Paolo Pantani e l’Ateneo dei Vini Erranti – Come recuperare la biodiversità perduta?

Continua la trasmissione di Paolo Pantani, condotta per l’emittente partenopea Canale 695 e in modo particolare la nuova serie dedicata agli incontri con l’Ateneo dei Vini Erranti. Ospiti il professore Bruno de Concilis, che dell’Ateneo è il rettore e il professore Pasquale Persico, ordinario di Economia Politica e segretario dell’influente consesso. Il tema trattato in questa puntata riguarda l’agricoltura biodinamica, basata sulle teorie antroposofiche di Rudolf Steiner (1861-1925). Secondo i sostenitori della biodinamica le intuizioni dello studioso tedesco potrebbero apportare benefici alla produzione agricola, poiché garantiscono il giusto equilibrio con l’ecosistema formato dalla triade uomo/terra/pianta. Tutto ciò vale, a più forte ragione, se si tenessero in conto le possibilità economiche offerte grazie al recupero delle naturalità del Parco Nazionale del Cilento.

Paolo Pantani su Canale 695

IMMAGINE DI APERTURA Illustrazione ArtTower da Pixabay 

Monet a Milano – La mostra rientra nel progetto “Musei del mondo a Palazzo Reale”

Fino al 30 gennaio 2022 al Palazzo Reale Milano, è aperta al pubblico l’esposizione dedicata al più importante rappresentate dell’Impressionismo: CLAUDE MONET. Promossa dal Comune di Milano-Cultura e prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia, la mostra è curata da Marianne Mathieu ed è realizzata in collaborazione con il Musée Marmottan Monet di Parigi, da cui proviene l’intero corpus di opere, e l’Académie Des Beaux – Arts – Institut de France.
La mostra rientra nel progetto museologico ed espositivo “Musei del mondo a Palazzo Reale” nato con l’intento di far conoscere le collezioni e la storia dei più importanti musei internazionali.

Una immagine dell’allestimento

LA MOSTRA

La mostra si apre introducendo i visitatori in una sala, allestita con mobili originali del periodo napoleonico, che vuole essere un omaggio a Paul Marmottan, il fondatore del Musée Marmottan Monet da cui provengono le opere di Claude Monet esposte a Palazzo Reale di Milano.
Appassionato studioso del primo Impero, Paul Marmottan raccolse durante la sua vita testimonianze eterogenee di quel momento della storia d’Europa che considerava una finestra aperta sulla modernità. La sua collezione di opere d’arte, libri, medaglie, stampe, almanacchi, documenti e cimeli del periodo napoleonico era conservata in sale arredate in stile impero e decorate con nicchie e sculture marmoree secondo i criteri neoclassici. Marmottan curò personalmente ogni dettaglio dell’arredamento e, per sua volontà, l’assetto delle sale rimase tale quando, dopo la sua morte, il palazzo e le raccolte passarono in eredità all’Académie des beaux-arts perché ne facesse un museo aperto al pubblico.

Cultore delle vicende legate alle residenze imperiali, tra cui Palazzo Reale di Milano, affidò gli esiti delle sue ricerche ad articoli pubblicati su riviste specialistiche, recuperando da Archivi istituzionali e da fondi privati documenti che oggi costituiscono una fonte importante di informazione per gli studiosi e i ricercatori.
La mostra si apre quindi con richiami alle origini del Musee Marmottan Monet che, nel corso del Novecento, ha incrementato le collezioni tramite rilevanti donazioni di opere impressioniste, tra cui spicca la raccolta donata da Michel, figlio di Claude Monet.

La ricerca e gli studi condotti dalla Direzione di Palazzo Reale per l’allestimento di questa sezione della mostra si inseriscono in un progetto più ampio di recupero della memoria e di tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico di Palazzo Reale.

Una immagine dell’allestimento

Prima sezione – Le origini del Musée Marmottan Monet: dallo Stile Impero all’Impressionismo
Nel 1932 Paul Marmottan (1856-1932) lasciò in eredità il suo palazzo e le collezioni in esso contenute all’Académie des Beaux-Arts e, secondo le sue volontà, nel 1934 l’edificio fu trasformato in un museo. Gli arredi in stile Impero e i dipinti neoclassici di Robert Levre (1755-1830) e Jean-Victor Bertin (1767-1842) rivelano la grande passione dello studioso per l’arte dell’Europa napoleonica. Un’arte accademica ben lontana dall’impressionismo, che invece entrerà nel museo in un secondo momento, grazie ai doni di numerosi collezionisti e discendenti di artisti. Nel 1966 l’istituzione eredita la più vasta raccolta al mondo di opere di Claude Monet (1840-1926) grazie al lascito del figlio minore e discendente diretto del pittore, Michel Monet. Il museo aggiunge quindi al suo il nome del maestro di Giverny.
Le opere di questa sezione illustrano due visioni della pittura che sembrano molto lontane: da un lato, un ritratto di Robert Levre e un paesaggio di Jean-Victor Bertin dalla collezione di Marmottan; dall’altro, un ritratto di Monet e due tele in cui l’artista ha delineato rapidamente i tratti del figlio Michel. Un aneddoto unisce però queste opere, ed è legato alla nascita del termine “impressionista”. Il giornalista Louis Leroy lo coniò nel 1874 per stroncare la prima mostra di Monet e dei suoi colleghi sul quotidiano satirico “Le Charivari”. Scrisse di un allievo di Bertin sul punto di soffocare alla vista delle opere di Pissarro o Degas, che riceveva il colpo di grazia di fronte a Impressione, levar del sole (1872) di Monet, l’opera che diede il nome all’impressionismo. Alla fine però sarà Bertin a scomparire nel nulla, non Monet.

Seconda sezione – La pittura en plein air
Nell’Ottocento, lo sviluppo della rete ferroviaria e l’invenzione del colore in tubetto permisero ai pittori di viaggiare e dipingere all’aria aperta. Questa nuova opportunità comportava però alcune limitazioni. L’artista doveva portare con sé la propria attrezzatura, quindi predilesse le tele di piccolo formato, più facili da trasportare. Inoltre doveva dipingere rapidamente per catturare l’immediatezza di ciò che aveva di fronte, quindi diventò più visibile il trattamento pittorico della tela, perché le pennellate erano più veloci. Inoltre la gamma dei colori impiegati, lavorando in pieno giorno, si fece più chiara.
Monet venne introdotto a questa pratica da Johan Barthold Jongkind (1819-1891) e da Eugène Boudin (1824- 1898). Il pittore viaggiò molto in giro per la Francia e si recò anche all’estero per dipingere marine, paesaggi o anche scene di vita familiare, come il ritratto della moglie Camille (1870). Durante le sessioni di pittura en plein air, talvolta si faceva assistere da un aiutante, e questo è il caso di Poly, conosciuto e poi ritratto a Belle-Île nel 1886.

Terza sezione – La luce impressionista
Scegliendo di lasciare l’atelier per andare a dipingere dal vero, gli impressionisti infrangono la gerarchia dei generi pittorici. Per loro, la sensazione prodotta da un paesaggio o dalle scene di vita moderna è senz’altro più importante del soggetto stesso.
Monet, maestro della pittura en plein air, dedicherà l’intera vita a cercare di cogliere le variazioni luminose e le impressioni cromatiche dei luoghi che osservava. Più che il soggetto, lo interessa il modo in cui viene trasfigurato dalla luce. Per catturare la luminosità sempre mutevole, il pittore lavora in fretta, con pennellate che si susseguono rapidamente, inoltre non esita a visitare siti in cui si verificano a violenti cambiamenti climatici. La costa normanna con i suoi magnifici tramonti, oppure la regione della Creuse, scoperta durante un soggiorno nel 1889, gli offrono la possibilità di ritrarre l’intensità luminosa in un ambiente naturale ancora selvaggio.

Quarta sezione – Da Londra al giardino: nuove prospettive
Nella carriera di Monet, Londra fu un vero e proprio laboratorio di sperimentazione. I paesaggi spettrali generati dai fumi delle fabbriche e la foschia del Tamigi gli permisero di lavorare, come lui stesso disse, su ciò che in pittura era impossibile: la nebbia impalpabile che copre le architetture e la luce mutevole che sfiora la superficie dell’acqua. Con le vedute del ponte di Charing Cross e del Parlamento, dipinte nel corso di vari soggiorni successivi, si apre per lui una nuova fase di ricerca, che si manifesta pienamente al ritorno a Giverny. Con le Ninfee del 1904 e 1907, Monet concentra tutta la composizione su un particolare del suo giardino d’acqua: l’inquadratura è audace, la linea dell’orizzonte, ancora presente nei suoi paesaggi londinesi, qui manca del tutto. Rimangono soltanto i riflessi della vegetazione che cresce intorno lo stagno e le ninfee isolate, appena abbozzate. In queste opere Monet adotta un punto di vista completamente nuovo, aprendosi a un diverso rapporto con lo spazio e andando oltre l’impressionismo.

Quinta sezione – Le grandi decorazioni
Dal 1914 fino alla sua morte avvenuta nel 1926, Monet esegue centoventicinque pannelli di grandi dimensioni che hanno come soggetto il giardino d’acqua di Giverny. Una selezione di queste opere – oggi nota come le Ninfee dell’Orangerie – il pittore la offre allo Stato francese. Questi dipinti monumentali, realizzati direttamente nell’atelier, portano all’estremo la ricerca già iniziata con le Ninfee del 1903 e del 1907. Raffigurando una piccola parte del suo stagno in un formato così grande, Monet non solo annulla ogni riferimento prospettico reale, ma propone di immergere l’osservatore in una distesa d’acqua che si fa specchio: le nuvole e le fronde dei salici si riflettono sulla superficie dello stagno, e il sopra e il sotto sono ormai indistinguibili. Questi paesaggi senza inizio né fine invitano a un’esperienza contemplativa in cui la rappresentazione di un fiore o di un dettaglio della natura bastano a suggerirne l’immensità.

Sesta sezione – Monet e l’astrazione
Nel 1908 Monet si ammala di cataratta, una patologia che gli impedisce una visione limpida e compromette la sua percezione dei colori. Mentre il pittore lotta con questa progressiva cecità, la sua tavolozza si riduce e – lo notiamo nei cicli del Viale delle rose, del Ponte giapponese e del Salice piangente, tutti di questo periodo – è dominata dalle tonalità di marrone, rosso e giallo. La sua pittura si fa più gestuale: sulle tele diventa visibile la mano che tiene il pennello. La forma svanisce lasciando il posto al movimento e al colore, e dalla rappresentazione si passa allo schizzo, via via sempre più indecifrabile. Questi dipinti da cavalletto, che non hanno uguali nel percorso artistico di Monet, avranno una profonda influenza sui pittori astratti della seconda metà del Novecento.

Settima sezione – Le rose
I fiori hanno accompagnato tutta la vita di Monet, sia nella sfera privata che in quella lavorativa. Il giardino di Giverny, con piante che fioriscono in ogni stagione, è un omaggio dell’artista ai colori cangianti e alla natura effimera dei fiori e Le rose, dipinte nel 1926 all’età di 85 anni (lo stesso anno della sua morte), ne sono l’ultima celebrazione. Il carattere incompiuto del dipinto accresce l’impressione di fragilità delle rose, i cui boccioli leggeri si stagliano delicatamente contro un cielo azzurro. La composizione ritrae alcuni rami del roseto e ricorda le stampe giapponesi che il pittore collezionava con tanta passione.
Con Le rose, Monet rende omaggio alla natura che ha saputo raffigurare così bene, insieme alla fragilità e alla caducità di ciò che ci circonda.


Informazioni
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IMMAGINE DI APERTURA – Una immagine dell’allestimento

Die Brücke, per chiamare a raccolta i giovani e procurarsi libertà d’azione e di vita

di Sergio Bertolami

31 – Die Brücke, perché l’uomo è un ponte, non una meta

Il movimento artistico che rappresentò il primo momento dell’Espressionismo tedesco è quello costituito nel 1905 da quattro studenti di architettura del Politecnico di Dresda, per la precisione il Collegio tecnico reale (Königliche Technische Hochschule): Fritz Bleyl, Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Karl Schmidt-Rottluff. I primi due, i più maturi, avevano 25 anni, gli altri due, i più giovani, avevano rispettivamente 22 e 21 anni. Condividevano il programma di elaborare, piuttosto che nuove forme architettoniche, una pittura svincolata dai canoni naturalistici e accademici. I temi fondanti erano sostanzialmente simbolici, rivolti soprattutto alle introspezioni dell’animo e ai turbamenti esistenziali. Il gruppo nasceva sull’impronta di altre associazioni tedesche, come Die Scholle (la Zolla) e Die Phalanx (la Falange) di Monaco, con il proposito di richiamare a sé gli artisti rivoluzionari o comunque in fermento. A dimostrarlo era chiaramente la denominazione scelta, Die Brücke (Il Ponte), per fare da “collegamento” tra i diversi nuclei di agitazione innovatrice. Il nome pare sia stato suggerito da Schmidt-Rottluff, ispirato da un brano tratto da Così parlò Zarathustra (Thus Spoke Zarathustra) di Friedrich Nietzsche: «L’uomo è una corda, tesa tra il bruto e il superuomo, — una corda tesa su di una voragine. Pericoloso l’andar da una parte all’altra, pericoloso il trovarsi a mezza strada, pericoloso il guardar a sé, pericoloso il tremare, pericoloso l’arrestarsi. Ciò che è grande nell’uomo, è l’essere egli un ponte e non già una meta: ciò che è da pregiare nell’uomo, è l’essere egli una transizione ed una distruzione».

Una pagina di Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1883

Nel 1906 furono chiamati a prendere parte alla Brücke anche il danese Emil Nolde, il tedesco Max Pechstein, lo svizzero Cuno Amiet e il finlandese Akseli Gallén-Kallela. Nel 1908 accolse l’invito anche l’olandese Kees van Dongen, colui che rese attivo il contatto con i Fauves di Parigi; per ultimo, nel 1910, si unì al gruppo il tedesco Otto Müller. Altri artisti, in modo più o meno assiduo, fecero parte del sodalizio: ancora un olandese, Lambertus Ziji, il ceco Bohumil Kubista e il tedesco Franz Nölken. Dalle origini geografiche dei componenti emerge palesemente il tentativo di costituire un parterre internazionale. Lo scopo, d’altra parte, era anche auto-promozionale, giacché i componenti si proponevano di organizzare esposizioni di gruppo in modo da promuovere, in patria e all’estero, l’attività collettiva. Per stringere un legame con i collezionisti, i membri della Brücke ebbero la buona idea di costituire un circolo di “membri passivi”, la cui quota di adesione annuale di dodici marchi (che divenne di venticinque dal 1912) dava diritto a una tessera, un almanacco e una cartella di xilografie eseguite dagli artisti dello stesso sodalizio. In pratica i soci ebbero modo di essere costantemente informati sulle assemblee, sugli incontri pubblici e sulle circa settanta esposizioni realizzate negli anni a seguire. Ricevettero regolarmente i Brücke Mappen, sorta di resoconti dell’attività, ed anche l’attesa cartella di grafiche a tiratura limitata. Grazie all’interessamento di Heckel, si trovarono gli spazi espositivi necessari. Dopo un esordio poco più che privato, la prima vera manifestazione pubblica non sortì pressoché alcun effetto. Tenuta nel 1906 nella sala vendite della fabbrica di lampade K.F.M. Seifer & Co, l’esposizione passò del tutto inosservata, ma nessuno si perse d’animo, perché alla prima mostra di dipinti ne seguì un’altra di stampe. L’anno successivo si optò per la Galleria Richter, nella Prager Strasse. Questa volta il gruppo riuscì ad incassare l’attenzione della critica, che, però, si manifestò ostile e denigratoria.

Tessera dei membri passivi della Brücke per l’anno 1911, xilografia di Karl Schmidt-Rottluff.
Nel riquadro centrale, a mano, è segnato il nome del socio.

I quattro fondatori della Brücke provenivano da famiglie borghesi e, per quanto riguarda l’esperienza artistica, secondo alcuni, erano quasi del tutto autodidatti. Questo non è affatto vero e avremo modo di constatarlo. Nel 1901 Ernst Ludwig Kirchner, figlio di un ingegnere, inizialmente avrebbe voluto intraprendere la professione di architetto, una volta conclusi gli studi al Politecnico. È qui che fece amicizia con Fritz Bleyl. Soprattutto s’imbatté in una serie di mostre d’arte che lo convinsero a deviare il suo percorso di vita. A Monaco, tra il 1903 e il 1904, frequentò per due semestri i corsi della scuola d’arte di Wilhelm von Debscitz ed Hermann Obrist, seguì gli incontri della Secessione, che lo delusero non poco, prese direttamente atto dei lavori Jugendstil. Sempre a Monaco, in questi anni, vide una mostra di post-impressionisti belgi e francesi organizzata dall’associazione Phalanx, presieduta da Kandinskij, e a Dresda, nel 1905, ammirò opere di Van Gogh alla galleria Arnold che negli anni seguenti avrebbe portato anche lavori di Munch, Gauguin, Seurat, Klimt. Il 1905 è, soprattutto, l’anno in cui Kirchner e Bleyl concludono il percorso di studi universitari. Decidono, tuttavia, di dedicarsi alle arti figurative, unendosi a Erich Heckel, che l’anno precedente, dopo la maturità a Chemnitz, si era iscritto ad architettura come il suo compagno di liceo Karl Schmidt-Rottluff. Il gruppo della Brücke era, a tutti gli effetti, completo.

Elenco dei soci della Brücke, xilografia di Ernst Ludwig Kirchner

Costituitosi, come sappiamo, nello stesso anno in cui i Fauves esposero le loro prime opere al pubblico del Salon d’Automne a Parigi, il sodalizio della Brücke rappresentò a tutti gli effetti l’avvio dell’arte moderna in Germania. L’humus più favorevole al germinare della nuova arte fu la cultura del post-impressionismo: dal simbolismo allo Jugendstil, al “naturalismo lirico” delle scuole di Worpswede e di Dachau. Influenzati dai pittori più espressivi del momento – Munch, Ensor, van Gogh, Gauguin – entusiasmati dalla rivelazione dell’arte nera e oceanica, che Kirchner ebbe modo di approfondire fin dal 1904 al Museo Etnologico di Dresda, i membri della Brücke si orientarono da subito in senso antimpressionista. Non erano affatto interessati a descrivere le “impressioni”, piuttosto sentivano l’urgenza di proiettare sulla tela le risonanze emotive dei propri sentimenti individuali. Il manifesto del gruppo è inciso da Kirchner in una xilografia: «Con una profonda speranza nel progresso, in una nuova generazione di creatori e di pubblico, chiamiamo a raccolta l’intera generazione di giovani e come la gioventù è legata al futuro, desideriamo procurarci libertà d’azione e di vita, contro le vecchie forze così profondamente radicate. È al nostro fianco chiunque corrisponda con immediatezza e sincerità a quanto lo spinge a creare».

Programma della Brücke, 1906, xilografia di Ernst Ludwig Kirchner

Il programma, formulato da Kirckner nel 1908, è sintetizzabile nei suoi tratti salienti: «Aspirazione ad un rinnovamento totale dell’arte tedesca col suo completo affrancamento degli influssi dell’arte francese; interpretazione di tutta la vita come arte; esaltazione della forza intatta e creativa della gioventù e della carica emozionale della vita e dell’eros; immersione nell’interiorità profonda e oscura dell’io e nelle radici del reale: senso della sacralità primigenia del vivere e liberazione dalla schiavitù della sfera del sociale, secondo quel senso antico del “sacro” che l’Europa e la Germania soprattutto esprimevano nelle sculture medievali e che anche nel mondo moderno si manifesta nella scultura dei popoli primitivi; un esasperato pessimismo con intenti di ribellione morale; ritorno, dunque, dell’uomo (che attraverso il sociale si è alienato la propria autenticità) a se stesso, in un coinvolgimento totale sia della sfera etica sia di quella politica» (Lara-Vinca Masini).

Mostra del gruppo di artisti della Brücke nelle sale della Galleria Arnold nel settembre 1910

Sono questi i temi che gli artisti della Brücke ritrovano nella lettura di Nietzsche, Kierkegaard, Wedekind, Freud, Ibsen, Strindberg. In altre parole, sono distanti dai valori che permeano l’etica borghese, rigettano l’ottimismo positivistico incentrato sull’illusione di una società sempre in perenne progresso. Punto fermo sono invece le esperienze soggettive, legate ad un’arte irrazionale. Denominatore comune è, infatti, la convinzione che l’emotività interiore e passionale – costante dello spirito germanico e nel contempo ripresa di istanze di derivazione romantica – non possa essere espressa attraverso concetti e parole, ma unicamente con la forza delle immagini. Pur essendo legati da palesi analogie, queste idee rappresentano la differenza sostanziale tra Fauves ed espressionisti della Brücke. «I membri del gruppo tedesco ignorano l’edonismo raffinato e mentale dei loro compagni francesi e tendono all’urlo, alla protesta, al grido dell’anima, anteponendo alla conchiusa bellezza dell’immagine le dissonanze e gli scatti derivanti da una viva partecipazione morale. Le semplificazioni formali, i contorni marcati, le stesure di colori puri e squillanti in uno spazio non naturalistico sono tipici del primo stile della Brücke» (Eraldo Gaudioso).

Ernst Ludwig Kirchner: I pittori della Brücke, 1925, Museum Ludwig. Da sinistra a destra: Müller (seduto), Kirchner, Heckel, Schmidt-Rottluff

Il primitivismo evidente in quest’arte espressionista tedesca è sempre assunto come evocazione di una autenticità primordiale, che trova le proprie radici anzitutto nel romanticismo e nell’area simbolista, ma che ora tende ad un tono del tutto particolare. Lungamente represso dalla società, ora esplode, dal profondo dell’inconscio, nello Urschrei, il grido primordiale, e si confonde nello «sforzo di una strutturazione astrattistica, spesso specificamente geometrica» laddove «per “geometria” intenderemo l’astrattizzazione deformatrice e ricostruttrice delle forme naturali». (Ladislao Mittner). «L’esperienza del “primitivo degli artisti di Brücke è stata attinta dal tessuto vivente delle loro vite nella Germania coloniale, piuttosto che semplicemente dalle teche polverose dei musei etnografici» (Jill Lloyd). Queste componenti primitivistiche appaiano manifeste nelle grafiche e in particolare nelle opere xilografiche, recuperate dalla tradizione popolare e dagli incisori tedeschi quattrocenteschi. Per comprendere meglio, basti immaginare l’artista al lavoro, la relazione prodigiosa tra la soggettività dell’impulso gestuale mentre scava il legno e le caratteristiche organiche che costituiscono la sua materia.

Ernst Ludwig Kirchner, Manifesto della mostra Die Brücke alla Galleria Arnold di Dresda, 1910

Gli artisti del gruppo frequentano la Pinacoteca di Dresda, per formarsi con la visione dei maestri, ma sono attratti soprattutto dalle stampe del Gabinetto delle incisioni, che raccoglie le grafiche di autori moderni come Henri de Toulouse-Lautrec e molte stampe giapponesi. Pechstein compie un viaggio a Parigi nel 1907 e stringe rapporti con i Fauves. Fino al 1908 sono anni di intenso lavoro comune, si frequentano assiduamente e, dipingendo insieme, rinsaldano la propria identità di gruppo. Trascorrono i mesi estivi alla ricerca di spunti naturali e primitivi. Se Gauguin s’era spinto fino a Tahiti, loro raggiungono le coste del Mare del Nord o del Baltico. Nel 1910 Pechstein, Kirchner ed Heckel soggiornano a Moritzburg, vicino Dresda, per dipingere nudi e paesaggi. Per tutto il mese di settembre dello stesso anno, in sei – Pechstein, Kirchner, Schmidt-Rottluff, Müller, Amiet ed Heckel – espongono ottantasette tele alla galleria Arnold di Dresda. Sempre nel 1910, in occasione della XX Secessione di Berlino, l’esclusione di 27 artisti, tra i quali membri della Brücke, costituisce l’occasione per una frattura e la formazione di una Neue Sezession. E in quanto a secessioni, in quello stesso anno, Kirchner, Heckel e Schmidt-Rottluff, partecipano all’esposizione del Sonderbund di Düsseldorf, il cui nome completo testimonia di per sé il carattere contrastato di queste associazioni di artisti: Sonderbund westdeutscher Kunstfreunde und Künstler, ovvero Lega separata degli amanti dell’arte e degli artisti della Germania occidentale.

Kirchner and the Berlin Street,
catalogo di una mostra sulla straordinaria serie di dipinti di Ernst Ludwig Kirchner

Dal canto suo, anche il sodalizio della Brücke comincia a mostrare le prime incrinature, dopo anni in cui si era lavorato con unità di intenti, grazie ad affinità di sentimento e di stile. Nolde era uscito dal gruppo nel 1907 e lo stesso aveva fatto Fritz Bleyl, lasciando non solo i compagni per insegnare e sposarsi, ma anche la pittura, così da mettere a frutto la propria laurea in architettura. L’anno stesso si stacca anche Kees van Dongen. Nel 1908 Pechstein da Dresda si trasferisce a Berlino e due anni dopo Kirchner, Schmidt-Rottluff, ed Heckel vi si stabiliscono anche loro. Lasciare Dresda per la capitale è un passo importante, perché, nelle aspettative, trasferirsi da una città relativamente intima e barocca al più ampio ambiente culturale della metropoli, potenzialmente permette di trovare un pubblico molto più reattivo verso il loro lavoro. Scrive Kirchner, ammiccante, a Erich Heckel nel 1911: «Rimarrai totalmente sorpreso quando metterai piede a Berlino. Siamo diventati una famiglia numerosa e qui puoi ottenere tutto ciò di cui hai bisogno: donne e un riparo». In effetti, per un paio d’anni, la città in rapida crescita offre la frenesia e lo stimolo artistico che stanno cercando. Insieme continuano a dipingere oppure a frequentare i ritrovi degli artisti e degli intellettuali, come il caffè Grossenwahn (megalomania), il cui nome sintetizza con ironia tutto il programma. La pittura del gruppo, trattando tematiche di carattere sociale e di costume, assume un carattere ancor più violento in un crescendo drammatico di deformazioni. Oltre alle relazioni, non difettano neppure le partecipazioni alle mostre, come le tre del 1912, che rappresentano, in qualche modo, il canto del cigno della Brücke. Quella tenuta alla galleria Gurlitt dal Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), gruppo che si era formato a Monaco di Baviera nel 1911. Una seconda esposizione alla galleria Der Sturm di Herwarth Walden (12 marzo – 12 aprile). Infine la Mostra internazionale d’arte del Sonderbund di Colonia (25 maggio – 30 settembre). Quest’ultima è una concentrazione di artisti di spicco. Ci sono personalità come Picasso, Matisse, Munch e molti pittori indipendenti. Non mancano naturalmente i due gruppi della Brücke e del Blaue Reiter. In quest’occasione Kirchner ed Heckel hanno il compito di decorare una cappella edificata per l’occasione.

Copertina della cartella annuale del 1912 basata su un disegno di Otto Müller, dedicata a Max Pechstein, che non fu mai pubblicata a causa della sua esclusione in quell’anno dal gruppo della della Brücke

Già dai primi mesi del 1912, però, serpeggia il dissenso all’interno della Brücke, causato da interessi contrastanti e dalle accese rivalità che caratterizzano il mondo dell’arte berlinese. Ormai, le divergenze sono all’ordine del giorno. Come conseguenza naturale la competitività finisce col dissolvere l’affiatamento fra gli artisti del gruppo. Sebbene insieme continuino a organizzare mostre collettive a Berlino, la stretta coesione personale va allentandosi col tempo e, quel che è più, i membri si spostano verso differenti orientamenti artistici. Con il movimento del Blaue Reiter, condotto da Kandinskij e Marc, il gruppo della Brücke ha praticamente fine. Pechstein che comincia a mostrare segni di avvicinamento alla nuova formazione, viene espulso nel 1912. La cartella di stampe, preparata per i “membri passivi” con i suoi lavori, è sospesa. L’anno seguente, quando a Kirchner tocca redigere il resoconto dell’attività associativa, il suo testo appare troppo soggettivo. Nella cronaca si rappresenta come la figura di spicco. Con una certa dose autoreferenziale si riferisce a sé stesso in terza persona. Chiaramente, gli altri artisti del gruppo, non si trovano adeguatamente apprezzati.

Kirchner, Il Giudizio di Paride, 1913

In questo contesto, il Giudizio di Paride, un olio su tela, dipinto da Kirchner nel 1913, potrebbe avere un significato differente rispetto a un’interpretazione insolita e moderna di uno dei temi mitologici più popolari nell’arte. Figurativamente rappresenta il concorso di bellezza tra Venere, Minerva e Giunone, il cui premio, una mela d’oro, è assegnato da Paride a Venere. Qui Kirchner dipinge tre moderne dee con i loro sensuali lineamenti, simili a maschere esotiche e primitive, ispirate dalle fattezze di Erna (la sua fidanzata). Sfilano di fronte a un Paride seduto in penombra con una sigaretta in bocca. Una delle dee esibisce uno specchietto, simbolo di vanità. Forse il dipinto è semplicemente il ribaltamento delle argomentazioni che hanno portato allo scioglimento del gruppo: non Kirchner, ma i suoi compagni rispecchiano ostentazioni e vanaglorie che gli attribuiscono. È la fine. A maggio del 1913 i “membri passivi” ricevono i cartoncini che annunciano lo scioglimento formale del gruppo. La lite fra i membri della Brücke è netta e insanabile. Negli anni a seguire, per gran parte della vita. il rapporto rimane talmente difficile da portare Kirchner a rifiutare con veemenza qualsiasi associazione con loro. Nel 1919, ad esempio, arrivò a dichiarare: «Dal momento che la Brücke non ha mai avuto nulla a che fare con il mio sviluppo artistico, qualsiasi menzione al gruppo in un articolo riguardante il mio lavoro è del tutto superfluo». La realtà artistica, per fortuna, supera i più aspri rancori, perché l’esperienza comune in realtà non andrà persa. Anche se in maniera autonoma, i vecchi amici che avevano dato vita all’Espressionismo della Brücke continueranno tutti a portare avanti le istanze elaborate insieme sino al momento dello scioglimento.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay