La Statua della Libertà – Il monumento nazionale di una società multietnica

 

La statua «la liberté éclairant le monde», questo il suo nome originale, è un dono offerto dai francesi agli americani. La sua inaugurazione sull’isola di Beldoe è stata celebrata nell’ottobre 1886 (Rue des Archives / © MEPL / Rue des Archives).

 

Il 19 giugno del 1885 la Statua della Libertà, la scultura colossale ideata e realizzata da Auguste Bartholdi con l’ausilio dell’ingegnere Gustave Eiffel, che ne ha progettato la struttura reticolare interna in acciaio, sbarca a New York. La fregata Isère è accolta dai colpi augurali dell’artiglieria e dagli applausi di una traboccante folla festante che assiepa il molo. È solo il primo carico dell’opera costruita a Parigi, che giunge in America sezionata. Dalla capitale ha viaggiato su rotaia fino al porto di Rouen, poi imbarcata sull’Isère ha attraversato l’Atlantico. A bordo la coppia Bartholdi e la coppia Gaget, in rappresentanza delle officine Gaget e Gauthier che hanno materialmente realizzato l’ambizioso progetto. Un articolo pubblicato su Le Figaro l’8 luglio 1885, intitolato “Figaro in America”, restituisce ai parigini il clima di entusiasmo all’arrivo della statua di Bartholdi. La folla applaude e intona il ritornello della Marsigliese. Le vie sono decorate ovunque col tricolore francese. Bartholdi è l’eroe del giorno. Gli abitanti non sanno più come esprimere la loro gioia da quando hanno saputo che saranno sbarcate trecento casse contenenti i primi pezzi della famosa statua, già battezzata “La Libertà che illumina il mondo”. La voce che si rincorre di bocca in bocca è una sola: quando la statua apparirà completata sull’isola di Bedloe, e la sua torcia risplenderà nel porto di New York, l’effetto sarà magico.

Per vederla così, scrive il corrispondente da New York, ci vorrà un po’ di pazienza; e questo lo fa stare male. Per montare la statua occorrerà, infatti, costruire un piedistallo degno del lavoro artistico. Sebbene il finanziamento della statua e le spese di viaggio siano a carico dei francesi, l’astronomico costo dell’assemblaggio dovrà essere sopportato dagli americani. Occorre anzitutto finanziare l’immenso piedistallo, per il quale non sono stati raccolti in tempo i fondi necessari. I giornali additano il governo degli Stati Uniti, che non vuole impegnarsi. Ma, in realtà, il progetto franco-americano è un’opera privata. Le Figaro del 7 aprile 1885 spiega ai suoi lettori che il Congresso ha accettato il dono della statua con riferimento alla legge del 22 febbraio 1877, che prevede soltanto «le spese per l’inaugurazione e il mantenimento del monumento in una destinazione ben precisa», che è quella di faro elettrico. Gli americani hanno costituito un fondo, sostenuto dai giornali, per finanziare l’opera, che si prevede di completare in due o tre anni. Di fronte all’iniziale riluttanza è, infatti, il magnate Joseph Pulitzer a lanciare una grande campagna di abbonamenti dalle colonne del suo quotidiano “The World”. Sollecita l’orgoglio nazionale.

Per il momento, comunque, l’attenzione è tutta rivolta ai festeggiamenti. Ufficiali ed equipaggio dell’Isère, conserveranno un ricordo eccellente dell’accoglienza riservata loro. Dall’arrivo a New York, è un susseguirsi di banchetti, sfilate, presentazioni. Con un pizzico di polemica il corrispondente del quotidiano parigino informa che proprio nel momento in cui la fregata Isère era in procinto di attraccare in porto, il console generale francese a New York, Monsieur Lefaivre, è dovuto partire; ma fortunatamente è stato sostituito dall’eccellente console francese a Chicago, Monsieur Bruwaert. Ora bisognerà attendere che dall’Isère le trecento enormi casse, nelle quali hanno viaggiato impacchettati i pezzi della gigantesca statua, siano scaricati. Rimarranno smantellati e conservati sull’isola di Bedloe fino al completamento dei lavori. Nel frattempo, i festeggiamenti si trasferiscono a Washington dove gli uomini dell’Isère renderanno omaggio al Presidente della Repubblica Grover Cleveland (1837-1908). Da allora, la Statua della Libertà è il simbolo universale dell’emancipazione dall’oppressione, rappresentata dalle catene spezzate della schiavitù che si trovano ai suoi piedi. Nel 1927, il monumento è stato dichiarato monumento nazionale dagli Stati Uniti e dal 1984 è stato inserito dall’UNESCO nel patrimonio dell’umanità. Il suo faro di civiltà ha continuato ad accogliere milioni di immigrati, come già avveniva dall’inizio del secolo XIX, contribuendo all’essenza democratica e multietnica del popolo statunitense.

LEGGI L’ARTICOLO SU LE FIGARO: 17 juin 1885, la Statue de la Liberté débarque à New York

LEGGI LA SCHEDA NELLA WORLD HERITAGE LIST: Statue of Liberty

 

LA STATUA DELLA LIBERTÀ (Statue of Liberty), inaugurata nel 1886, è un monumento simbolo di New York e degli interi Stati Uniti d’America, uno dei monumenti più importanti e conosciuti al mondo. Situata all’entrata del porto sul fiume Hudson al centro della baia di Manhattan, sulla rocciosa Liberty Island. Il nome dell’opera è La Libertà che illumina il mondo (Liberty Enlightening the World in inglese, La Liberté éclairant le monde in francese). Fu realizzata dal francese Frédéric Auguste Bartholdi, con la collaborazione di Gustave Eiffel, che ne progettò gli interni; la statua è costituita da una struttura reticolare interna in acciaio e all’esterno rivestita da 300 fogli di rame sagomati e rivettati insieme, poggia su un basamento granitico grigio-rosa che si è a lungo pensato fosse di provenienza sarda[1], benché recenti ricerche abbiano smentito la provenienza della roccia dall’isola della Maddalena e l’abbiano ricondotta alla cava di Stony Creecy nel Connecticut. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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STATUE OF LIBERTY MUSEUM

A New Way to Experience History

Nuovi linguaggi per un dizionario gastronomico generico

 

Raffigurazione di Maestro Martino

 

La sperimentazione in cucina su nuove ricette di pasta con sempre nuovi formati, comporta l’ideazione di un qualcosa che poteva essere descritto solo con un vocabolario gastronomico, per i tempi del tutto generico. Maestro Martino, nel XV secolo, sfrutta parole come “vivande di pasta” o “minestre di pasta”. Il maccherone per lui consiste in un formato di pasta lunga, con sezione tonda o cava, ma anche in nastri di pasta a lunghezza variabile. Bartolomeo Scappi, nel XVI secolo, ad esempio, descrive una ricetta che lui chiama “minestra di maccheroni detti gnocchi”. Il cuoco marchigiano Antonio Nebbia, nel XVIII secolo, scrive un libro intitolato “De maccaroni e gnocchi”. Invece nel testo descrive solo piatti di lasagne e gnocchi di tutti i tipi. In effetti il vocabolario gastronomico attuale, nascerà solo nel XIX secolo, con i grandi trattati di cucina (vedi Artusi).
Il termine “pasta” entra in sordina nel vocabolario gastronomico e se ne disconosce il creatore, in quanto riferito genericamente alla lavorazione di un impasto e, perciò, è inclusivo di diverse attività manuali che lo prevedono. Tipo per sfoglie, torte di pasticceria, pane e focacce. Inoltre, i due termini, pasta e maccheroni, inizialmente sono considerati tra loro come sinonimi di pasta alimentare. In tale senso vengono utilizzati nel testo “Memorie di mangiar di pasta” (un trattato di scalcheria), scritto da Giovambattista Rossetti, nel 1584.
In questo stesso periodo, nascono due termini, nel Mezzogiorno, che indicano due metodi di lavorazione, a macchina o manuale. È il caso di “pasta di ingegno” e “pasta da ferro”. In quest’ultimo caso, si intende indicare una lavorazione manuale con un ferretto, su cui si modellano i maccheroni cavi detti, “alla siciliana”. Con il primo termine (“pasta di ingegno”) si distingue, invece, la pasta secca, prodotta con trafilatura al bronzo, direttamente a macchina.
Generalmente la pasta secca, fatta con semola di grano duro, è stata sempre alimento dei poveri. Quando a Napoli è introdotta la cosiddetta “pasta di ingegno”, essendo una nuova tecnologia, quindi, all’avanguardia, è ben accetta e gradita dai nobili della città. Giusto il tempo di superare la nuova moda del momento.

 

Christo – The Floating Piers, dopo due anni rimane solo il ricordo

 

The Floating Piers collega Montisola a Sulzano e all’Isola di San Paolo (nella foto)

 

«Caduto il fiore resiste l’immagine della peonia». È un delicato haiku del poeta giapponese Yosa Buson (1716-1784). Ci ricorda l’installazione artistica temporanea di Christo. The Floating Piers è stata aperta il 18 giugno 2016 sul Lago d’Iseo e fino al 3 luglio ha richiamato migliaia di visitatori. Se ne prevedevano 500 mila e ne sono arrivati quasi tre volte tanto. Amanti dell’arte o semplicemente curiosi? Era un’opera d’arte o una grande operazione di marketing? Sulle sponde bresciana e bergamasca del lago d’Iseo ancora oggi si raccoglie l’eredità dell’affluenza turistica lasciata dall’artista americano di origini bulgare. “Sia lodato Christo”, osannano a Sulzano, Monte Isola, Sale Marasino, Iseo, Marone, Sarnico. Lovere. Da pochi giorni a Sulzano si celebra «Albori Music Festival: cittadella indipendente», il primo degli eventi che fino al 30 giugno evocheranno a due anni di distanza «The Floating Piers». Un ricco cartellone di eventi. Se tutto questo richiamo serve a scoprire il Lago, ben venga. Ora, passati due anni, torna imperativa la domanda dello storico Mimmo Franzinelli: «Entreremo davvero – come tanti profetizzano – nella storia dell’arte, o non piuttosto nel catalogo del Kitsch, per il proverbiale quarto d’ora di celebrità?». Torniamo qui a richiamare l’attenzione sull’idea di installazione come opera d’arte. Un’arte evanescente come la peonia di Yosa Buson, che sfiorisce in un breve arco di tempo senza lasciare tracce tangibili se non l’immagine del proprio ricordo.

Dagli anni ’60 del Novecento, artisti di tendenze diverse, legati al minimalismo, all’arte processuale, all’arte povera, all’arte concettuale, hanno sintetizzato le proprie esperienze direttamente nello spazio, anziché scegliere una tela o una parete. Hanno utilizzato linguaggi e mezzi espressivi propri della contemporaneità (videoinstallazioni o installazioni visive, sonore, computerizzate, interattive) che trovano il loro denominatore comune nello spazio-tempo. Un luogo specifico utilizzato in un tempo definito. Julia Kristeva pone l’accento sulla “teatralità” dell’installazione, dove l’opera si compie nel momento della sua rappresentazione: «È uno spettacolo, ma senza palcoscenico; un gioco, ma anche un’attività quotidiana; un significante, ma anche un significato. Come la scena del carnevale, dove non c’è scena, non “teatro”, è allo stesso tempo scena e vita, gioco e sogno, discorso e spettacolo». L’installazione può essere proposta, smontata, rimontata in ambienti espositivi differenti, adattandola di volta in volta come la scenografia in un teatro, purché si mantenga inalterato il senso dell’opera. Nel caso specifico dell’opera di Christo, tuttavia, l’installazione è progettata espressamente per uno spazio ben determinato, dove il contesto è attivamente e indissolubilmente parte dell’opera stessa. Per questo motivo si parla di “site specific”.

L’artista sognava di realizzare la passerella sin dal 1970, ma non ha ottenuto le autorizzazioni pubbliche nei luoghi che gli parevano i più adatti, come in Argentina o Giappone. Ha coronato la sua idea in Italia. Qui ha costruito l’opera scegliendo i materiali idonei allo scopo, come uno scultore cinquecentesco sceglieva un “marmo pario”. I materiali sono importanti, ma non sono l’opera d’arte. Christo stesso lo spiega: «L’opera d’arte non è il tessuto; il tessuto è soltanto il materiale che le dà forma e vita. L’opera d’arte è anche l’acqua, sono le case su Montisola. Tutto questo è l’opera d’arte. E siccome l’opera d’arte è in acqua, abbiamo dovuto trovare un tessuto che potesse cambiare colore. E abbiamo usato un tipo di nylon molto sensibile all’umidità dell’aria. Ecco perché è come un dipinto astratto». Come scrivevamo su Experiences due anni fa, l’opera stimola il desiderio di camminare – quasi involontariamente, meglio se a piedi scalzi – per abbandonarsi al sole, all’umidità del lago, alla pioggia o al vento. In un altro haiku di Yosa Buson leggiamo: «Brezza primaverile, lungo cammino sull’argine e la casa è lontana». Ci piace pensare che l’argine sia quello sul Lago d’Iseo, la brezza l’opera nel presente. La casa lontana il senso dell’arte temporanea che conservi solo nel ricordo, se prima lo avevi conosciuto.

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CHRISTO E JEANNE-CLAUDE, o più spesso semplicemente Christo, è il progetto artistico comune dei coniugi statunitensi Christo Yavachev (Христо Явашев, Gabrovo, 13 giugno 1935) e Jeanne-Claude Denat de Guillebon (Casablanca 13 giugno 1935 – New York, 18 novembre 2009), fra i maggiori rappresentanti della Land Art e realizzatori di opere su grande scala (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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THE FLOATING PIERS è stata un’installazione artistica temporanea dell’artista Christo, concepita come una passerella che attraversava le sponde del lago d’Iseo. L’opera era costituita da una serie di passerelle installate sulla sponda bresciana del lago d’Iseo, che permettevano ai visitatori di camminare appena sopra la superficie dell’acqua del lago da Sulzano, sulla terraferma, sino alle isole di Monte Isola e San Paolo, dal 18 giugno al 3 luglio 2016. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNO

Sulzano, via al cartellone di eventi ricordando Floating Piers

Nicolas De Staël – Non sappiamo dove andava o da dove veniva

Nicolas de Staël

 

Un artista del tutto particolare, Nicolas de Staël. Non aveva interesse per i soldi, per la gloria, per i premi, per le mostre, né per il successo. Leggeva solamente i poeti. Non leggeva, invece, riviste d’arte, né gli interessavano le recensioni dei critici. Uno fra questi, il più sottile e acuto dei suoi tempi, Roland Barthes, ha scritto di lui: «Tutto de Stael è in due centimetri quadrati di Cézanne». Mai critica nei suoi confronti è stata così tagliente. Barthes, non gli riconosce nulla se non un paragone con Cézanne dal quale lo fa uscire sconfitto senza pietà. Eppure Nicolas chiedeva ai critici di essere giudicato per quello che era, «sans bétises», senza stupidaggini. Non si richiama espressamente ai maestri come Braque, Courbet, Velasquez, oppure Cézanne, benché come quest’ultimo abbia vissuto gli ultimi anni della sua vita nel Sud luminoso della Francia. Staël scrive un giorno al suo gallerista Jacques Dubourg: «un bon tableau est celui dont on peut dire qu’on ne sait pas où il va ni d’où il vient », un buon quadro è quello di cui si può dire che non si sa né dove va né da dove venga». Ha vissuto quasi sempre di miseria e nobiltà, perché era un barone russo. La produzione sviluppata in Provenza, negli ultimi anni, gli permette di affermarsi definitivamente. A dire dei critici, la sua vita di pittore è durata solo dieci anni e la sua gloria appena tre: gli ultimi tre, prima del suicidio. Nella notte tra il 16 e il 17 marzo 1955 Nicolas, in preda ad una crisi depressiva, spalanca la finestra della sua casa di Antibes e salta nel vuoto. L’epilogo tragico di una vita durata solo 41 anni. Ha scritto poco prima del suicidio: «Ci sono persone che deliberatamente vanno sulla luna perché sanno che non possono, e sicuramente non possono, sapere cosa sta succedendo a casa».

Ora l’ultimo di suoi quattro figli, Gustave, e la nipote, Marie du Bouchet, autrice della sua biografia, hanno raccolto in una mostra ad Aix-en-Provence 71 dipinti e 26 disegni. Delineano gli anni d’oro dell’artista. Racchiudono le sue “impressioni”, con quelle macchie larghe di colore impressioniste: paesaggi di luce e nudi stilizzati. Come il bellissimo nudo di Jeanne. La incontra nel ’52. Quasi come fosse naturale Nicolas chiede all’amico e poeta René Char di concedergli la sua donna: «Dónamela, l’amo troppo». E lui, in modo altrettanto naturale e libertino, gliel’ha donata. È Jeanne – Jeanne Mathieu, coniugata Polge e madre di due figli – che non ha voluto lasciare René per vivere con lui. Sono anni dalla pittura febbrile, Staël viaggia e dipinge. Scrive a Jeanne: «Ti amo da urlare. Ti amo da morire Ti amo da vedere la complessità più infernale, limpida nel tuo amore. Ti amo da amare il tuo amore come ti amo. Ti amo nel rischio, nella pace di un istante, con tutto il mio sangue, con tutte le mie lacrime, con tutta la mia follia, con te, con me, ti amo in ogni granello di polvere che tocca il tuo cuore». Nel ’53 visita anche l’Italia, la Sicilia: Palermo, Selinunte, Agrigento, Ragusa, Siracusa, Catania, Taormina. Scrive a Char: «Sono divenuto, anima e corpo, un fantasma che dipinge templi greci e un nudo così adorabilmente ossessivo, senza modello, che si ripete e finisce con l’annebbiarsi di lacrime. Non è davvero atroce, ma spesso si raggiunge il limite. Quando penso alla Sicilia, che è essa stessa un paese di veri fantasmi, dove solo i conquistatori hanno lasciato delle tracce, mi dico che sono racchiuso in un cerchio di stranezze dal quale non si esce mai».

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NICOLAS DE STAËL (San Pietroburgo, 5 gennaio 1914 – Antibes, 16 marzo 1955) è stato un pittore russo naturalizzato francese. Il padre Vladimir era un barone russo baltico, della stessa famiglia del marito della celebre Madame de Staël, e la madre era una pianista. A seguito della Rivoluzione Bolscevica la famiglia si trasferì in Polonia. Alla morte dei genitori, (1921-1922) visse con le sorelle a Bruxelles presso la famiglia Fricero. Fu introdotto all’arte, dapprima nel collegio dei Gesuiti e in un secondo tempo grazie alla frequentazione dell’Accademia di Belle Arti di Bruxelles.(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNALE DELL'ARTE

L’ultimo de Staël innamorato del sole

James Joyce – Discuteremo per secoli su quello che intendeva con l’Ulisse

 

Ulysses nell’edizione originale del 1922

 

Trieste, Genova, naturalmente Dublino e tante altre città il 16 giugno celebrano il Bloomsday, ovvero il giorno di Leopold Bloom, ebreo irlandese, piccolo borghese, indaffarato a tradire la moglie Molly dalla quale è a sua volta tradito. Leopold Bloom è il protagonista di Ulisse, capolavoro di James Joyce. La vicenda ricorda, in termini moderni, quella dell’Ulisse di Omero, che approda di luogo in luogo nel Mediterraneo, tradendo sua moglie Penelope ad ogni piè sospinto, mentre Penelope tesse la tela respingendo (fino a che punto?) le profferte dei Proci, ben 108 nobili di Itaca e dell’hinterland che si contendono non solo il letto di Ulisse ma soprattutto il suo trono. Il 16 giugno 1904 è il giorno scelto da James Joyce per circoscrivere il tempo narrativo. In verità, è stato scelto dal grande scrittore irlandese perché sembra sia stato il giorno in cui la sua futura moglie, Nora Barnacle, ha capito di essere innamorata di lui. Cose della vita che si trasfigurano nelle opere letterarie! Ecco come Louis Menand, saggista americano, descrive sul “New Yorker”, riprendendola dallo stesso Joyce, la prima passeggiata intima fra il giovane James e Nora. Lei veniva da Galway e lavorava come cameriera al Finn’s Hotel, a Dublino. James la vide camminare lungo Nassau Street, in un modo che suggeriva alla fantasia una qualche disponibilità a farsi avvicinare. Lui con tatto le chiese un appuntamento. Lei fu d’accordo, ma lo piantò in asso. Lui non desistette e la contattò con un biglietto. «Sono tornato a casa piuttosto abbattuto – scrisse – Mi piacerebbe incontrarti di nuovo. Spero che sarai così gentile da fissarmi un appuntamento, se non mi hai dimenticato!». S’incontrarono, finalmente. Passeggiarono fino a Ringsend, sulla riva sud del Liffey, dove lei gli mise una mano dentro i pantaloni e lo masturbò. Era il 16 giugno 1904 e quel giorno Joyce impostò Ulisse. Quando le persone celebrano il Bloomsday, questo è ciò che stanno celebrando, precisa Menand.

Da allora il 16 giugno è ricordato ogni anno in una giornata speciale, nel corso della quale si celebrano una serie di eventi per rievocare le pagine del libro, che descrivono Leopold mentre percorre in lungo e largo la Dublino dei primi anni del Novecento, immerso nei pensieri e sommerso da tanti piccoli impegni quotidiani. Stuart Gilbert, che ha curato le “Lettere di James Joyce”, ci porta a conoscenza che una prima menzione della celebrazione si trova addirittura in una lettera di Joyce a Miss Weaver. La data è quella del 27 giugno 1924, e lo scrittore si riferisce ad «un gruppo di persone che osserva quello che chiamano il giorno di Bloom». L’idea del Bloomsday, l’evento che da allora si celebra con cadenza annuale, è scaturita nel 1954, volendo celebrare il 50° anniversario della giornata descritta nel libro. Una festa itinerante, per ripercorrere i passi di Leopold Bloom per le strade di Dublino. Si racconta che il primo gruppo di ammiratori, quel 16 giugno del 1954, mosse dalla torre Martello a Sandycove (laddove inizia il romanzo), visitando via via le scene del romanzo. Il programma prevedeva di terminare di notte nel quartiere in cui un tempo si trovavano le case di tolleranza della città, la zona che Joyce aveva ribattezzato nel romanzo Nighttown, la città della notte.

Il “pellegrinaggio” fu interrotto a metà strada, quando i partecipanti cedettero all’ubriachezza al pub Bailey, nel centro città, che nel 1967 installò la porta del numero 7 di Eccles Street, salvata dalla demolizione. Quella era la porta del locale in cui Leopold Bloom fece colazione. Osserviamolo: «Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica». Abbiamo capito che questi appassionati di Joyce restituiscono il loro entusiasmo di lettori coinvolgendo quanti più curiosi è possibile. Questa festa nella capitale irlandese è accolta ogni anno con grande partecipazione. Per l’occasione sono organizzate letture, drammatizzazioni dell’Ulisse, e molte altre attività culturali collaterali. Alcuni organizzatori e fan indossano abiti in stile edoardiano per riprodurre le atmosfere del tempo. Si visitano i diversi luoghi del romanzo, come il Davy Byrne’s pub frequentato da Joyce. Ma la festa non è più soltanto irlandese. Trieste, ad esempio, è una delle città in cui in Italia si commemora libro e scrittore, poiché qui è stata scritta la prima parte di Ulisse. Ovunque il Bloomsday sia celebrato, una cosa è certa: dal mattino si tira fino alle tarde ore della notte. Buon divertimento.

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LEGGI SOPRATTUTTO IL ROMANZO: Ulysses by James Joyce

 

JAMES AUGUSTINE ALOYSIUS JOYCE, noto semplicemente come James Joyce (Dublino, 2 febbraio 1882 – Zurigo, 13 gennaio 1941), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese. Benché la sua produzione letteraria non sia molto vasta, è stato di fondamentale importanza per lo sviluppo della letteratura del XX secolo, in particolare della corrente modernista. Soprattutto in relazione alla sperimentazione linguistica presente nelle opere, è ritenuto uno dei migliori scrittori del XX secolo e della letteratura di ogni tempo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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ULISSE (in inglese Ulysses) è un romanzo scritto da James Joyce. Viene considerato uno dei romanzi più importanti della letteratura del XX secolo ed è una delle pietre miliari nella genesi del romanzo moderno. Lo stile narrativo viene variato su tutti i registri: dal parodistico al dottrinale. Molte parti del racconto sono sviluppate secondo quella particolare tecnica di scrittura, chiamata “monologo interiore”, che descrive il flusso di coscienza, in cui i pensieri del protagonista scorrono senza punteggiatura, per definire la contemporaneità e l’intricato procedimento cognitivo che sottostà ai processi mentali dell’io narrante.(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL LIBRAIO

Come leggere l’Ulisse di Joyce
grazie ad alcuni “escamotage digitali”

Il Premio Strega – La prima lettura affascina, la seconda… Strega

 

 

L’articolo della Stampa dal quale FLIP prende spunto risale, volutamente da parte nostra, al 2010 così non facciamo particolarità fra i quotidiani nazionali; d’altra parte la nota è sempre valida giacché tratteggia l’essenza del prestigioso premio. Le novità del 2018 si possono leggere, invece, su tutti i giornali, perché a Casa Bellonci, mercoledì 13 giugno, si è chiuso lo spoglio della prima votazione che designa i cinque finalisti dell’edizione 2018 del Premio Strega, promosso dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Liquore Strega con il contributo della Camera di Commercio di Roma e in collaborazione con BPER Banca e Fuis. La cinquina dei finalisti è resa pubblica. Eccola con i voti: Helena Janeczek con La ragazza con la Leica (Guanda) 256 voti, Marco Balzano con Resto qui (Einaudi) 243 voti, Sandra Petrignani con La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg (Neri Pozza) 200 voti, Lia Levi con Questa sera è già domani (Edizioni E/O) 173 voti, Carlo D’Amicis con Il gioco (Mondadori) 151 voti. Come si vede la prima novità dello Strega di quest’anno sono tre donne in finale; l’altra novità è il primo posto della cinquina conquistato da un editore che non fa parte del gruppo Mondadori-Einaudi-Rizzoli, poiché si tratta di Guanda. Per gli appassionati di premi letterari l’interesse è grande, in attesa fino al 5 luglio per la proclamazione del vincitore. La consistenza venale del premio è limitata, ma ciò che conta è il prestigio più per gli autori che per gli editori, poiché essendo quasi sempre quelli del gruppo di testa le vendite dei libri ricevono un incremento di cui spesso non hanno stretto bisogno.

Il Premio è legato fin dalla sua nascita nel 1947 alla casa produttrice del Liquore Strega, che ancora oggi lo sponsorizza. Allora il patron era Guido Alberti, comproprietario e amministratore della fabbrica di Benevento produttrice dei torroni Alberti e del Liquore Strega, ma noto al grande pubblico come attore televisivo e cinematografico. L’idea del premio si deve a Maria e Goffredo Bellonci, che hanno istituito l’omonima Fondazione per gestire e promuovere l’annuale manifestazione. La giuria dello Strega è formata da 400 “Amici della Domenica”. È l’appellativo con il quale Maria Bellonci chiamava gli ospiti del suo salotto negli anni di guerra, «tentativo di ritrovarsi uniti per far fronte alla disperazione e alla dispersione». Il primo vincitore di quel fatidico 1947 è stato Ennio Flaiano, con Tempo di uccidere, edito da Longanesi; su Wikipedia l’elenco dei vincitori successivi. La votazione avviene in diretta televisiva: durante la trasmissione si estrae ogni voto e si aggiorna la lavagna dei totali. Chi risulterà vincitore quest’anno? Proviamo a immaginarlo, ma intanto scorriamo le note biografiche e le schede editoriali dei cinque libri finalisti del Premio Strega LXXII edizione sulportale ufficiale della manifestazione.

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VISITA IL PORTALE UFFICIALE: Premio Strega

Cinquina Premio Strega 2018: (da sinistra) Helena Janeczek, Carlo D’Amicis, Marco Balzano, Lia Levi, Sandra Petrignani. Foto: Musacchio & Flavio Ianniello

 

IL PREMIO STREGA è un premio letterario che viene assegnato annualmente all’autore o autrice di un libro pubblicato in Italia, tra il 1º aprile dell’anno precedente ed il 31 marzo dell’anno in corso. Dal 1986 è organizzato e gestito dalla Fondazione Bellonci. È universalmente riconosciuto come il premio letterario più prestigioso d’Italia, oltre a godere di una consolidata fama in Europa e nel resto del mondo. Il Premio è stato istituito a Roma nel 1947 da Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del Liquore Strega, che dà il nome al Premio e si ricollega alle storie sulla stregoneria a Benevento che risalgono ai tempi dell’antichità classica. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA STAMPA

Perché il Premio Strega fa tanto discutere?

L’Indice dei libri proibiti – La risposta alle nuove idee di Dio e di Chiesa

 

 

Il 14 giugno 1966 la Congregazione per la dottrina della fede (nota e nata come Santa Inquisizione o Sant’Uffizio) annuncia l’abolizione dell’Indice dei libri proibiti. Si tratta della bibliografia delle opere valutate negative, lesive degli interessi della Chiesa Cattolica o dello Stato, per le quali è intimata la proibizione di stampa e di lettura. Tali indici, che comprendono liste di libri, autori, generi, argomenti, sono stati compilati sin dalla prima istituzione da organismi prescelti per il controllo della censura. Una storia lunga che comincia con la Sorbona, che tra il 1544 e il 1556 redige sei cataloghi di libri proibiti, quasi contemporaneamente all’Università di Lovanio che, su ordine di Carlo V e Filippo II (padre e figlio), tra il 1546 e il 1558 ne redige tre. Fortunatamente questi indici non sono mai stati emanati, perché non mancarono le vive reazioni di quelli che oggi chiamiamo “organismi di categoria”, librai e tipografi. Tempo un anno e papa Paolo IV attraverso l’inquisizione romana (contraltare di quella spagnola) promulga nel 1559 il cosiddetto indice paolino considerato il più radicale e severo della storia. Il potere censorio è posto nelle mani del Sant’Uffizio e della propria rete, escludendo tutti gli altri organismi ecclesiastici, persino i Vescovi. Libri fondamentali, ieri come oggi, quali il Decameron di Boccaccio, l’intera opera di Machiavelli, di Rabelais e di Erasmo da Rotterdam, sono “messi all’indice”, e l’espressione divenne da allora comune per dire che certi particolari libri non possono essere né trovati in circolazione né letti. L’indice tridentino, il cui nome contraddistingue l’elenco promulgato sotto papa Pio IV nel 1564 si presenta meno intransigente. Ricordiamo, però, che siamo all’indomani della conclusione del Concilio di Trento, che avrebbe dovuto “conciliare” cattolici e protestanti, ma finì per istituire, dopo la caccia alle streghe, anche la caccia a luterani e calvinisti. Per cui l’indice paolino è rivisto e corretto in modo da colpire preferibilmente gli eretici, ovvero coloro che hanno fatto una “scelta diversa” dalla religione cattolica. L’indice tridentino rimane formalmente in vigore fino al 1596, applicato in Italia e in buona parte d’Europa, salvo che in Spagna, che a partire dal 1559 adotta un indice che segue i dettami dell’Inquisizione spagnola. I libri proibiti, ad ogni edizione dell’indice, si assommano ai precedenti, qualcuno fra questi può essere incluso in una lista meno severa. Tutto dipende dalle esigenze ecclesiali, dall’ottica pontificia e dal potere dei vescovi che soffrono a sottostare alle volontà dell’Inquisizione. Anche perché tale volontà si è sdoppiata in due congregazioni, quella del Sant’Uffizio e quella dell’Indice. Nel 1596 Clemente VIII promulga l’indice clementino, che persegue le linee del Concilio tridentino e vi aggiunge le registrazioni operate negli altri indici europei dopo il 1564.

Inizialmente la censura riguarda i libri di carattere religioso, ma sconfitta l’eresia riformistica l’obiettivo divengono da una parte i libri di magia dall’altra le opere di letteratura e scienza. Le aumentate esigenze di alfabetizzazione e soprattutto di autoistruzione impensieriscono le autorità religiose preposte. È proibito stampare e leggere, ma anche detenere in biblioteche private libri non proibiti, ma che rasentano la proibizione. Si tollerano i classici latini. Si allarga il controllo alla letteratura popolare. Una bolla di Pio IV, del 1564, impone il giuramento a tutti gli insegnanti, sottoposti a dichiarare al vescovo generalità, scuola nella quale insegnano, materie e testi utilizzati. Il potere religioso si allarga dai libri proibiti ai brani proibiti contenuti in libri leciti. Si vengono così a compiere espurgazioni dei passi sconvenienti. Si interviene sui libri di medicina e su quelli scientifici. A partire dagli anni Ottanta del Cinquecento si contrastano interpretazioni non allineate con la filosofia aristotelico-scolastica. Il 5 marzo 1616 la Congregazione dell’Indice bandisce trattati che sviluppano teorie “de mobilitate terrae et de immobilitate solis”. Si colpisce l’opera di Copernico diffusa ben settant’anni prima. Il 17 febbraio 1600 sale al rogo Giordano Bruno e nel 1633 si porta sotto processo Galileo. La parola d’ordine fra gli autori è “autocensura”. I libri proibiti sono stampati all’estero, per lo più in Olanda, e giungono in Italia di nascosto. Se ne trovano persino negli stessi collegi gesuitici. Aumentano le richieste per ottenere “patenti di lettura” a scopo di studio. Nel corso del Seicento tali licenze sono rilasciate dal Sant’Uffizio solo a studiosi anziani e di comprovata fede e cultura. Insomma, le norme lasciano spazio al carattere di discrezionalità e le licenze sono più facilmente ottenute da quanti frequentano gli ambienti ecclesiastici. Dopo la metà del secolo il rafforzamento dello Stato laico controbilancia il potere religioso. Il controllo diviene meno pressante e, nell’ambito dei salotti aristocratici, più un libro è interdetto più è richiesto o scambiato. Il 18° secolo segna il declino degli indici; si rafforza il carattere illuministico. Anche la Chiesa ritiene d’intraprendere una revisione delle norme, aprendosi alle riforme sociali dell’epoca. L’indice del 1758 limita le proibizioni e rimuove del tutto il divieto di lettura della Bibbia in lingue differenti dal latino. L’indice, comunque, sopravvive fino al 1966, quando è abolito da papa Paolo VI, con il Concilio Vaticano II. Oggi la Chiesa non pone più divieti, ma questi divieti sono posti dalla nostra stessa società, per perseguire libertà religiose o sociali: ne leggiamo un esempio nell’articolo di Libero che segue.

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L’INDICE DEI LIBRI PROIBITI (in latino Index librorum prohibitorum) fu un elenco di pubblicazioni proibite dalla Chiesa cattolica, creato nel 1559 da papa Paolo IV. L’elenco fu tenuto aggiornato fino alla metà del XX secolo e fu soppresso dalla Congregazione per la dottrina della fede il 4 febbraio del 1966. Dal 1571 al 1917 il compito della compilazione del catalogo dei libri proibiti fu di competenza della Congregazione dell’Indice. Sin dalle sue origini le lotte della Chiesa contro le eresie comportarono la proibizione di leggere o conservare opere considerate eretiche: il primo concilio di Nicea (325) proibì le opere di Ario, papa Anastasio I (399-401) quelle di Origene, nel 405 Innocenzo I scrisse una lista di libri apocrifi, papa Leone I (440-461) proibì i testi manichei. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LIBERO

All’indice i libri di Euripide e Shakespeare

Alberto Giacometti – Faceva pittura e scultura per vederci meglio e capire

 

Busti e teste di uomo raffiguranti il fratello Diego eseguiti da Giacometti tra il 1954 e il 1956, in bronzo e gesso (foto Andrew Toth / Getty Images)

 

«Mi sorprende l’uomo della strada più di ogni scultura o dipinto. Ad ogni momento la folla scorre incessantemente per riunirsi e allontanarsi di nuovo. Senza posa, forma e riforma composizioni viventi di incredibile complessità. Ed è proprio la totalità di questa vita che desidero riprodurre in ogni cosa che faccio». Dall’8 giugno fino al 12 settembre, con oltre 175 opere in una mostra intitolata semplicemente “Giacometti”, il Solomon R. Guggenheim Museum di New York rende omaggio a questo artista svizzero, nato nel 1901 a Borgonovo vicino al confine italiano, protagonista imprescindibile del Novecento europeo. Il percorso espositivo comprende sculture, dipinti, disegni, fotografie d’archivio, oggetti, che abbracciano le creazioni elaborate nel corso di una vita, soffermandosi sul suo metodo di lavoro, documentato da istantanee, schizzi e diari. Attraverso le opere esposte è possibile cogliere anche la speciale “relazione storica” tra il Guggenheim stesso e l’artista Giacometti. Nel lontano 1955, in una sede provvisoria, il museo aveva già esposto al pubblico per la prima volta la sua produzione incentrata particolarmente sulla scultura. Dopo la sua scomparsa, nel 1974 gli rese ancora omaggio con una retrospettiva ospitata all’interno dell’avvolgente edificio realizzato da Frank Lloyd Wright. E molte, opere chiave dell’artista, è possibile ammirarle nella collezione permanente del museo. Visionario e introverso, Alberto Giacometti ha trascritto nell’arte del secondo dopoguerra, attraverso segni indelebili, il sentimento del proprio tempo. Ha convertito in materia artistica quanto di esistenziale scaturiva dall’angoscia e dal trauma di una società devastata dal conflitto: «Per me – asseriva – l’arte è il giusto mezzo per cercare di sapere com’è il mondo esterno. Quello che conta per me è solamente il soggetto, l’uomo». Le sue esili e filiformi figure umane – inconfondibili espressioni, alle quali si lega gran parte della sua celebrità – sono sparse lungo la rotonda del museo. Non manca il bronzo de ‘L’homme qui marche‘ (L’uomo che cammina), battuto da Sotheby’s nell’asta del 2010 per circa 75 milioni di euro, prezzo mai pagato al mondo per una scultura. Rappresenta l’essenza più intima dell’artista: un’esile figura, alienata, procede verso un futuro incerto, isolato in un contesto etereo e inesistente: «Ci vuole una energia straordinaria per far stare in piedi le mie figure, un istante dopo l’altro, c’è sempre nello spazio e nel tempo la minaccia di una caduta, della morte».

La mostra è stata curata da Megan Fontanella, specialista di “Modern Art and Provenance” del Guggenheim e Catherine Grenier, direttrice della Fondazione Giacometti di Parigi, con il sostegno di Mathilde Lecuyer-Maillé sempre della Fondazione Giacometti e Samantha Small, assistente curatrice dello stesso Guggenheim. La selezione ad opera del team curatoriale, dando forma a “Giacometti”, restituisce la ricerca della fragile essenza umana che l’artista ha sempre avuto necessità di esprimere. Le molteplici sculture presentate nel percorso di visita, alcune poste su piedistalli ed osservabili all’intorno, esprimono l’esemplare dimostrazione della sua indagine creativa. Grazie ad uno speciale focus, che espone sculture in gesso, fotografie, diari e schizzi – ovverosia i documenti importanti del “dietro le quinte”, quasi una estrapolazione del suo atelier – il visitatore è guidato progressivamente a comprendere l’universo creativo e compositivo di Giacometti. Agli ultimi 20 anni della sua vita artistica si riferiscono, invece, i lavori in gran parte ubicati nella High Gallery del museo. Tali opere sintetizzano le tre linee di ricerca sperimentate a conclusione della sua esistenza: i nudi femminili in piedi, le figure maschili che camminano e i busti scultorei che ritraggono amici e componenti della propria famiglia. «Io – commenta in questi anni – faccio pittura e scultura per mordere nella realtà, per difendermi, per nutrire me stesso… per tentare – con i mezzi che oggi mi sono propri – di vederci meglio, di capire meglio ciò che ho intorno, capire meglio per essere più libero, più forte possibile, per spendere, per spendermi il più possibile in ciò che faccio».

 

ALBERTO GIACOMETTI (Borgonovo di Stampa, 10 ottobre 1901 – Coira, 11 gennaio 1966) è stato uno scultore, pittore e incisore svizzero. Alberto Giacometti nacque a Borgonovo di Stampa, nel Canton Grigioni (Svizzera), il 10 ottobre 1901 da Giovanni Giacometti, un pittore post-impressionista svizzero, e da Annetta Stampa, svizzera discendente di rifugiati protestanti italiani. Giacometti cominciò a disegnare, a dipingere e a scolpire assai giovane. Tra l’altro fece spesso dei ritratti di suo cugino Zaccaria Giacometti, poi noto professore di diritto pubblico all’Università di Zurigo che visse con lui come «fratello maggiore». (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Giacometti al Guggenheim

Karl Elsener – Inventò il celebre coltellino rosso con la croce bianca

 

 

Il personaggio del FLIP di oggi probabilmente sfugge ai più: Karl Elsener. Il prodotto che ha inventato e brevettato il 12 giugno 1897 lo conoscono tutti. È il famoso “coltello da soldato”, maggiormente noto come “coltellino svizzero”. Il personaggio di cui, invece, parla l’articolo del quotidiano inglese “Indipendent” si riferisce a Carl Elsener, scomparso nel 2013: «uomo d’affari che ha trasformato il coltellino svizzero in un prodotto globale». Apparteneva alla terza generazione d’imprenditori che con il brand Victorinox hanno prodotto da fine Ottocento il famoso coltello multifunzionale dal manico rosso con la croce bianca svizzera. Croce bianca per così dire, perché le cronache recenti informano sulla pressione degli investitori e di gruppi musulmani in Svizzera che hanno portato le compagnie simbolo del paese, quali Swatch, Tissot e la chiaramente Victorinox, ad eliminare la croce bianca, se non altro, dalle pubblicità che compaiono nei paesi arabi e asiatici. La Victorinox, nello specifico, ha sostituito la croce con la lettera “V”. Autocensura. Per rimanere sul tema, aggiungiamo che dopo l’11 settembre 2001 a New York, le vendite hanno subito un calo del 40%. La Wenger, storica concorrente, è entra in crisi, tanto che ad aprile 2005 la società è stata acquistata dalla stessa Victorinox. La ragione è dovuta alla modifica delle norme di sicurezza aeroportuali che proibiscono di portare a bordo degli aerei, nel bagaglio a mano, coltelli tascabili in precedenza venduti nei negozi duty-free. Oggi fuori dagli aeroporti, dunque, possiamo acquistare indifferentemente i coltellini, pubblicizzati come “Original Swiss Army Knife” i Victorinox, e “Genuine Swiss Army Knife” i Wenger. Il cult ideato da Karl Elsener è richiestissimo ovunque, perché come diceva un vecchio slogan «nessuna attività umana è imprevista, per ogni imprevisto c’è il suo attrezzo». Il modello di punta, Swisschamp, assolve ad una miriade di funzioni differenti. Questo vale anche per l’intera gamma di circa 100 modelli, perché il coltellino si propone di soddisfare ogni necessità: cucchiaio, forchetta, bussola, cacciavite, apriscatole, seghetti per legno e metallo, stuzzicadenti, pinze e pinzette, forbici, portachiavi, lente d’ingrandimento, spatola farmaceutica, lima, altimetro, barometro, sveglia, termometro. Si trovano incorporati attrezzi inimmaginabili.

Inizialmente Karl Eisener apre nel 1884 a Ibach (dove ancora oggi risiede la fabbrica) un’attività per la produzione di posate. Rappresenta l’alternativa alla scelta di molti giovani svizzeri di emigrare nel Nuovo Mondo alla ricerca di lavoro. Necessitano, però, ingenti forniture e l’esercito potrebbe essere un buon committente. Fino ad allora aveva acquistato coltelli fabbricati in Germania. Come tutte le storie che si rispettano i primi tentativi di imporre sul mercato i suoi “coltelli da soldato” lasciano Karl Eisener coperto di debiti da saldare. Occorre correggere problemi di peso ed aumentare le funzionalità. Il nuovo progetto è registrato, come dicevamo, il 12 giugno 1897 e corrisponde al modello storico attualmente conosciuto. Questa volta il contratto con l’esercito svizzero va a buon fine e il nuovo prodotto incontra anche il favore del grande pubblico. Carl II, alla morte del fondatore, decide che è giunto il momento di fissare bene il carattere del prodotto. A cominciare dal marchio di fabbrica che si chiamerà come mamma Victoria. L’industria tramuterà, nel 1921, il nome in Victorinox, per evidenziare, con l’aggiunta della dicitura “inox”, l’utilizzo dell’acciaio inossidabile che contraddistingue a livello internazionale la qualità del materiale. Da allora l’espansione è continuata, come dimostra l’articolo di Phil Davison di seguito. Carl III è entrato a far parte dell’azienda come apprendista nel 1937, appena  lasciata la scuola. È subentrato al padre quale amministratore delegato nel 1950. All’epoca i coltelli erano ancora fatti a mano; ma per mantenere i livelli di produzione sono stati introdotti macchinari industriali. Ciò ha permesso di rispondere alle esigenze del dopoguerra provenienti dal personale dell’esercito, della marina e dell’aeronautica statunitensi con sede in Europa. E sono proprio gli americani che, riluttanti ad utilizzare per quel prodotto tanto funzionale il nome originale in lingua tedesca “Offiziersmesser” (vale a dire “coltellino”) cominciano a chiamarlo per la prima volta “Swiss Army Knife” coltellino dell’esercito svizzero. Oggi, nonostante le flessioni di fatturato a causa della “guerra al terrore”, dopo l’11 settembre, nuove linee di prodotto hanno aiutato a mantenere attiva l’azienda di famiglia, continuando a dare lavoro ad uno staff di 2.000 persone, che fabbricano giornalmente 60.000 coltelli venduti in più di 135 paesi.

 

KARL ELSENER (9 October 1860 – 26 December 1918) was a Swiss cutler, inventor and entrepreneur. Karl Elsener completed an apprenticeship as a knife maker in Zug. After some journeyman years he opened a factory in Ibach, Switzerland in 1884 for the manufacture of knives and surgical instruments.[3] He invented the Swiss army knife in 1891 and developed his knife manufacturing company into what has become Victorinox. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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INDEPENDENT

Carl Elsener: Businessman who transformed the Swiss Army Knife into a global product

I due tipi di pasta a confronto: quella secca e quella fresca

 

I due tipi di pasta, quella secca e quella fresca – la prima realizzata con semola di grano duro, e la seconda con farina bianca di grano tenero – hanno accompagnato sin dal medioevo, lo sviluppo del mercato. Storicamente, però, la pasta fresca ha sempre avuto la preferenza culinaria, mentre quella secca era limitata sostanzialmente al popolo. Nel secolo scorso, la pasta secca, con l’industrializzazione, ha conquistato il mercato e i consumi di tutti. Vi è stata un’esplosione di ricette che hanno evidenziato il prodotto stesso. La pasta all’uovo, pur commercializzata, è rimasta a livello domestico. Tuttavia, il mercato della pasta fresca, ultimamente, sta recuperando punti a suo favore, grazie a sempre nuovi formati, ma da consumare in pochi giorni. Evidentemente, il pubblico gradisce le “novità”.


Gli inizi medievali

Al tempo della classicità romana, esistevano solo due termini per indicarla: lagana e tracta, che consistevano in semplici sfoglie di pasta. Tuttavia, tutti gli storici, indicano gli arabi come gli inventori della pasta. Questa comunque, era rappresentata da una specie di spaghetti e dalla pastina da brodo.
La cucina italiana medievale, invece, sin dagli inizi, presenta una grande attenzione verso la pasta. Esistevano, già agli albori (tra XIV e XV secolo), ricettari di cucina ricchi di varianti nel prepararla. Si contavano almeno 120 ricette differenti. I ricettari medievali erano finalizzati esclusivamente alla cucina dei nobili, che prediligevano, soprattutto, la pasta fresca e quella ripiena. In ogni caso, era un cibo per ricchi e non per tutti. I ricettari, quindi erano scritti per i grandi cuochi professionisti.
Nello stesso periodo, nascono i primi formati di pasta. Nei ricettari vengono, altresì, descritte le modalità di fattura. O si ricavava dall’impasto una sfoglia tirata a mattarello, o si producevano con le mani dei piccoli formati, caratterizzati con le dita stesse. Nel primo caso, si ricavavano dalla sfoglia tagliarini, pancardelle, longeti, triti e formentine. Sempre dalla sfoglia, ma tagliata in formato piccolo, si ricavavano bindelle o stringhe per la creazione dei maccheroni. Nonostante quello che si pensi, sin dagli inizi, era presente anche la cosiddetta pasta ripiena, molto apprezzata anche a quel tempo, che aveva origine dal laganon. Il formato dei vermicelli era ancora poco citato nei ricettari medievali. Così come passava sotto silenzio la cosiddetta pastina graniforme da brodo, tanto sviluppata nel mondo arabo. Nei testi di Martino, del XV secolo, appaiono, però, i Millefanti, costituiti da palline di pane e farina, della grandezza di chicchi di grano (o di riso), da consumarsi nel brodo, o di manzo o di pollo. Se per il momento non possono essere considerati pasta a tutti gli effetti, ispireranno in seguito la pastina che noi tutti conosciamo. Infatti, nel XVI secolo, Bartolomeo Scappi, cuoco pontificio, crea i Millefanti fatti con la farina e poi essiccati. Quindi un primo formato di pasta, che in seguito darà origine alle pastine da minestra, chiamate sementine o semoline. Una vera e propria miniera di formati diversi, nel XVIII secolo. Si concretizzava, così, nel lungo tempo, l’influsso culturale dovuto al regno musulmano di Spagna.
Il brodo e le minestre avevano grande importanza nell’alimentazione medievale. Esiste, in particolare, una ricetta del XIV secolo, in un manoscritto anonimo, che ci fa capire il gusto delle pietanze medievali. È la ricetta dei “vermicelli a brodetto”. Essa era a base di brodo di carne o di pesce, con latte di mandorle, pezzi di salsiccia fritti e spezie varie. In esso tortelli cotti senza involucro.
Raro è il caso di trovare nei ricettari italiani del XIV e XV secolo, l’uso di pasta lunga nelle minestre. Questo perché l’attenzione in Italia, mirò alla creazione di piatti di pastasciutta, con ingredienti ed accostamenti innovativi. Migliorando e variando i condimenti, si diede vita ad una cucina impensabile ai loro tempi: quella della pasta attuale.