cavalli, fingendo di animarli col suo ronzio, punzecchiando ora l’uno ora l’altro, e pensando che toccasse a lei spingere quel veicolo grosso e traballante. Si posò sul timone, sul naso del cocchiere. Appena si accorse che la Carrozza, bene o male, si era mossa e che i passeggeri erano in cammino, si prese lei soltanto la gloria e, andando e venendo, si riempiva di boria come un capitan di vaglia (di valore) che incita i soldati alla battaglia. La mosca senza tregua spingeva per fare avanzare la sua gente e affrettare la vittoria. Ma si lamentava che, in questo frangente, a spingere fosse da sola, che a lei sola toccassero tutte le cure, mentre nessuno aiutava i cavalli a uscire dai guai. Non lo faceva il monaco che leggeva il breviario prendendosi il suo tempo! Nel mentre una donna gorgheggiava. Era forse quello il momento di mettersi a cantare? Così Madame Mouche andava, qui e là, a ronzare nelle loro orecchie e faceva mille cose sciocche come questa. Dopo tanto lavoro la Carrozza arrivò in cima alla collina. “Respiriamo finalmente – disse subito la Mosca – Ho fatto tanto per questa brava gente che ora è sul pianoro. Pertanto, signori cavalli, ringraziatemi del mio disturbo”. Così fanno certi faccendoni, che s’intrufolano nei problemi da sembrare sempre necessari. E in ogni cosa risultano sgraditi da dovere essere cacciati».

Jean de La Fontaine non fa giri di parole su tali mosche cocchiere inopportune, smodate, noiose. Ognuno di noi le conosce. Solo loro pensano di poter nascondere facilmente le proprie manie di grandezza. Basterebbe che considerassero semplicemente di non dire ad alta voce ciò che più o meno tutti, nel loro intimo, pensano di sé stessi. Giusto o sbagliato. Solo che la maggior parte di persone, nel timore di eccedere, si frena per non uscire dalle righe. Diceva bene Arthur Schnitzler, che con Sigmund Freud andava a braccetto: «Ciò che ci sembra mania di grandezza non sempre è un disturbo psichico: spesso è soltanto il comodo mascheramento di una persona che dispera di sé».

IMMAGINE DI APERTURA Gravure réalisée par René Gaillard d’après un dessin de Jean-Baptiste Oudry représentant la fable Le coche et la mouche de Jean de La Fontaine (fable 8 du livre VII). Cette gravure est parue dans l’édition complète des fables de La Fontaine, parue en quatre tomes chez l’éditeur Desaint & Saillant, rue saint Jean de Beauvais à Paris, 1755-1759.

 

L’attraversamento dello Stretto? Come l’amore ai tempi del colera

di Sergio Bertolami

Vi prego, non guardate il dito, godetevi la luna, perché dell’attraversamento dello Stretto ho già scritto, ma vale tornarci con qualche esempio divertente. Tra i miei amici qualcuno non vuole sentire affatto parlare di ponte. C’è chi ha messo in rilievo quanta polvere solleverebbero in città i movimenti di terra fatti in cantiere. Un altro ha posto la questione sull’intasamento del traffico, a causa dei camion che avanti e indietro trasporteranno materiali edili. Avessero evidenziato che nello Stretto c’è una faglia, in verità, mi sarei preoccupato di più. Ho anche altri amici che, a differenza dei primi, difendono a spada tratta il progetto del ponte a campata unica, battezzato nel 1971. Il prossimo anno ricorreranno cinquant’anni. I primi mi fanno pensare a chi – pur liberissimo di non volere usare il televisore perché a suo dire trasmetterebbe pessimi programmi – pretende di vietarne l’uso ai familiari e pure agli estranei. I secondi assomigliano a chi vorrebbe continuare ad accomodare il vecchio televisore, perché era un modello di ottima tecnologia italiana. Dopotutto in salotto fa ancora bella mostra di sé. Occorrerebbe solo trovare un tecnico preparato che seduta stante sostituisse le valvole. Forse bisognerebbe reperire proprio le valvole, ma su Amazon può darsi che si trovino ancora.

Ho anche un terzo gruppo di amici. Sostengono, che si potrebbe raggiungere all’angolo il centro commerciale e comprare un apparecchio di ultima generazione: magari Ultra-HD e con schermo OLED. In altre parole, per attraversare lo Stretto, amerebbero una nuova soluzione, come per esempio un tunnel. Fino a ieri, quando ne parlavano, tutti pensavano a degli sprovveduti, perché pescano un’idea solennemente bocciata, altro che nuova! Bocciata da chi? «Nel 1969 c’è stato un concorso!», mi fanno notare gli oppositori. Sono stati presentati 143 progetti: 45 ponti a una o più campate; 9 soluzioni di tunnel; 21 proposte fra ponti galleggianti, istmi, dighe o altro ancora. Rispondo: come al festival di Sanremo, uno solo è il vincitore. Gli altri sono tutti esclusi, salvo ad avere comunque successo. Nel nostro caso, il progetto vincitore è il ponte più lungo del mondo, già pronto per il cantiere. Petrolini diceva: «Ti voglio portare a vedere il cantiere… stavano tutti zitti… non cantava nessuno…». Anche questa canzone da festival non la canta nessuno. Da cinquant’anni ne intonano semplicemente il ritornello. Solo che l’innamorato della canzone ora ha cinquant’anni di più. Ma chi se lo sposa uno con cinquant’anni di più. «Ma non l’hai letto L’amore ai tempi del Colera?», mi ha ripreso un’amica. Del Coronavirus! Ho replicato. «Ma no, il romanzo di Gabriel García Márquez, che racconta i lunghi patimenti di Florentino per la bella Fermina. Ultrasettantenni coroneranno infine il loro sogno d’amore».

Macché, il problema è politico! Le ho ribattuto; usando i termini degli accaniti sostenitori del ponte sospeso. Politico, piuttosto, come l’amore tra il rampollo Montecchi e la quattordicenne Capuleti! Che ora comunque di anni ne conterebbe sessantaquattro. Tuttavia, la storia di William Shakespeare finisce male. Così paventano i miei amici, perché questa scelta del Governo di fare il tunnel è una presa in giro. Gridano: il ponte non si farà! E non si farà neppure il tunnel… e i soldi andranno al Nord. Che non si faccia niente di niente, invero, lo teme anche Gian Antonio Stella, grande stella del Corrierone della Sera che ha rispolverato un divertente fumetto della Disney con Zio Paperone, Paperino, Qui, Quo e Qua, alle prese 38 anni fa con un bislacco scienziato. Indovinate chi è lo scienziato. Uno dei miei svariati amici. Di lui oggi tutti parlano perché ha proposto il tunnel nello Stretto. Vi assicuro, in coscienza, che lo scienziato in questione non è bislacco; è uno che studia, che scrive e partecipa a convegni in tutta Italia. Lui, ai mugugni ora diventati insulti, da gran signore risponde: vivaddio c’è qualcuno che legge! Al MIT (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per chi non ama le sigle) hanno esaminato le sue relazioni e lo hanno chiamato. Ditemi voi: al gran ballo di Corte tutti vorrebbero appioppare la propria pulzella al principe, ma lui sceglie che sia vostra figlia a calzare la scarpetta di vetro. Sai che invidia generale! Che bile!

Ora, dico io, il grande Gian Antonio Stella avrebbe potuto prendere il telefono e chiamare lo scienziato, ma ha fatto prima a digitare su Google e ripescare il fumetto di zio Paperone. Dopotutto siamo ad agosto e un po’ d’ironia non guasta. Il servizio migliore l’ha prestato, però, Tirreno Sat, televisione di Milazzo, ricorrendo una videoconferenza. Ha dato la parola allo scienziato. Questo non lo hanno fatto mica i giornaloni e giornalini italiani. I giornalini hanno preferito la smaccata irrisione. Rimane il fatto che il telefono lo potevano usare tutti. Vale per i giornalettisti e vale anche per gli altri scienziati scartati dalla kermesse: se il principe non ti ha neppure chiamato al gran ballo di Corte, telefona tu. Perciò, tu che sei un ordinario professore, uno straordinario giureconsulto, un emulo di Pico De Paperis, raccogli le carte che fino ad oggi hai prodotto e vai a Roma. Sarebbe stato meglio raccoglierle prima, ma forse fino ad ottobre potresti recuperare il debito formativo.

Ci sarebbe molto da aggiungere, ma vorrei concludere con due sole osservazioni. La prima: mi hanno proprio convinto tutte le celebrità chiamate ad avvalorare che quel ponte di 3300 metri si tiene in piedi, non svirgola al vento, ci passano sopra non solo le auto ma pure i treni (anche se le ferrovie non si sono ancora espresse) … e così via. Nondimeno, umilmente chiedo: se dovete rilasciare un certificato di “sana e robusta costituzione” a uno che non ha neppure un cenno d’influenza che bisogno c’è di fare consulti con le stelle del firmamento? Non sarà come col Coronavirus, quando tanti luminari istituzionali dicevano che potevamo dormire su sette cuscini? Seconda osservazione: uno scienziato elettrotecnico, che ha passato la vita nelle ferrovie, ne saprà qualcosina di treni, così da immaginare che possono passare attraversando una galleria? No! A lui non compete immaginare, né tantomeno scrivere o parlare! Per illuminare ci sono i luminari! Guai a far rimarcare che oggi si lavora in squadra e pure il mio iPhone (non so il vostro) non lo ha progettato Steve Jobs, ma i suoi ingegneri elettronici, i suoi designer dentro e fuori della Apple, i produttori di materiali e tecnologie d’avanguardia dentro e fuori dagli USA.

Per cui, quando mi parlano di opportunità (e me ne parlano senza retorica) ricordo sempre la storia vera di un giovanotto che aveva il padre funzionario delle ferrovie a Roccalumera. Lui studiava per geometra allo Jaci di Messina. S’è diplomato e per buona parte della vita è stato un dipendente del Genio Civile (a Reggio Calabria, a Imperia, a Genova, a Cagliari). Il geometra però studiava, studiava. Non per fare l’ingegnere, ma per tradurre (pensate un po’) i classici greci e latini. Alla fine, in quel di Stoccolma (che si trova in Svezia e non in Sicilia) si sono accorti di lui e gli hanno conferito il premio Nobel per la letteratura. Correva l’anno 1959 e quel giovanotto si chiamava Salvatore Quasimodo. Ma in questo caso si tratta di letteratura e i miti dello Stretto son fatti salvi.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Mohamed Hassan da Pixabay  

A proposito di ponte sullo Stretto, di tunnel, o niente di niente

di Sergio Bertolami

Nel medioevo, mentre i preti elevavano lodi al Signore e la folla pregava, i costruttori innalzavano cattedrali. Il mio interesse è rivolto a questi ultimi. Loro non si fermavano alle parole, né tantomeno alla tradizione consolidata. Con giudizio prendevano dalla tradizione e la innovavano. Se si fossero fermati al millenario arco a tutto sesto non avrebbero mai immaginato l’arco a sesto acuto. Se avessero continuato a tracciare su di un foglio un semicerchio, puntando il compasso su di un solo centro, l’architettura romanica sarebbe giunta immutata ai nostri giorni. Invece quei costruttori si accorsero che, doppiando i semicerchi, l’intersezione dei due segmenti d’arco originava una forma nuova, appuntita, lanceolata, svettante. L’idea non rimase sulla carta e passarono alla pratica. Fu allora che la distanza fra le colonne portanti diminuì e i carichi murari furono più equamente distribuiti. Le cattedrali crebbero in altezza e le preghiere degli uomini si avvicinarono a Dio, un tantino di più. Il miracolo si avverò. Fu un miracolo della scienza costruttiva. Un miracolo umano, condiviso fra le comunità. Non fu la conquista di un’archistar, perché i nomi di molti fra quei costruttori non sono statti neppure incisi sulle pietre, né tantomeno riportati sui codici miniati. Si sono dissolti nel tempo. Occorreva, però, fare proprio quel miracolo. Chi conosce la storia dei tre tagliapietre mi può comprendere. Un pellegrino, passando vicino a un cantiere edile, s’imbatté in un operaio tutto sudato che, nel segare pietre, imprecava per la fatica. Gli domandò cosa stesse facendo e quello rispose scortese: «Non lo vedi? Mi rompo le ossa». Proseguendo il pellegrino rivolse la stessa domanda ad un secondo operaio, che sbozzava conci con mazza e scalpello. Fiducioso rispose: «Mi sto guadagnando da vivere, per me e per la mia famiglia». Fu un terzo scalpellino a sorprendere il viandante quando, alzandosi da terra, si asciugò il sudore e mostrandogli i lavori già avanzati rispose lietamente: «Sto lavorando alla costruzione di una cattedrale». Come si vede, i tre uomini facevano tutti lo stesso umile mestiere, faticoso, muscolare, bruciati dal sole in estate e inzaccherati dalla fanghiglia d’inverno. Ciò che cambiava era il loro modo di guardare il mondo. Il primo mosso da un senso di rifiuto. Il secondo sopportava un destino apparentemente immutabile. Solo l’ultimo esprimeva il senso della comunità, consapevole che ciascuno, grazie al proprio ruolo, partecipa a una costruzione collettiva.

Sono atteggiamenti che in questi giorni vedo fra amici e conoscenti a proposito della questione sull’attraversamento dello Stretto. C’è chi non vuole sentire parlare di ponte e chi, al contrario, si arrocca in difesa di un progetto vecchio di cinquant’anni e ripetutamente stracciato. Ho un terzo gruppo di amici, al quale per la verità mi sento di far parte. Questi miei amici hanno fatto notare che una terza via esiste. Per attraversare stabilmente lo Stretto propongono la soluzione tunnel. Ma guai a parlarne. Siamo ricoperti di improperi aberranti.
Ora che esponenti del governo e in prima persona il presidente del Consiglio hanno rilasciato dichiarazioni proprio a favore del tunnel, sia gli sfavorevoli al ponte e sia i favorevoli (anche quelli dell’ultimo minuto, perché dicono che solo i cretini non cambiano mai parere) si sentono due volte turlupinati. In primo luogo, perché temono di vedere sfumare, in modo definitivo, l’effetto delle proprie convinzioni. In secondo luogo, perché nessuno li ha mai interpellati: loro, che nei capitoli delle cattedrali sono ripetutamente entrati, usciti, rientrati.
Noi, invece, abbiamo sempre lavorato nei cantieri. Come Ingegneri o architetti, oppure come umili operai. A vario titolo abbiamo disegnato carte o cavato pietre e scalpellato conci, elevato ponteggi e trasportato materiali ogni giorno più in alto, dove sembra che il lavoro non debba mai concludersi. Noi, che lavorando, a fine giornata, non abbiamo fiato per “banniare” nella piazza del mercato dove si fanno gli affari o nelle sale del capitolo dove si decide a chi va il cucchiaio di minestra. Bene! Noi oggi siamo contenti se qualcuno fra i nostri amici ha potuto mostrare le “sudate carte” al Governo per discutere le idee elaborate. Ora forse serviranno a portare avanti i lavori del cantiere comune. Sono idee esposte ripetutamente in pubblico. Nobili e clero, a suo tempo, le hanno con sufficienza ascoltate. Oggi gridano alla catastrofe, mentre fingono di elevare lodi al Signore e la folla inconsapevole continua a pregare. Noi, costruttori o spaccapietre, proseguiamo invece a disegnare e sperimentare archi di forma diversa da applicare nelle opere di cantiere. Per il bene comune. Senza infingimenti. Con coraggio, perché «bisogna avere il coraggio di pensare che durante la propria vita si è costruita una cattedrale. Sì, tale pensiero richiede coraggio» (Pierre Jean Jouve, En mirroir).

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica del video presentato dal Corriere della Sera sul web riguardante 4 minuti stralciati dalla relazione dell’ing. Giovanni Saccà al convegno “Le macroregioni europee del Mediterraneo e l’area dello Stretto”. In questi giorni molti quotidiani italiani stanno prendendo innumerevoli documenti dal nostro sito Experiences.it, senza chiedere permessi e senza neppure citare la fonte. Non ci pare un buon costume.

Quando rimango idealmente a parlare coi costruttori del passato

di Sergio Bertolami

Un giorno il professore Giancarlo De Carlo mi disse che quando gli architetti passeranno dalla parte della gente, la gente difenderà l’architettura. Forse è per questo che misuriamo lo scollamento esistente. Da parte mia, ancora oggi, rileggo con ammirazione le lezioni di Architettura pratica di Daniele Donghi, che fra il 1905 e il 1935 pubblicò i dieci fondamentali volumi del Manuale dell’architetto. Pochi colleghi ne hanno scorso le pagine, la cui lettura al contrario contribuirebbe a comprendere l’eclettismo delle nostre città. Come Messina, ad esempio, ricostruita dopo la furia del sisma del 1908. Non conoscere questi dieci volumi è un vuoto culturale non indifferente, che si riflette sul restauro delle opere del primo Novecento.

C’è chi parla della poesia che suscitano gli edifici del passato, intendendo quelli giunti almeno fino agli albori del Movimento moderno. Io vorrei aggiungere una personale annotazione su certi momenti in cui resto irretito da un dialogo con le pietre mute.  Come quello del giovane e disilluso Le Corbusier, nel corso del suo Voyage d’Orient, davanti al Partenone, quando considerava: «Chi fa dell’architettura e si trova – il cervello vuoto, il cuore spezzato dal dubbio – davanti a questo compito di dovere dare forma vitale ad una materia morta, capirà la tristezza malinconica dei soliloqui tra questi resti, del mio freddo intrattenermi con le mute pietre».

A riprova vorrei raccontare una storia mia. Qualche anno fa, di primo pomeriggio mi reco in cantiere, ma non vi trovo nessuno. Tutto sprangato. Mando un messaggio col cellulare dove, come direttore dei lavori, chiedo spiegazioni all’impresa, ma non attendo più di tanto la risposta. Ho le chiavi ed entro. Risalgo il ponteggio fino all’ultimo livello d’impalcato e percorro in lungo e largo l’intera volta. Nel silenzio irreale ammiro le tempere sapienti, le lumeggiature e le ombreggiature delle decorazioni, il disegnarsi delle modanature. Rimango idealmente a parlare coi costruttori del passato: con l’architetto che ha progettato quel capolavoro, con le maestranze che l’hanno realizzato. Ogni segno murario – un dentello, una fusarola, sia pure un ritocco o una scalfittura – è un’allocuzione che voglio recepire. Una meraviglia indescrivibile e questo perché, inaspettatamente, sto vivendo un momento magico. Non avviene quasi mai, giacché quando arrivo in cantiere ognuno preme per mostrarmi il suo lavoro, per chiedere un consiglio, per domandare spiegazioni su di un dettaglio di progetto. Io ascolto tutti, rispondo a tutti.

Dopo circa un’ora, comprendo finalmente che è venerdì di fine mese e che ho accordato di chiudere il cantiere in anticipo, per consentire ai lavoratori fuori provincia di rientrare prima in famiglia. Mi accorgo, inoltre, che il cellulare era rimasto in auto, ecco perché per tutto il tempo passato in solitudine nessuno ha chiamato. Trovo una quantità di telefonate. Molte sono degli operai preoccupati che mi sia avventurato sul ponteggio da solo. Li ho ringraziati tutti, ma non ho avuto il coraggio di dire loro che non ero affatto solo, ma in compagnia di certi fantasmi che vi parlano quando rimanete al cospetto della vera architettura. Voi probabilmente non lo avvertite, ma c’è sempre la possibilità di colloquiare con quelle pietre, solo apparentemente mute. Fanno capire il legame imprescindibile che esiste tra vita e architettura, tra passato e presente, come dire, fra tangibile e intangibile.

IMMAGINE DI APERTURA – Quaderno di schizzi di Villard de Honnecourt, circa 1230 (Fonte Wikipedia)