A Philip Roth il premio Nobel non lo hanno mai dato ed è morto pure nell’anno in cui è stato deciso di non assegnarlo a nessuno, in ragione del noto scandalo che ha macchiato persino il prestigioso riconoscimento mondiale. Anche qualora lo avesse ricevuto, questo Nobel, ora che è morto che cosa ne avrebbe fatto? Un premio serve per i vivi, per evidenziare i migliori, quelli che aiutano a guardare la realtà, così com’è, non per come la vorremmo. Per questo c’è tutto il resto della letteratura oziosa o irrilevante. Ma chi era Philip Roth? Rispondere “uno scrittore” parrebbe semplicistico. Se lo avessimo chiesto a lui stesso, avrebbe chiarito semplicemente: «Smonto frasi. È la mia vita. Scrivo una frase e poi la smonto. Poi la rileggo e la smonto di nuovo». E ancora: «Scrivo cose inventate e mi dicono che sono autobiografiche. Scrivo cose autobiografiche e mi dicono che sono inventate. Visto che sono così confuso e loro sono così acuti, lasciamo che decidano loro». Chi sono “loro”? Sono i critici. Sui giornali di oggi, a due giorni dalla morte, i paginoni si sprecano, per cui fareste meglio a leggere quegli articoli anziché queste poche righe. Tutti concordano che era un gigante della letteratura contemporanea americana, evidenziano quanto abbia inciso sulla cultura. Lui non ne era affatto convinto, ammesso che fosse davvero sincero. Aveva ancora i capelli neri, nel 1984, quando concesse un’intervista a Hermione Lee per la rivista Paris Review: «Mi chiedi se i miei romanzi abbiano cambiato qualcosa nella cultura, e la risposta è no. Senza dubbio hanno fatto un po’ di scalpore, ma la gente si fa scandalizzare in continuazione: è uno stile di vita. Non significa niente. Se mi stai chiedendo se avessi voluto cambiare in qualche modo la cultura coi miei romanzi, la risposta è ancora no. Quel che voglio è possedere i miei lettori mentre leggono il mio libro: a riuscirci, vorrei possederli in modi inarrivabili agli altri scrittori. Poi li lascerei ritornare, com’erano prima, in un mondo dove chiunque altro sembra lavorare per cambiarli, convincerli, prendersi cura di loro e controllarli». Anticipava i nostri giorni. In tutti i sensi. Per esempio, leggerete le note biografiche che riportiamo da Wikipedia; ma lo sapete voi che, nel 2012, proprio Wikipedia non ha corretto quanto lo scrittore chiedeva? Si riferiva al suo romanzo The Human Stain (La Macchia Umana). «Io, Roth, non ero una fonte credibile», dovette concludere! Sulla diatriba Roth spedì una lettera aperta al New Yorker. La riportiamo di seguito. Queste sono le sue conclusioni: «La scrittura romanzesca è per il romanziere un gioco a fingere. Come la maggior parte degli altri romanzieri che conosco, una volta ottenuto ciò che Henry James chiamava “il germe” ho continuato a fingere e ad inventare». Nel caso di Philip Roth, però, il suo processo di scrittura porta noi lettori a domandare: quando dall’invenzione affiora di nuovo la realtà?
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PHILIP MILTON ROTH (Newark, 19 marzo 1933 – New York, 22 maggio 2018) è stato uno scrittore statunitense. È stato uno dei più noti e premiati scrittori statunitensi della sua generazione, considerato tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese, una tradizione che comprende Saul Bellow, Henry Roth, E. L. Doctorow, Bernard Malamud e Paul Auster. È conosciuto in particolare per il racconto lungo Goodbye, Columbus, poi unito ad altri 5 più brevi in volume (premiato con il National Book Award), ma è diventato famoso con Lamento di Portnoy, da alcuni considerato scandaloso. Da allora si è ritagliato un posto di grande interesse, e attesa a ogni titolo, con una produzione lunga e costante ed estimatori (ma anche periodici attacchi per il linguaggio considerato da alcuni troppo aperto e scurrile), che l’hanno proposto più volte per il Premio Nobel, premiandolo nel frattempo con molti altri riconoscimenti. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).