Cottura della pasta? Il tempo necessario per due paternostri

 

La pasta, nel periodo medievale, era cotta principalmente nel brodo, che poteva essere di cappone o di carne. Sembra che in periodo quaresimale fosse cotta direttamente in acqua. Esistono documenti che ci parlano di pasta cotta nel latte. Si evidenziano, infatti, i “vermicelli cum lacte”.  La pasta si immergeva, anche allora, quando l’acqua era in fase di ebollizione. Ma è sui tempi di cottura che i dati non tornano. Alcuni manoscritti parlano di un’ora di cottura, altri di due ore. È d’obbligo diffidare di queste informazioni. Infatti, per quanto riguarda la pasta ripiena i dati cambiano. Martino consiglia di bollirli per il tempo necessario per dire due paternostri (altri quattro). I ravioli vanno cotti, comunque, lentamente, affinché non si rompano. La rapidità era consigliata per i ravioli “ignudi”. Il testo di Martino, con i dati riferiti, ci conferma la sua abilità e, soprattutto, il controllo sapiente di tutte le fasi di lavorazione di una buona pasta ripiena.

I dati, se confermati, proverebbero l’ipotesi che, al tempo, la pasta veniva gustata molto cotta, cioè “fondente”, per eliminare l’amido che conteneva. Un proverbio del tempo, infatti, recitava: “grosso come l’acqua dei maccheroni”. L’acqua di cottura, era senza sale, molta per quantità, torbida e collosa. A questo si aggiunge che all’epoca, grosso significava sciocco. Per cui il proverbio indicava una persona sciocca, che si lasciava abbindolare facilmente. Sembra che il significato del proverbio sia confermato nella Lettera in proverbi del Vignali, del 1557.
È comunque assodato che i tempi di cottura della pasta fossero lunghissimi. Il cuoco Martino suggeriva di cuocerla circa mezz’ora ”perché ogni pasta volle essere ben cotta”.
Questo accadeva, non solo per un problema di gusto, ma soprattutto, in campo medico. Si riteneva infatti che la pasta poco cotta procurasse costipazioni o la calcolosi renale. Un medico del XIII secolo, Arnaldi di Villanova, consigliava di “farla cuocere a lungo e servirla con molto latte di mandorle”. Tale modalità tecnica (della pasta scotta) rimase nell’usanza per alcuni secoli, per poi variare. Nei trattati di cucina del Rinascimento, la cottura non è precisata, ma dai testi si suppone sia la stessa del periodo medievale. Ma già Scappi, successivamente, consiglia mezz’ora (dimezzando i tempi) per una minestra di maccheroni alla romanesca. Terminata verrà posta sul piatto in tre strati, conditi con formaggio grattugiato, zucchero e cannella (quindi un gusto dolce). Dopo di ché, la pietanza andava stufata lentamente con il calore basso della cenere, per un’altra mezz’ora. Questa tecnica era utilizzata anche, nel XVII secolo, dai cuochi francesi.

La pasta “fondente”, cioè molto scotta, riportata anche da Romoli, inizia a variare con il XVII secolo, con una progressiva diminuzione dei tempi di cottura, allora così lunghi. Giovanni del Turco, musicista fiorentino, iniziò a rivedere le ricette del maestro Scappi. Parlando di cottura, il musicista, una volta cotta “a punto” la pasta, suggerisce di fermare l’ebollizione dell’acqua della pentola, con l’aggiunta di acqua fredda, per far rinvenire i maccheroni e renderli più corposi. Naturalmente, raccolse molte critiche dai grandi cuochi del tempo. La cottura della pasta, alla fine del XVII secolo, diventò una fase da migliorare. Gli chef si misero al lavoro, variando le modalità della cottura. Antonio Latini confeziona i suoi tagliolini di monica, cioè fatti nei conventi dalle suore. Sono cotti nel brodo, ma per breve tempo, essendo molto sottili. Nel Cuoco piemontese, libro del 1766, le tagliatelle fresche, invece, devono passare dall’acqua bollente velocemente all’acqua fredda. Condite con burro e formaggio grattugiato, indi gratinate al forno. Anche un altro cuoco, Francesco Chapusot, divide la cottura in due fasi. Per primo, le tagliatelle devono cuocere in acqua bollente, per 10 minuti circa, poi condite e, infine, mantecate sulla brace, per altri 10 minuti.

La pasta ed i viaggiatori in Italia tra XVII e XVIII secolo

 

I viaggiatori stranieri, che visitano l’Italia, nel XVII e XVIII secolo, oltre ai monumenti, annotano sui loro diari l’amore per la pasta degli italiani, cibo prevalentemente locale e popolare, evidentemente già molto diffuso. A Sanremo, Padre Giambattista Labat mangia per la prima volta la pasta di Genova, già rinomata. Il piatto non gli piace molto, ma annota l’esperienza e soprattutto si guarda intorno. Anche un altro viaggiatore, Jouvin de Rochefort, è colpito dall’attaccamento e dal particolare modo di dire popolare: ”Maccheroni bene mio”.
La pasta secca ha come vantaggio di essere pronta all’uso. sia per quanto riguarda la semplicità della preparazione, ma anche, essendo secca, per la possibilità di approntare un pasto su due piedi.. facendo fronte ad ogni evenienza. A testimoniarlo è Giacomo Casanova, celebre personaggio del ‘700 veneziano. Egli ci racconta come, in compagnia di una bellissima donna, in un viaggio da Firenze a Bologna, arrivò di notte ad una sperduta locanda. Essendo ora tarda, l’oste non aveva da offrire loro da mangiare. Casanova, non perdendosi d’animo, gli ordinò di preparare un piatto di maccheroni secchi, che fece poi condire con burro, uova e parmigiano. Sempre verso la fine del XVIII secolo, Il prete, Felice Libera, in uno scritto di cucina descrive alcune ricette di pasta. La particolarità è che compone il testo in Trentino. Se ne desume l’incredibile diffusione della pasta, pur inventata al Sud, in ogni zona d’Italia.

Questo accadeva al Nord. A Napoli, invece, il consumo della pasta era così ampio da essere cibo diffuso ed essenziale per la popolazione. Ce lo attesta Jérôme de Lalande, viaggiatore francese, nel 1765-66. Tuttavia, la pasta secca, pur avendo un costo basso e conveniente, non era ancora diffusa in maniera totale. Le persone in condizioni miserabili continuavano la loro vita di sopravvivenza. Basti pensare che la pasta in brodo dei signori, per il popolo si realizzava con acqua e grasso di maiale, con sopra un po’ di formaggio grattugiato.
Goethe, forse il più importante tra i viaggiatori, tornando dalla Sicilia a Napoli, nel 1787, appunta sul suo diario, la facilità di mangiare i maccheroni. Si potevano acquistare ovunque. Sul posto la pasta viene cotta e servita con sopra del parmigiano. Scrive: Si cuociono di solito in semplice acqua e il formaggio grattugiato dà al piatto grasso e gusto”. Il luogo comune che vuole i napoletani mangiare gli spaghetti con le mani, nasce da una descrizione di Giuseppe Gorani, del 1793. Davanti a lui un popolano, che “afferra i maccheroni avvolgendoseli sulle dita con abile gesto che forestieri sanno imitare”.
Questo aspetto fece parte del folklore napoletano. Successivamente, infatti, nel XIX secolo, Andrea de Jorio, in uno dei suoi libri, trattando di Napoli, consiglia a chi vuole qualche tocco di colore pittoresco di interpellare un tavernaro, lungo la Marinella, per farsi insegnare a mangiare la pasta alla napoletana, cioè, direttamente con le mani. La popolazione napoletana in ristrettezza economica imparò a mangiare la pasta ma non molto a condirla. I piatti di pastasciutta della tradizione culinaria della città sono, infatti, semplici ed essenziali, e forse per questo più difficili da realizzare.

 

Il trionfo del timballo all’apice della cucina italiana

 

Sontuoso timballo, descritto nel famoso romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958.

 

Nel XVIII secolo il timballo di maccheroni in Italia non era stato ancora inventato, anche se esisteva qualche ricetta del genere in precedenza. Nella fantasia di allora esistevano, comunque, diversi modi di mangiare i maccheroni, in variante paté o farcia.
Padre Labat scoprì, con grande sorpresa, in Sicilia, il paté di maccheroni, molto simile al timballo, descrivendone attentamente la fattura. Crisci, invece, ne segnalò l’uso come farcia di calzoni preparati con pasta da pizza e cotti al forno. Antonio Latini ci riporta di un gallo disossato con un ripieno di pasticcio di maccheroni, definibile come un paté d’uso a Napoli.
Nella grande cucina napoletana, Vincenzo Corrado, nel suo libro, Cuoco galante, presenta diverse ricette di timballi e sartù, come i maccheroni alla Pompadour, favorita di Luigi XV di Francia. Il termine sartù deriva proprio dal francese Surtout (una decorazione di centrotavola). Propone, inoltre, una sua ricetta, che prevede una base di pasta sfoglia con sopra un pasticcio di maccheroni. Il tutto da cuocere in forno.
Giovanni Vialardi e Francesco Chapusot, altri cuochi del periodo, ma del Nord, presentano nel loro ricettario numerosi piatti di pasta, in particolare timballi di maccheroni. Essendo piemontesi, creano la ricetta del timballo di taglierini alla monglas, che era una salsa francese.
Nel XIX secolo, nell’Italia risorgimentale e in Francia, dall’Impero alla Restaurazione, il timballo rappresenta l’apice della cucina italiana. Il cuoco francese Antonin Carême, si rifà intensamente ad essa. Tesse le lodi della pasta italiana, insuperabile, come qualità superiore, aspetto e tenuta di cottura. Molti sono i notabili che la consumano volentieri, come Dumas, Rossini e Grimond de la Reynière.

Pasta secca: pregiudizi al Nord e grande consumo al Sud

 

Pur essendo presente sin dagli inizi della storia della pasta, la variante secca, realizzata con grano duro, si è sviluppata in età più tarda, raggiungendo la sua piena affermazione, con lo sviluppo dei pastifici industriali nel XX secolo. La cucina oggi comprende le due varianti, secca e fresca, in un ampio ricettario che raccoglie preparazioni storiche e moderne.

Al contrario, nel XVII secolo, Guglielmino da Prato scrive un breve trattato di economia domestica dove critica largamente l’uso della pasta secca. Non è solo frutto dei pregiudizi dell’epoca, ma lui stesso la ritiene fatta di ingredienti popolari, con farine vecchie, per cui il suo consumo potrebbe essere indicato solo in periodi di grande carestia. Non è alimento per nobili (in particolare del Nord), i quali dovranno preferire di mangiare pasta fresca, appena fatta in famiglia. Tali pregiudizi, col tempo, divengono un luogo comune. Prodotta principalmente nelle regioni del Mezzogiorno, la pasta secca è ritenuta infatti alimento vile e popolare. Non stupisce se tali presupposti finiscono per creare il soprannome dei napoletani come “mangiamaccheroni”.

Vari formati di pasta secca.

Ma se nel XVII secolo, abbiamo cuochi che disprezzano la pasta secca, ne abbiamo altri che, nonostante i pregiudizi, inseriscono questo tipo di pasta nel menù del proprio signore. È il caso del cuoco Giovan Battista Crisci, che spazia nel campo della pasta prodotta nelle regioni meridionali, cucinando maccheroni di Puglia, maccheroni di Palermo e tagliarini di Cagliari, oltre che vermicelli napoletani. Tutti tipi di pasta detta “d’ingegno”, prodotta con torchio e trafila. Crisci è un cuoco innovatore, che non ha paura del futuro e confeziona i suoi “vermicelli d’amido”, simili alla pasta cinese. Tuttavia, non avendo ulteriori informazioni, se non da lui stesso, è difficile comprenderne la fattura.

Sta di fatto, che nello stesso secolo, abbiamo l’Italia gastronomica divisa in due. Mentre nel Meridione la pasta arriva sulle tavole della nobiltà napoletana, al Nord si è ancora ostici nei suoi confronti. Abbiamo, infatti, nel XVII secolo, Bartolomeo Stefani, cuoco del Nord, che sembra disconoscere la pasta, non solo quella secca, ma, addirittura quella ripiena. Al Sud, invece, Antonio Latini, contemporaneamente, porta in tavola un brodo di cappone con maccheroni di Cagliari ed una spolverata di parmigiano.

Al di là delle differenze nel XVII secolo, tra Nord e Sud dell’aristocrazia gastronomica, il consumo e la “sperimentazione” continuò a produrre sempre nuove ricette con la pasta, dando vita a quella prolifica fantasia in cucina che abbiamo ereditato dal passato. A Napoli, in particolare, si creano infinite rielaborazioni, culminate con l’invenzione di timballi e sartù. Questo ricco tesoro di esperienze e varietà di ricette, andò oltre i confini locali, conquistando ampi mercati e, di conseguenza, una serie di riscontri letterari anche all’estero, come è d’esempio la trattatistica gastronomica francese.

L’App Store – A 10 anni dall’invenzione verso un futuro di realtà aumentata

 

Fu lanciato il 10 luglio 2008 e aveva in catalogo solo 500 applicazioni; oggi l’App Store ha, invece, 500… milioni di visitatori a settimana e le applicazioni sono in crescita esponenziale per miglioni di novità. «Nel suo primo decennio, l’App Store ha superato le nostre più rosee aspettative – esulta Phil Schiller, senior vice president, Worldwide Marketing di Apple, in un post celebrativo pubblicato dalla casa di Cupertino in relazione al decennale – Dalle app innovative che gli sviluppatori hanno immaginato, al modo in cui i clienti hanno fatto delle app parte della loro vita quotidiana. E questo è solo l’inizio. Non potremmo essere più orgogliosi di ciò che gli sviluppatori hanno creato e di ciò che i prossimi 10 anni hanno in serbo». Benché sia stato “clonato” da Google e Microsoft, App Store vanta comunque il primato delle spese. Stando alle informazioni diffuse dalle rilevazioni più recenti i suoi frequentatori sono molto disponibili agli acquisti di applicazioni a pagamento rispetto a quelle piene di pubblicità e quelle inutili, come ad esempio le app diffuse dagli editori che chiaramente non offrono quotidiani e riviste gratis, come invece i loro annunci vogliono far credere. Su App Store si spende di più, quindi, e si è protetti dai virus di cui i concorrenti sono strapieni. Cosa riserva il futuro? La tecnologia ARKit apre nuove frontiere. L’acronimo sta per Kit di Realtà Aumentata, che offrirà contributi edificanti alla fantasia. Gli sviluppatori hanno in serbo sorprese per i propri utenti che potranno trovare sullo store di Apple non soltanto giochi interessanti. Apple si rivolge agli sviluppatori, annunciando il prossimo “iOS 12”, il sistema operativo mobile più avanzato al mondo, col quale produrre app ancora più penetranti. Sfrutteranno il potere dell’apprendimento automatico con Core ML 2 e Crea ML. Sarà possibile realizzare applicazioni di realtà aumentata multiplayer e incorporare oggetti del mondo reale con ARKit; utilizzare scorciatoie con Siri, e nuove API per fotocamere. Il mondo della tecnologia non si ferma e, a guardare il passato, viene da sorridere pensando al grande Steve Jobs che dovette essere convinto per dare l’ok a questa avventura senza fine delle app che hanno arricchito il negozio on line di iTunes.

 

L’APP STORE è uno strumento realizzato da Apple disponibile per iPhone, iPod touch e iPad che permette agli utenti di scaricare e acquistare applicazioni disponibili in iTunes Store. Le applicazioni possono essere sia gratuite che a pagamento, e possono essere scaricate direttamente dal dispositivo o su un computer. L’App Store è stato aperto il 10 luglio 2008 tramite un aggiornamento software di iTunes. Al 13 giugno 2016 sono disponibili in App Store più di 2.000.000 applicazioni sviluppate da terze parti, con oltre 130 miliardi di download. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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App Store. Tutto nuovo. Da tutti i punti di vista.

La pasta ripiena e i ravioli ignudi (senza pasta)


Giovanni del Turco, cuoco dilettante, del XVII secolo, cucinerà diversi piatti di tortelli e di ravioli, con un ripieno, molto delicato, che primeggia sulla pasta stessa. Nel servizio settimanale dei cuochi, sono presenti piatti di magro e piatti di carne, richiesti dalle scadenze liturgiche della cristianità. Il venerdì era segnato di magro, quindi con verdure e pesce, mentre negli altri giorni si consumava carne, accompagnata sempre da verdure. Al venerdì si potevano gustare ravioli ripieni semplicemente con formaggio fresco o crema di formaggio. Nei giorni di grasso le possibilità erano numerose. Per lo più si consumava carne di maiale, pollame e in particolare cappone.

Dipendendo dal ripieno, ravioli o tortelli potevano essere sia di magro che di grasso. Esistevano, quindi anche i tortelli di Quaresima, confezionati con crema di formaggio unito a verdure e spezie. Il loro uso, tuttavia, non era rigidamente legato alla Quaresima, ma si cucinavano in qualsiasi giorno dell’anno. Per i tortelli di grasso, invece, il ripieno era realizzato con carne di maiale o pollame vario. In ogni caso, il ripieno poteva essere anche molto elaborato. Tra le antiche ricette ve n’è una molto ricca, con carne di maiale, formaggio, uova, datteri, uvetta secca, erbe aromatiche, zafferano e spezie varie. Un’altra è invece è composta di zucca unita a mandorle e aggiunta di zucchero. In pratica, i moderni ravioli di zucca mantovani.
Così come il ripieno era aperto alla fantasia, ciò valeva anche per il formato. Su tale aspetto non esistono documenti che ne trattino in particolare. Sappiamo che esistevano diversi formati, ma cucinati fritti. Per quanto riguarda ad uso di pasta, mastro Martino nella sua opera, ne cita diversi, perlopiù sul tondo o quadrato. Accenna anche all’uso di stampi.

Ravioli ignudi

I RAVIOLI IGNUDI
Ravioli e tortelli dovevano presentarsi con una pasta molto fine, per migliorare il gusto del ripieno. Si arriva anche a soluzioni particolari, come con i Ravioli senza sfoglia, citati da Salimbene da Parma, nel XIII secolo. Erano sostanzialmente ravioli senza involucro. Venivano indicati dall’autore come “raffinatezza della golosità umana”. I cosiddetti ravioli “ignudi”, si ritrovano nei testi successivi di Martino, Scappi e Romoli. Dal Rinascimento in poi, vengono utilizzati nei ricettari regionali soprattutto dell’Italia del Nord, con diverse ricette e varianti. Divennero, soprattutto, ad uso della cucina romagnola. La loro fattura fu consacrata, nel XIX secolo, nel libro di Pellegrino Artusi, che dà alcune ricette ad “uso di Romagna”. Volendo, però, utilizzare un taglio prettamente regionale, Artusi cita solo i ravioli romagnoli, ignorando tutte le altre tradizioni regionali, che riportano essenzialmente pasta ripiena. In un lento ma progressivo andamento, la pasta ripiena ha avuto una diffusione sempre più larga, anche oltrepassando i confini nazionali, come dimostra il loro successo in Francia.

Oggi quando si parla di pasta ripiena, ravioli e tortellini sono quelli ad involucro. Il consumo attuale si rifà a pochi tipi di formati, desunti soprattutto dalla tradizione dell’Italia del Nord, nati tra il XVI e XVII secolo. In particolare, della Lombardia dove venivano indicati, nel linguaggio popolare, come “annolini”, da cui il nome di agnolotti. Tuttavia, l’utilizzo della pasta ripiena, molto diffusa nelle Corti italiane, perse la sua importanza lentamente, al contrario che nella cucina francese, ed in genere europea. In Italia fu “riscoperta” agli inizi del XX secolo. Alcuni cuochi borghesi rilanciarono il loro consumo. L’iniziativa ebbe successo e portò, a metà del secolo, alla riscoperta della sua preparazione regionale. Tanto che, nel suo testo, Luigino Bruni suddivide la pasta tra “ricette storiche” e “ricette d’autore”.

Viaggi transatlantici – La grande trasvolata del dirigibile britannico R34

 

 

Il 6 luglio 1919 l’Airship britannico R-34 atterra a New York, portando a termine la prima traversata dell’Oceano Atlantico su di un dirigibile. Per gli inglesi era conosciuto come “Tiny”, che tradotto significa “piccolo”, ma piccolo non lo era affatto. Le cronache dell’epoca dicono che fosse grande come una corazzata e lo paragonano alla “Dreadnought”, entrata in servizio della Royal Navy britannica nel 1906 e, come esprimeva il suo nome, non temeva nulla. Il “Tiny” aveva una lunghezza complessiva da prua a poppa di 643 piedi, il doppio di un campo di calcio. La ditta di William Beardmore and Company Ltd. di Inchinnan, vicino a Glasgow, iniziò la fabbricazione del modello R34 il 9 dicembre 1917 per completarlo in poco più di un anno. Ogni accortezza moderna era stata adottata, persino la verniciatura dell’intera struttura serviva a prevenire la corrosione atmosferica che la “nave” avrebbe incontrato sull’Atlantico. La cabina di controllo era fornita di vetri di sicurezza “Triplex”. Ognuno dei cinque motori era un “Maori” di Sunbeam: un nuovo modello progettato per la Wolverhampton da un francese, Louis Coatalen, e destinato esclusivamente all’uso dei dirigibili. Non era, però, un motore Rolls Royce poiché alla fine della guerra nessuno dei motori Rolls Royce era disponibile in quanto prodotti solo per essere installati sugli aerei militari. Anche se il dirigibile R34 fu progettato durante il periodo bellico, non fu mai equipaggiato con armamento completo. Avrebbe potuto montare un considerevole carico di bombe ed anche un armamento pesante destinato alla difesa contro gli Zeppelin tedeschi. Nelle pagine del blog in inglese è possibile scorrere una serie di informazioni tecniche e le diverse prove che precedettero il viaggio transatlantico. La sera del 17 giugno 1919, ad esempio, l’R34 fu fatto sollevare per una prova adeguata prima del volo principale. L’idea era di fargli esplorare le coste baltiche tedesche. La nave svolse egregiamente le sue funzioni e volò anche in Danimarca, Norvegia e Svezia. Atterrò secondo le previsioni la mattina del 20 giugno dopo un viaggio di 54 ore. Il ministero dell’Aeronautica prese così la decisione di portare l’R34 negli Stati Uniti, e fu prevista anche l’alternativa di una rotta costiera verso nord nel caso in cui la nave aerostatica avesse esaurito il carburante. Due navi da guerra, la Renown e la Tigre, avrebbero seguito il volo come mezzi da rifornimento nel caso in cui il dirigibile si fosse trovato in difficoltà, supportando la trasvolata con rapporti meteorologici. Fu concordato che se si fosse trovato in difficoltà, l’R34 sarebbe stato rimorchiato. I piani organizzati a New York consistevano nella fornitura di idrogeno. Inoltre, un gruppo di 8 aviatori esperti fu inviato in America per organizzare e addestrare il personale di terra americano.

Il 1 ° luglio 1919 il dirigibile fu gassato al limite e caricato a pieno regime, e a fine serata era pronto. L’ora di partenza ufficiale è stato fissato alle 2:00 (GMT) del 2 luglio. Le previsioni del tempo erano favorevoli e, con qualche anticipo, alle 1.42 del mattino (GMT) fu dato il segnale di rilascio. L’R34 si alzò lentamente verso il nebbioso cielo notturno. La vita a bordo nei giorni successivi si è svolta secondo il programma prefissato, così i pasti e i tempi di riposo concordati. L’intrattenimento dell’equipaggio era assicurato da varietà di musiche jazz, che potevano essere ascoltate dal grammofono di bordo. Il viaggio procedette a un ritmo costante e una routine standard. Sembra che si sia verificato un solo problema. Alle 14.00 del primo giorno si scoprì che un clandestino era riuscito a salire a bordo del dirigibile e a nascondersi nel magazzino. Il numero delle persone a bordo non doveva superare le trenta unità, per necessità di peso e d’ingombro. Nonostante le disposizioni, due ore prima del volo, William Ballantyne riuscì a nascondersi approfittando dell’oscurità. Era uno degli addetti che aveva lavorato a terra, tant’è che portò con sé anche la mascotte dell’equipaggio, un gattino tabby chiamato “Whoopsie”. Le condizioni anguste e l’odore del gas, molto forte nella zona del magazzino, fecero insorgere una forte nausea, cosicché Ballantyne fu costretto ad uscire dal nascondiglio. Fu portato di fronte allo stato maggiore, ma fu deciso che nulla si poteva fare al riguardo. I presenti convennero che se avessero sorvolato la terra ferma, Ballantyne sarebbe stato espulso fuori bordo con il paracadute; ma dal momento che il prossimo approdo sarebbe stato in America, non si poteva che trattenerlo a bordo. Ballantyne fu impegnato come cuoco e per quanto riguarda il secondo clandestino, il gattino Whoopsie, servì ad offrire ulteriormente svago e conforto ai membri dell’equipaggio. Con un tempo instabile la traversata proseguì fino in America. L’R34 atterrò alle 9.54 del mattino del 6 luglio, dopo 108 ore e 12 minuti di volo. Quando fu revisionato il serbatoio, si constatò che c’erano 140 litri di carburante, sufficienti solo per altre 2 ore di volo a potenza ridotta. Il dirigibile sostò in America per 3 giorni prima di intraprendere il volo di ritorno. Durante questo periodo, come è facile immaginare, i membri dell’equipaggio hanno partecipato a una numerosa serie di eventi acclamati per la traversata storica.

 

La mappa della rotta del dirigibile

 

 

LE TRAVERSATE TRANSATLANTICHE sono passaggi di persone e merci attraverso l’Oceano Atlantico tra l’America e l’Europa o l’Africa. I voli transatlantici superarono i viaggi a bordo dei transatlantici come modo predominante di attraversare l’atlantico nella metà del ventesimo secolo. Nel 1919 il Curtiss NC-4 divenne il primo aeroplano ad attraversare l’Atlantico seppur con più scali. Appena un anno dopo l’aereo inglese Vickers Vimy pilotato da Alcock e Brown fece il primo volo transatlantico senza scali da Terranova all’Irlanda. Sempre nel 1919 gli inglesi furono i primi ad attraversare l’Atlantico a bordo di un dirigibile. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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AIRSHIPSONLINE.COM

R34 – The Record Breaker

Adriano Olivetti – A Ivrea il personal computer prima di Steve Jobs

 

Adriano Olivetti

 

«Il sogno di Olivetti è fare di Ivrea la capitale della cultura industriale italiana. Un progetto in cui far confluire cristianità e umanesimo, le scienze sociali e l’arte, la tecnologia e la bellezza». Scrive così Aldo Cazzullo nell’articolo del Corriere della Sera che presentiamo nel FLIP di oggi per commentare la notizia che «Ivrea, la città ideale della rivoluzione industriale del Novecento, è il 54esimo sito Unesco italiano. Un riconoscimento che va a una concezione umanistica del lavoro propria di Adriano Olivetti». Questa volta a parlare è il Ministro dei beni e delle attività culturali, Alberto Bonisoli, che ha annunciato l’iscrizione di “Ivrea Città Industriale del XX Secolo” nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. La decisione è stata presa a a Manama in Bahrei durante i lavori del 42° Comitato del Patrimonio Mondiale, iniziati il 24 giugno e che termineranno il 4 luglio. Sin da ora Ivrea porta l’Italia in testa alla lista mondiale dei siti Unesco, organismo culturale dell’Onu: 54 sono quelli che rappresentano il nostro Paese, 52 quelli appartenenti alla Cina, 47 alla Spagna. Perché Ivrea? Con la fondazione della prestigiosa fabbrica di macchine per scrivere fondata nel 1908 da Camillo Olivetti, la città di Ivrea diviene un vero e proprio progetto industriale, sociale e culturale del XX secolo. Si sperimentano innovative idee sociali e architettoniche connesse a visionari processi industriali niente affatto scissi dal benessere della comunità locale. Questo spirito innovativo è colto nella sua essenza dalla scheda ufficiale che possiamo leggere per intero sulle pagine ufficiali dell’Unesco: «Il sito, che si trova in Piemonte e si estende per circa 72.000 ettari, è costituito da un insieme urbano e architettonico, di proprietà quasi esclusivamente privata, caratterizzato da 27 beni tra edifici e complessi architettonici, progettati dai più famosi architetti e urbanisti italiani del Novecento. Si tratta di edifici costruiti tra il 1930 ed il 1960 e destinati alla produzione, a servizi sociali e a scopi residenziali per i dipendenti dell’industria Olivetti. L’insieme rappresenta l’espressione materiale, straordinariamente efficace, di una visione moderna dei rapporti produttivi e si propone come un modello di città industriale che risponde al rapido evolversi dei processi di industrializzazione nei primi anni del ‘900».

CONTINUA A LEGGERE LA SCHEDA SUL SITO UFFICIALE DELL’UNESCO: Ivrea, città industriale del XX secolo
SFOGLIA LE FOTO SU LA REPUBBLICA: Nel museo a cielo aperto di Ivrea: ecco i tesori olivettiani candidati all’Unesco
SCOPRI: Programma 101 di Olivetti ha spalancato la strada alla rivoluzione del personal computer

 

ADRIANO OLIVETTI (Ivrea, 11 aprile 1901 – Aigle, 27 febbraio 1960) è stato un imprenditore, ingegnere e politico italiano, figlio di Camillo Olivetti (fondatore della Ing C. Olivetti & C, la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere) e Luisa Revel e fratello degli industriali Massimo Olivetti e Dino Olivetti. Uomo di grande e singolare rilievo nella storia italiana del secondo dopoguerra, si distinse per i suoi innovativi progetti industriali basati sul principio secondo cui il profitto aziendale deve essere reinvestito a beneficio della comunità. Per tutelare e promuovere la figura di Adriano Olivetti e il suo pensiero gli eredi hanno costituito nel 1962 la Fondazione Adriano Olivetti con sede a Roma e a Ivrea. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Ivrea patrimonio Unesco, tecnologia e umanesimo nella città ideale di Olivetti

Gusti e formati iniziali della pasta fresca

 

Lasagne con formaggio grattugiato sopra (e varie spezie), sono tra i primi piatti di pasta consumati nel primo medioevo. Una lavorazione, quindi, semplicissima, dove è la pasta ad essere l’ingrediente principale. È in pratica una sfoglia sottile, ritagliata in quadrotti regolari. Le lasagne, in un’altra ricetta, erano cotte nel brodo di cappone e poi servite con grasso dello stesso cappone e formaggio. Questi riquadri, in alternativa erano presentati in strati sovrapposti, con un ripieno di noci. Nell’impasto potevano essere aggiunte chiare d’uovo o acqua di rose. Già nell’antichità la pasta si lavorava o meno colorata con zafferano. L’usanza durò fino al XVII secolo. Questa tecnica, in seguito, verrà riscoperta nell’età industriale.
In Italia la tendenza, già in epoca antica, fu quella di creare sempre nuovi formati. Così verranno realizzati I croseti, simili alle orecchiette pugliesi, o le formentine, somiglianti alle tagliatelle, citate nel 1337 e un secolo dopo dal cuoco Martino. Venivano consumate a Reggio Emilia. Le formentine erano dette, anche, pancardelle dai mantovani, forse simili alle attuali pappardelle. Queste rientrano nel menù di Domenico Romoli, cuoco professionista, impiegato al “servizio di bocca” nelle corti cardinalizie di Roma. Tra le sue ricette erano presenti le pappardelle alla lepre di Grosseto e di Arezzo, o pappardelle alla romana.

Strozzapreti

Alla fine del XV secolo, si trovano i longeti avantazadi, mentre, nel secolo seguente, appaiono i famosi strozzapreti, divenuti poi tradizionali a Napoli. Il cuoco Scappi cucina diversi piatti con formati vari, ma realizzati questa volta con semola di grano duro. Le sue ricette, ma in genere nel corso dell’intero secolo, tendono al dolce, come gusto predominante nella cucina dell’epoca. All’impasto viene, infatti, aggiunta una grande quantità di zucchero. Negli stessi impasti prende piede di inserire numerose uova.
Il cuoco Antonio Latini (nel XVII secolo) confeziona tagliolini con due uova intere più 2 tuorli. L’abbondanza di uova regna in una ricetta di Francesco Chapusot. Realizza, infatti, delle tagliatelle con ben otto tuorli in una libbra di farina, a cui viene aggiunto formaggio grattugiato (un’oncia) e burro fresco (mezza oncia). Una specie di tagliarini alla piemontese. Successivamente, nel XVII secolo, nell’impasto viene pure aggiunto del latte.
Nel 1610, Vittorio Lancellotti, cuoco professionista, presenta, in un banchetto, delle sfoglie di pasta ottenute con farina, latte, burro, rossi d’uova e pinoli. Le lasagne venivano, quindi, cotte e servite con una spolverata di parmigiano grattugiato. La stessa lavorazione è realizzata da Giovanni del Turco, musicista e quindi cuoco amatoriale, con un impasto di farina, latte e acqua tiepida. Esegue una ricetta di maccheroni alla veneziana, dalla forma dissimile da lunghi nastri o quadrati di pasta, di cui abbiamo parlato. Il piatto era portato in tavola, con un condimento composto da burro fresco, parmigiano grattugiato, con in più un tocco di cannella.

Dipinti cubisti – Non assomigliavano a niente, ma con la guerra assomigliarono a tutto

 

Alighiero Boetti, Mimetico, 1966 mimetic fabric cm 170 X 270.

 

Tutti noi abbiamo sotto gli occhi le scene filmiche di schiere di fucilieri che si muovono sui campi di battaglia compatti ed allineati, quasi in parata. Attendiamo solo che i colpi dei mortai portino scompiglio nella compagine e, subito dopo, ecco l’assalto della cavalleria. Gli eserciti dell’una o dell’altra parte hanno divise dai colori sgargianti, ben distinguibili dal terreno verdeggiante delle colline. Armi lucenti al sole, copricapi audaci in quanto ad evidenza: pelo d’orso, piume d’aquila o di gallo cedrone, crini di cavallo. A differenza degli eserciti popolari raccogliticci e disomogenei, l’uniforme (lo dice la parola stessa) serve ad impressionare il nemico, serve a manifestare potenza bellica, ordine e disciplina tipica di chi è stato addestrato a scontrarsi, chi nel corpo a corpo non risparmierà di assestate colpi cruenti. L’uniforme moderna nasce nel secolo diciassettesimo, sotto la spinta necessaria di rendere immediatamente riconoscibili i nemici (pericolosi se avvistati all’ultimo minuto) dagli amici, e fra questi ultimi distinguere gli appartenenti al proprio corpo di truppa, dai quali nella mischia del combattimento all’arma bianca ci si potrebbe ritrovare isolati. Occorre sicuramente riconoscere i superiori, investiti dei vari gradi militari, da cui si attendono gli ordini opportuni che possono rendere salva la vita. Tutto questo nella confusione del combattimento e nella nebbia prodotta dalle schioppettate dei fucili. È un modo di pensare che arriverà fino alla prima guerra mondiale.

Le belle divise colorate attraggono le folle esultanti durante le sfilate, richiamano le nuove reclute all’arruolamento, e quando si avvicina la paura della battaglia riducono i tentativi di diserzione, poiché i renitenti si distinguono ad occhio nudo tra la gente. Ma la guerra di trincea cambia tutto e sotto i colpi di cannone della linea nemica occorre mascherarsi piuttosto che evidenziarsi. Le divise assomigliano sempre più alla terra fangosa e al verde umido della boscaglia. Ma non basta ancora, perché per sfuggire ai cecchini abituati a percepire il minimo sussulto necessita mimetizzarsi con l’ambiente circostante, camuffarsi nella natura, assumere il colore macchiato dei fogliami con le tonalità del paesaggio nel quale si combatte. Ecco dunque che l’uniforme “si uniforma” alle differenti gradazioni di nero, verde, kaki, marrone. Meglio se tutto questi colori si mischiano insieme, così alla tinta unita si preferiscono le chiazze della mimetica. Perché ora il rischio non proviene soltanto dal fuoco d’artiglieria nelle retrovie della trincea avversaria o dai colpi a ripetizione della mitragliatrice dal bunker posto su di una collinetta. Ora la morte, per la prima volta, viene anche dal cielo e le probabilità di essere colpiti da un biplano non sono remote.

La storia racconta che sono stati i francesi a svolgere il ruolo delle “avanguardie del camuffamento” militare durante la Grande Guerra e che si sono avvalsi degli impasti coloristici delle “avanguardie artistiche”. Nel 1915 personalità delle arti figurative sono, infatti, chiamate a fare parte della sezione speciale dei “camoufleurs”, sotto il comando di Lucien-Victor Guirand de Scevola. L’artigliere di seconda classe Lucien-Victor Guirand de Scévola aveva visto ridotte in polvere fior di postazioni a Metz. Così dal momento che da civile era uno dei pittori noti per avere esposto al “Salon des artistes français”, pensa di camuffare una postazione di cannone con una tela dipinta. In guerra i tempi sono strettissimi: Il 12 febbraio 1915 il generale Joffre fonda la “Section de Camouflage” di stanza ad Amiens. A maggio si piantano “alberi”, con periscopi all’interno, camuffati con vere cortecce, per l’osservazione dei movimenti di trincea durante la Battaglia di Artois. Alla fine dell’anno De Scévola riceve i gradi di comandante del Corpo di Camuffamento e comincia ad arruolare artisti, tanto che nel corso del 1917 la Francia ne assomma più di 3mila. Qualche nome? Jacques Villon, André Dunoyer de Segonzac, Charles Camoin e Charles Dufresne. Spennellano tutto quello che possono: veicoli e strutture. La tecnica si diffonde anche a navi e aerei. Il cubista André Mare è mandato a collaborare su vari fronti (anche quelli alleati inglesi e italiani), tanto da essere ferito da uno shrapnel in Piccardia, mentre monta uno dei suoi pali di osservazione considerati «invisibili».

Nella sua Autobiography of Alice B. Toklas, Gertrude Stein scrive che quando Picasso, dopo avere dato una soluzione per nascondere le ariglierie riconoscibili nelle perlustrazioni aeree, vede per la  prima  volta un cannone in camouflage mimetico, esclama: «C’est nous qui avons fait ça!», siamo stati noi a fare questo! E intendeva “noi cubisti”. Commentava il capitano-pittore De Scévola: «Allo scopo di deformare totalmente l’aspetto di un oggetto io dovevo utilizzare i mezzi che i cubisti invece usavano per rappresentarlo» e sottolineava quasi cinquant’anni dopo il critico d’arte Jean Paulhan, direttore della “Nouvelle Revue Française”: «Quei dipinti accusati di non assomigliare a niente, nel momento del pericolo furono i soli a essere capaci di assomigliare a tutto».

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IL CUBISMO è un’espressione con la quale si è soliti rappresentare una corrente artistica e culturale ben riconoscibile, distinta e fondante rispetto a molte altre correnti e movimenti che si sarebbero successivamente sviluppate. Tuttavia, il cubismo non è un movimento capeggiato da un fondatore e non ha una direzione unitaria. Il termine “cubismo” è occasionale: nel 1908 Henri Matisse osservando alcune opere di Braque, composte da “piccoli cubi” le giudicò negativamente, e Louis Vauxcelles l’anno dopo le chiamò “bizzarrie cubiste”. Da allora le opere di Picasso, Braque e altri pittori vennero denominate cubiste. Si può tuttavia individuare in Paul Cézanne, un pittore che nelle sue solitarie sperimentazioni è stato in grado di prefigurare quelli che saranno lo stile, la visione e le tematiche cubiste. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL CAMUFFAMENTO MILITARE si riferisce a qualsiasi metodo utilizzato per rendere meno rilevabili le forze militari alle forze nemiche. In pratica, è l’applicazione di colori e materiali utili a nascondere all’osservazione visiva (criptismo) o a far sembrare qualcos’altro (mimetismo) uniformi, mezzi e attrezzature militari. Il camuffamento militare venne utilizzato per la prima volta nei primi anni del 1800 dalle unità di cacciatori e fucilieri, che indossavano uniformi verdi o grigiastre per nascondersi al nemico. Prima di allora, gli eserciti tendevano a portare colori vivaci e audaci, per impressionare l’unità nemica, ma anche per agevolare l’identificazione delle unità militari nella nebbia prodotta dalla polvere da sparo dei fucili, per attrarre le nuove reclute, e per ridurre la diserzione. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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Il camouflage, l’arte della guerra secondo i cubisti