A Venezia, Inge Morath inedita – “Biografia di una fotografa” testo critico di Kurt Kaindl

Da sinistra a destra:
Inge Morath, Audrey Hepburn, Durango, Messico, 1958 ©Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos
Inge Morath, Venezia, 1955 ©Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos
Inge Morath, Venezia, 1955 ©Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos

INGE MORATH

Fotografare da Venezia in poi
Venezia, Museo di Palazzo Grimani

18 gennaio – 4 giugno 2023

Mostra a cura di Kurt Kaindle e Brigitte Blüml, con Valeria Finocchi.

Promossa dalla Direzione regionale Musei Veneto (direttore Daniele Ferrara) e Suasez in collaborazione con Fotohof, Salisburgo con il patrocinio e il sostegno del Forum Austriaco di Cultura di Milano

Basato su diverse interviste a Inge Morath, il testo di Kurt Kaindl – integrato e rivisto dall’autore – è stato pubblicato per la prima volta nel volume illustrato Inge Morath. Fotografien (Fotohof, Salisburgo 1992). Le citazioni dirette di Inge Morath sono riportate in corsivo.

Personalmente sono arrivata tardi alla fotografia

Con queste parole nel 1984 Inge Morath aprì una conferenza sulla sua carriera al Forum Stadtpark di Graz: all’inizio, infatti, tra i suoi numerosi interessi artistici, gli studi linguistici e la nascente attività di giornalista c’era poco che facesse pensare alla fotografia. Anche se aveva lavorato alla neonata agenzia Magnum a Parigi, non c’era quasi nulla che indicasse un suo lavoro fotografico personale. L’interesse per le immagini nacque solo dopo che si fu allontanata dal contatto quotidiano con i fotografi: all’improvviso il suo mondo fu pieno di immagini che aspettavano di essere catturate. Ripensando alle premesse del suo lavoro di fotografa, Inge Morath elencava più che altro attività di altro genere.

Imparare la lingua delle persone è sempre stato un passo importante verso la scoperta delle loro immagini interiori. Leggere e studiare le opere degli artisti che voglio fotografare costituisce per me una preparazione indispensabile. È un lavoro autoimposto che mi ha sempre arricchito.

Possiamo definire il lavoro fotografico di Inge Morath come un tentativo di creare un equilibrio tra la realtà esteriore di una persona o la rappresentazione di una società o di un ambiente, e la visione interiore di quella persona o società. 

La qualità delle fotografie di Inge Morath sta nella qualità del suo incontro con le persone, e l’una non può essere compresa senza comprendere l’altra.

Gli anni giovanili (1923-1945)

Inge Mörath nasce il 27 maggio 1923 a Graz, in Austria. I genitori, Edgar e Mathilde Mörath (l’umlaut tipico del tedesco si è “perso” da qualche parte nella sua carriera internazionale), sono scienziati che conducono una vita molto varia in diversi paesi europei. Inge nasce e viene battezzata nella fede protestante a Graz, ma genitori e bambina tornano subito a Friburgo in Brisgovia, dove il padre lavora come esperto della lavorazione del legno.

In seguito Inge Morath tornerà nella città natale solo per soggiorni più o meno lunghi; l’infanzia e altre fasi importanti della sua vita trascorrono altrove. Ciononostante è sempre tornata con piacere a Graz, dove vivevano i nonni e la madre. In ogni caso, la famiglia è originaria di Windischgraz, più a sud. Entrambi i genitori provengono da famiglie rinomate e benestanti: sindaci, medici, esponenti dell’alta borghesia.

In seguito, una buona parte della famiglia Morath vive a Graz, sicché Inge ha sempre una possibilità di soggiornarvi. È qui, durante le visite ai parenti e le vacanze estive, che si forma la sua impronta artistica. Il nonno, ad esempio, ha una poltrona fissa all’Opera, che all’epoca è un teatro rinomato, e Inge approfitta di ogni occasione per assistere alle rappresentazioni.

Un anno dopo Inge, a Friburgo, nasce un fratellino. La famiglia continua a spostarsi, seguendo i trasferimenti del padre nelle diverse sedi di lavoro: da Friburgo a Monaco e, successivamente, Eberswalde vicino a Berlino. I primi ricordi di Inge sono di Eberswalde, enormi cataste di legname in una segheria, dove i due bambini possono giocare liberamente. I frequenti spostamenti e l’atteggiamento aperto dei genitori permettono un’infanzia e una giovinezza libere e indipendenti. Prima che Inge abbia l’età per andare a scuola, la famiglia si trasferisce nuovamente, questa volta nella cittadina di Schirmeck vicino a Strasburgo, in Alsazia. Qui si formano altri ricordi d’infanzia: un romantico giardino francese, un’abitazione elegante ma poco pratica, le riviste Art Déco della madre e una casa aperta con tanti ospiti.

Mentre Inge impara lentamente il francese (a casa si parla tedesco), la famiglia trasloca ancora una volta e si stabilisce a Viches, sempre in Francia. Arriva il momento di andare a scuola e, in linea con l’approccio pragmatico dei genitori alla vita quotidiana, viene mandata senza molta preparazione alla più vicina scuola elementare francese. È un istituto retto da suore. I bambini indossano grembiuli neri abbottonati sulla schiena e scomodi stivali di pelle. In classe, i posti sono distribuiti in base all’“intelligenza”: i bambini considerati meno intelligenti nei banchi più avanti ed è qui che, per cominciare, viene messa Inge, che parla a malapena il francese. Prendendola come una sfida, scopre (o sviluppa) il suo talento per le lingue e nel corso dell’anno passa ai banchi più indietro. I suoi ricordi di questo periodo si fanno più vari: le immagini dei santi a scuola, la letteratura classica che i genitori leggono ai figli. Si rende conto degli scandali della piccola città, e il fratello può guardare di nascosto quando vengono ammazzati i maiali perché la figlia del macellaio si è invaghita di lui.

La famiglia si è appena sistemata a Viches che arriva il momento di un altro trasloco, questa volta di nuovo in Germania, nella città di Darmstadt. Inge è in seconda elementare, e a scuola si parla una lingua nuova. Anche questa volta inizia come l’ultima della classe, ma ormai ha imparato ad avere fiducia nelle sue capacità e, dopo due anni di scuola, parla due lingue. Alla scuola Rotenturm c’è poca sensibilità per i bambini; regole rigide e brutti voti prendono il posto della comprensione pedagogica. L’atteggiamento dei genitori nei confronti della scuola è ambivalente quanto pragmatico. Il padre è severo e considera uno studio assiduo e scrupoloso l’unica possibilità, mentre la madre è più indulgente, e ogni tanto porta i bambini in pasticceria. Nell’insieme, la famiglia continua ad avere una casa aperta e generosa. I numerosi ospiti, gli eventi sociali e le attività sportive dei genitori (scherma e volo a vela) offrono una vita di grande divertimento e varietà. Padre e madre lavorano presso un istituto di ricerca a Darmstadt, dove la famiglia rimane fino al 1938.

Le prime avvisaglie dell’avvento del nazionalsocialismo lasciano indifferente la sofisticata famiglia con amici e conoscenti in tutto il mondo. Come molti altri, i Morath sottovalutano il nuovo potere politico. Inge viene iscritta alla scuola delle suore protestanti e, subito dopo, alla scuola Victoria. Oltre allo studio, le sue attività principali sono le immersioni e andare a teatro.

Nel 1938 la famiglia torna a Berlino. Inge frequenta una scuola a indirizzo umanistico, adatta al suo talento per le lingue. Le vacanze vengono trascorse solitamente a Graz, dove trova l’unico collegamento con la fotografia dei suoi anni giovanili: il nonno lavora con una macchina fotografica di grande formato, e Inge ricorda sedute di posa interminabili e ritratti dall’aria imbalsamata in cui si riconosce a malapena. La sua educazione visiva si svolge principalmente nel campo dell’arte: la madre la porta spesso ai musei, e molti degli amici di famiglia possiedono quadri moderni.

La madre usa una macchina fotografica nel suo lavoro. È un’ingegnera chimica, lavora al microscopio e usa una Contax 35 mm per la documentazione. A Inge si apre un mondo di segreti e strutture cellulari che ricordano l’arte astratta. Con sua madre va a vedere la celebre mostra dell’“Arte Degenerata”, e la interpreta nel senso contrario alle sue intenzioni di denuncia. È un ultimo addio a una visione del mondo che ora è proibita.

A Berlino finisce le superiori e vorrebbe andare all’università per studiare lingue romanze e linguistica generale. Essendo troppo giovane per l’ammissione, deve prestare sei mesi di servizio sociale in un asilo infantile di una zona operaia di Berlino. È un lavoro duro, che mette alla prova le capacità di una ragazza della sua età senza alcuna esperienza. Finito il servizio sociale, prima che possa andare all’università le viene assegnato ancora un servizio obbligatorio di lavoro pubblico per giovani donne, che Inge svolge per altri sei mesi nel villaggio di Gross Borken, nella Prussia orientale. Concluso questo servizio tra la diffidenza dei contadini per la ragazza di città e l’antipatia della responsabile del campo per una coetanea sofisticata e disinteressata alla politica, può finalmente cominciare i suoi studi. Nel corso della formazione universitaria ha l’opportunità di trascorrere diversi mesi a Bucarest, in Romania, dove non partecipa alle attività dell’associazione studentesca nazionalsocialista.

Al suo ritorno a Berlino, i segni di decadenza del Terzo Reich sono inequivocabili e minacciosi. Inge viene interrogata per la mancata partecipazione alle attività degli studenti tedeschi a Bucarest, ma riesce a salvarsi con una certa ingenuità. Continua a studiare assiduamente tra le incursioni aeree, fino a quando la casa berlinese della famiglia viene colpita e i genitori si trasferiscono a Salisburgo. Il fratello è stato catturato dagli inglesi nei primi giorni di guerra, e i genitori non sanno se sia ancora in vita; tre giovani cugini ai quali Inge era legata a Graz sono già stati uccisi. Verso la fine della guerra, per la famiglia è quasi impossibile mantenere i contatti.

Dopo aver superato l’esame di stato, Inge non ottiene l’autorizzazione a proseguire gli studi e viene arruolata a lavorare in una fabbrica essenziale per lo sforzo bellico a Berlino Tempelhof. Le operaie sono per la maggior parte prigioniere di guerra, specialmente ucraine. La fabbrica viene regolarmente bombardata. Verso la fine della guerra la situazione si fa sempre più caotica, ed è facile capire che quell’importante obiettivo lascia scarse possibilità di sopravvivenza. Nella confusione di un bombardamento, mentre le operaie si precipitano fuori in cerca di un riparo, Inge fugge dalla fabbrica. Senza documenti, si unisce alla marcia degli sfollati diretti a sud, a Salisburgo.

Giornalista in Austria (1946-1949)

Per Inge, come per tanti altri compagni di sventura, la fuga a Salisburgo è un calvario. Non ricorda quanto durò il viaggio; stremata nel corpo e nello spirito, raggiunge finalmente la meta, la stazione ferroviaria di Salisburgo. Pur essendo già stata nella nuova casa dei genitori, ora non riesce a ricordare l’indirizzo. Un reduce invalido con una gamba sola si prende cura della giovane donna disperata e la aiuta a setacciare la città. L’eterogenea coppia passa molto tempo a chiedere informazioni. Quando finalmente Inge viene accolta dai suoi genitori, nell’eccitazione del momento l’uomo che l’ha aiutata sparisce senza nemmeno un saluto. Di lui rimane solo un ricordo. Dopo diverse settimane di cure, bisogna tornare ad affrontare le necessità e i problemi della vita quotidiana del dopoguerra. Il padre legge un annuncio economico che cerca traduttori per i servizi di informazione degli Stati Uniti; i testi dell’Agenzia di stampa americana devono essere integrati nella stampa austriaca da poco organizzata. Anche se Inge non è realmente pronta per lavorare ed è intenzionata a proseguire gli studi nel campo della filosofia, e pur vedendo poche possibilità di ottenere il lavoro per la scarsa padronanza dell’inglese, nel 1945 presenta la sua candidatura a Salisburgo. Grazie alle sue straordinarie capacità linguistiche generali, riesce a ricavare un buon pezzo dal testo che le viene sottoposto e ottiene il posto. Nell’Austria del dopoguerra, lavorare per le forze di occupazione americane è una posizione privilegiata, che dà a Inge l’opportunità di familiarizzare con lo stile giornalistico di “Life”. Il suo interesse per il teatro e la conoscenza dell’arte si dimostrano molto utili, tanto che presto comincia a scrivere degli articoli invece di tradurre. Nel 1946, quando i servizi di informazione degli Stati Uniti trasferiscono la sezione servizi speciali da Salisburgo alla sede del “Kurier” a Vienna, si apre un campo enorme di nuove attività e Inge comincia a lavorare anche per altri mezzi di comunicazione; tra le altre cose, scrive testi letterari e radiodrammi per la neonata emittente “Rot-Weiss-Rot”.

A Vienna la vita quotidiana è ancora caratterizzata da strategie di sopravvivenza e spazi vitali ristretti. Inge Morath porta da Salisburgo un chilo di sale, un prodotto raro che spera di rivendere con profitto. Prima che si trasferisca in un appartamento in comune, la sezione servizi speciali la sistema con una collega nella casa di un ex pezzo grosso nazista. La padrona di casa, con la quale devono condividere la stanza da bagno, considera un’intrusione la presenza delle due inquiline, creando una cattiva atmosfera in casa. Pur essendo condizioni di vita più che modeste, in confronto al passato sembrano splendide.

La Vienna del dopoguerra è piena di animazione e voglia di ricominciare, le opportunità sembrano illimitate. Il lavoro per la stampa americana permette a Inge Morath di valutare criticamente le informazioni che arrivano nel paese, fino a quel momento isolato. Lei stessa entra a far parte della vita culturale e intellettuale della città. La casa editrice viennese Amadeus lancia “Der Optimist”, rivista critica ma dalla vita breve, per la quale lavora come redattrice all’inizio del 1948. Uno dei suoi colleghi è Hans Weigel. In questo ambiente culturalmente stimolante conosce altri scrittori, come Ingeborg Bachmann e Ilse Aichinger, intellettuali come il filosofo Arnold Keyserling, e i fondatori del Forum Alpbach, Otto e Fritz Molden. Di quel gruppo fanno parte pittori, come Wolfgang Hutter, Ernst Fuchs e Hilde Polsterer, oltre a personalità del teatro, tra cui il drammaturgo Alfred Ibach o Rudolf Steinböck, direttore del Theater in der Josefstadt.

Il prossimo passo importante nella vita di Inge Morath è di nuovo legato al suo datore di lavoro americano, la sezione servizi speciali, che, su richiesta di Monaco, la segnala come redattrice iconografica a Vienna per la rivista “Heute” anche se finora non ha avuto niente a che fare con la fotografia. Anche questa volta non si aspetta di ottenere il lavoro, ma va ugualmente a sostenere il colloquio con Warren Trabant, caporedattore di “Heute” a Vienna.

Gli dissi subito che non avevo la minima idea di fotografia, ma che sarei stata lieta di rispondere alle sue domande. Mi mise davanti sul tavolo un mucchio di fotografie, almeno un centinaio, e disse: “Le separi, da una parte quelle che le piacciono e dall’altra quelle che non le piacciono”. Be’, ho l’occhio pronto, e così le separai. Poi mi chiese di motivare due o tre delle mie scelte. Risposi che mi piaceva la composizione. Avevo veramente più familiarità con la pittura.

Così ebbi il posto e diventai la redattrice iconografica di “Heute” a Vienna. Avevo un piccolo ufficio dietro all’Hotel Sacher. Cominciai a lavorare, ma non sapevo come trovare i fotografi. Ce n’era già qualcuno, e loro sapevano che dovevano mandarmi delle fotografie, ma io non ero proprio entusiasta di quello che mi arrivava.

Così, dal marzo del 1948 Inge lavora per questa importante rivista pubblicata dal governo militare americano e con sede a Monaco. Nella sua ricerca di fotografie interessanti, attraverso l’attrice Erni Mangold incontra il fotografo Ernst Haas, amico di Erni. I modi anticonformisti di Haas, il suo entusiasmo per la fotografia e le sue immagini d’impegno sociale che ritraggono i poveri nella zona della cattedrale di Santo Stefano destano l’interesse di Inge. I due decidono di lavorare a progetti comuni. Inizialmente realizzano i classici pezzi da rivista, ad esempio uno sulla Stille-Nacht-Kapelle nei dintorni di Salisburgo. Nello stesso tempo Ernst Haas avvia una serie sui prigionieri di guerra che tornavano dalla Russia e sulle mogli in speranzosa attesa. Durante una visita agli uffici di “Heute” a Monaco, la serie viene mostrata al caporedattore. Questi ne riconosce subito la qualità straordinaria e, nell’agosto del 1949, la farà pubblicare su diverse pagine, con il titolo E le donne aspettano... La segnala anche a Robert Capa, direttore e organizzatore dell’agenzia fotografica Magnum da poco fondata a Parigi. Capa passa subito all’azione e invita la squadra immagini-testi a lavorare per l’agenzia a Parigi. Inge Morath e Ernst Haas non hanno neppure un attimo di esitazione: accettano immediatamente l’invito, e nel luglio del 1949 salgono sul treno per Parigi.

Pur essendo stata istituita formalmente a New York nella primavera del 1947, all’inizio la Magnum concentrò la sua attenzione su Parigi. La Magnum è una cooperativa di fotografi di vari paesi, che si propone di recuperare l’etica e lo spirito della fotografia dopo che gli abusi della propaganda hanno gravemente compromesso l’immagine della professione. Sin dai suoi esordi attribuisce un ruolo di primo piano a un giornalismo illuminato e alle finalità artistiche. L’organizzazione cooperativa lascia al singolo fotografo la responsabilità personale. L’idea è stata di Robert Capa, ungherese di nascita, che è riuscito a ottenere la collaborazione dei suoi amici di prima della guerra. All’inizio, questi erano Henri Cartier-Bresson, George Rodger, William Vandivert e David Seymour; la figura di Robert Capa assicurava forti legami personali e una visione comune a un gruppo di individualisti. Nel suo articolo Incontro con la Magnum, Inge Morath racconta il passo decisivo segnato dalla collaborazione con la Magnum come ricercatrice e scrittrice, e il modo in cui trovò la sua personale strada alla fotografia.

Prime esperienze con la fotografia (1949-1953)

A Parigi, la Magnum e il suo campo di attività – preparare l’incarico, accompagnare il fotografo e valutare il materiale che invia a Parigi – rappresentano un’ottima introduzione al lavoro quotidiano in un’agenzia fotografica. Inge Morath non si vede come fotografa, tutt’altro: la presenza soverchiante degli altri soci soffoca il solo pensiero. Dall’altra parte, acquisisce grandi competenze, come valutare i provini a contatto di Henri Cartier-Bresson. Cartier-Bresson, con il quale collabora in diverse occasioni, ha detto in un’intervista: “Un provino a contatto è molto interessante, perché fa vedere come pensa il fotografo. Si avvicina sempre di più al soggetto, lo corregge, lo guarda di nuovo e poi, con movimenti piccolissimi, gli gira intorno fino a trovarsi esattamente nella relazione giusta e appropriata con esso”1.

È curioso che Inge non cominci a sentire la mancanza della fotografia fino a quando non si trova più in mezzo a fotografi. Dopo le nozze con il giornalista inglese Lionel Birch, avvenute a Londra nel 1951, si confronta con la quotidianità del matrimonio, che la lascia quasi del tutto inattiva, in contrasto stridente con la vita che aveva condotto fino a quel momento. A Londra, lontana dalla Magnum, comincia a vedere le immagini e a sentire il bisogno di catturarle, mentre cerca di motivare i colleghi dell’agenzia a fare dei servizi in Gran Bretagna.

Poi feci un viaggio a Venezia con LioneI Birch. Come sempre mi limitavo a trascinarmi dietro la macchina fotografica che mia madre mi aveva regalato anni prima, e come sempre non la usavo mai. Era l’autunno del 1951. La luce era bellissima, la pioggia aveva ricoperto ogni cosa come con un vetro. Chiamai Capa e gli proposi di mandare qualcuno a fare delle fotografie. Capa mi fece energicamente notare quanto quell’idea fosse impraticabile e disse: “Perché non fai tu una fotografia?”. Così andai in un negozio, comprai una pellicola e mi feci caricare la macchina. Il commesso mi consigliò di non fare fotografie con quel tempo. Ma io la sapevo più lunga: si possono fare fotografie anche con il cattivo tempo – non per niente ero stata a guardarli tutti mentre lo facevano, al lavoro. Sulla confezione della pellicola era scritto qualcosa sul cielo nuvoloso: tempo di esposizione 1/50 con focale 4. Poi guardo l’ora, trovo il punto preciso per la prima fotografia e per aspettare che passino esattamente le persone giuste nel posto giusto. Avevo appena cominciato a premere il pulsante, che all’improvviso mi resi conto che per me quello era il modo perfetto di esprimere ciò che avevo dentro. Dovevo cominciare a fare fotografie.

Il ghiaccio era rotto. Tornata a Londra, cerca di dare una base solida alla sua abilità fotografica. Considerate le sue capacità del momento, una collaborazione con la Magnum sembra ancora fuori portata, così si guarda intorno in cerca di opportunità formative. A Londra Simon Guttmann, il fondatore della leggendaria agenzia Dephot nella Germania prebellica, dirige una piccola agenzia fotografica e lavora come consulente per la rivista “Picture Post”. Il marito la mette in contatto con Guttmann e, quando questi vede le fotografie di Venezia, le offre un posto di apprendista: scrive le sue lettere, impara a lavorare in camera oscura e realizza piccoli lavori fotografici. In quel periodo Inge compra una Leica di seconda mano, la classica macchina del reporter. Le condizioni di lavoro sono avventurose: il minuscolo appartamenti di Simon Guttmann funge anche da ufficio. La camera oscura mal riscaldata è usata in comune con altri fotografi, che ogni tanto le danno qualche dritta tecnica, mentre lei lavora per lo più per tentativi. Ma quelle condizioni, che altri troverebbero inaccettabili, le vanno benissimo. Apprezza Guttmann, battitore libero eccentrico ma geniale, e sa imparare da lui. Per Inge Morath, la sfida intellettuale è una motivazione più forte di un’introduzione tecnica al lavoro in camera oscura.

Un giorno dissi: “Simon, come potrò mai imparare qualcosa? Tutto quello che fai è dettarmi lettere.” E lui rispose: “Ascolta quello che si dice nelle lettere, parlano tutte di fotografia. Come vedere le fotografie, come accostarsi a un soggetto, come prepararsi a un soggetto”. Era vero. È facile imparare l’aspetto pratico, ma ciò che conta è capire come si costruisce una storia, come si selezionano le immagini, vedere come le cose sono in relazione tra loro nell’inquadratura.

Dopo più di un anno, Guttmann ritiene di averle insegnato abbastanza e glielo dice. Le affida un ultimo incarico, un servizio sulla visita di Edoardo VIII a Parigi, poi Inge è di nuovo sola.

Nel 1953 accompagna il marito a Parigi e cerca di tornare a stabilirvisi, questa volta come fotografa. Tornare subito alla sua vecchia agenzia le sembra prematuro: non vuole essere accettata come ex impiegata, preferisce convincere con il suo nuovo lavoro fotografico. Quando il marito torna a Londra, Inge si sistema in un piccolo albergo e inizia un fotoservizio sui preti operai, un movimento popolare di sacerdoti che lavorano in fabbrica, con il consenso del loro ordine, per poter essere più vicini ai fedeli. Trova una rivista cattolica interessata al reportage e disposta ad assicurarne la pubblicazione, ottiene l’autorizzazione dell’abate e per diversi mesi accompagna i preti al lavoro e nello svolgimento del loro ministero. Il fotoprogetto offre uno spaccato su molti aspetti interessanti della vita, ma pone anche problemi tecnici non previsti. Quando il reportage è pronto per essere pubblicato, Inge Morath ha praticamente esaurito le sue risorse economiche.

Collaborazione con la Magnum come fotografa (dal 1953)

Finalmente porta le fotografie del reportage alla Magnum e le mostra a Robert Capa; gli dice di esserne l’autrice solo dopo che questi ha espresso la sua approvazione. Capa la accetta nell’agenzia come socia potenziale.

I primi incarichi che riceve alla Magnum sono le fotografie dei giurati di una mostra di rose al Parc de Bagatelle e, dopo poco, lavori più impegnativi come le fotografie di scena del film di John Huston Moulin Rouge, a Londra, per conto di Capa. Naturalmente un set cinematografico è sempre disseminato di ostacoli, e Inge deve farsi bastare tre rulli di pellicola a colori, materiale che all’epoca scarseggia; ma quando “Life” pubblica una doppia pagina, Capa è molto soddisfatto. Per Inge Morath quell’incarico non è solo una pietra miliare della sua carriera ma anche l’inizio dell’amicizia di tutta la vita con John Huston, con il quale in futuro collaborerà più volte. Instaurare rapporti personali con i soggetti che ritrae è una delle sue qualità speciali.

L’incarico successivo arriva da “Holiday Magazine”: una serie sui quartieri londinesi di Soho e Mayfair. Nel corso di quel lavoro Inge scatta la fotografia di Eveleigh Nash mentre fa un giro in automobile sul Buckingham Palace Mall. Quell’immagine la rende subito famosa: una volta l’ha definita la sua “sigla musicale”.

Nell’arco di un anno la vita di Inge Morath è venuta a trovarsi completamente sotto il segno della fotografia. Ha trovato il suo mezzo di espressione artistica. La Magnum, ancora una piccola agenzia, un gruppo di fotografi entusiasti che uniscono una sfrenata joie de vivre al senso di responsabilità di una generazione che ha vissuto la follia di una guerra mondiale, le offre un ambiente ideale per la sua crescita come fotografa. Lo spirito pionieristico della prima ora tiene unito il gruppo e permette ai suoi membri di operare con successo nel potente mondo della stampa internazionale. Robert Capa, figura resa leggendaria dalla guerra civile spagnola e dallo sbarco delle truppe alleate in Normandia, ha un gran numero di contatti e raccoglie la maggior parte degli incarichi. Per Inge Morath, Capa è un punto di riferimento importante nella sua crescita artistica e personale.

Lavorare con lui è stato un grande privilegio; il suo spirito e i suoi meriti di fotografo esercitano tuttora una profonda influenza. Costruendo su quelle fondamenta, era facile proseguire per la propria strada, che prima o poi ognuno doveva affrontare da solo. La fotografia è fondamentalmente una questione personale, una ricerca di verità interiore.

Un’altra collaborazione di lunga durata e con grandi opportunità di crescita è quella con Henri Cartier-Bresson, che nel 1954 Inge accompagna nelle sue trasferte. Uno dei luoghi che visitano insieme è Amburgo. Inge fa per lo più le fotografie a colori, perché Cartier-Bresson vuole concentrarsi sul bianco e nero. Quei viaggi offrono ampie opportunità di confronto sull’arte, che è un profondo interesse per entrambi, e a Inge Morath danno l’occasione di osservare Cartier-Bresson all’opera. Cita spesso la personale filosofia di Cartier-Bresson, secondo la quale un fotografo guarda nel mirino con un occhio ben aperto per scattare le sue fotografie, mentre l’altro occhio è chiuso per guardare nella sua anima. Questa duplice visione, esterna e interiore, che per realizzare una fotografia perfetta deve essere perfettamente bilanciata, diventa l’idea alla base del lavoro di Inge Morath. Con Cartier-Bresson, che si è sempre considerato un artista dallo spirito surrealista, condivide anche l’interesse per le situazioni surrealiste. Come con altri soci della Magnum, il terreno comune tra lei e Cartier-Bresson non è un credo fotografico ma un orientamento artistico condiviso e un confronto continuo sulle condizioni sociali della fotografia giornalistica.

Nel 1954 Inge Morath ha già cominciato a viaggiare molto come fotogiornalista. Fotografa in Irlanda, in particolare alla Puck Fair di Killorglin; lavora a Parigi e in Italia e, finalmente, riceve da Robert Capa un incarico che la porta in Spagna. Dovrà incontrare l’avvocata Mercedes Formica, che, nello stato repressivo di Franco, si batte per i diritti delle donne, in particolare il diritto al divorzio. Di nuovo, come durante la realizzazione delle fotografie di scena per Moulin Rouge, nascono presto amicizia e sostegno reciproco. Mercedes Formica offre una prospettiva speciale sulla Spagna, e Inge Morath scopre il suo amore per il paese. Dopo aver portato a termine l’incarico, si ferma altre tre settimane per realizzare delle fotografie per conto suo.

Fare un lavoro per il proprio interesse, senza un incarico specifico o una garanzia di pubblicazione, è il tipico atteggiamento dei fotografi Magnum. Naturalmente Inge Morath pensa di pubblicare una serie in una rivista, prima o poi, e compone il reportage con quell’obiettivo in mente. Nello stesso tempo, questo modo di lavorare le dà la libertà di scegliere i suoi argomenti, di mantenersi aperta a nuovi sviluppi e possibilità e di “rimanere in fondo al cuore una dilettante”, come ha detto una volta. Le condizioni economiche e la struttura della Magnum permettono questo tipo di approccio: le basta far sapere a Robert Capa, a Parigi, che rimarrà tre settimane in Spagna per conto suo. A quei tempi il compenso per un solo reportage basta a vivere modestamente per due o tre mesi.

Nel frattempo il primo reportage sulla Spagna di Inge Morath viene pubblicato da “Holiday Magazine”. Contributi simili vengono pubblicati anche in altri periodici, e presto le valgono una certa reputazione. Attraverso la rivista culturale “L’Œil”, Inge riceve incarichi per ritratti di artisti. Robert Delpire, rinomato editore di libri fotografici, la nota. Insieme, iniziano a lavorare a un libro fotografico su Pamplona. Questo progetto, unitamente all’incarico di fotografare la sorella di Pablo Picasso a Barcellona, le offre l’opportunità di un nuovo viaggio in Spagna. Grazie all’abilità pratica e alla sensibilità di Inge, il ritratto della sorella di Picasso viene realizzato nella maniera più bizzarra e in condizioni avverse. Le fotografie vengono pubblicate su “Life” e altre riviste, e sono tra i suoi lavori più pubblicati fino a oggi.

Un libro su Pamplona intitolato Guerre à la tristesse, viene pubblicato nel 1955 in coproduzione con Robert Delpire. È un reportage di viaggio soggettivo, con evidenti tratti surrealisti che mostrano la sensibilità di Inge Morath e il suo amore per il popolo spagnolo. Nel 1956 il volume esce a Londra e New York con il titolo Fiesta in Pamplona; nel 1957 segue una versione giapponese.

A questo punto, oltre ai numerosi reportage esiste un’ampia produzione di Inge Morath che testimonia la sua scrittura e la sua personale concezione dell’immagine. Nel 1955 Inge ha visitato anche l’Austria, il Sudafrica e, insieme a Mary McCarthy, ha lavorato a un libro su Venezia (il volume, che contiene anche diverse fotografie a colori, verrà pubblicato nel 1956 con il titolo Venice Observed). Nello stesso anno diventa socia della Magnum a tutti gli effetti. L’assemblea generale annuale accetta un fotografo come socio a pieno titolo in base alla qualità del suo lavoro e per il suo carattere.

Benché la Magnum si sia sempre considerata come un punto d’incontro per fotografi indipendenti, non si può fare a meno di notare le profonde influenze reciproche e il senso di unità del gruppo, e il controllo che la cooperativa esercita su determinate posizioni artistiche e commerciali. Mi sembra opportuno dare uno sguardo a questo aspetto relativamente alla carriera fotografica di Inge Morath.

Malgrado la fama e le sue attività internazionali, la Magnum rimane un piccolo gruppo fortemente connotato dalla personalità di Robert Capa. Fino al 1955 sono stati accettati come soci solo Werner Bischof, Ernst Haas, Dennis Stock, Eve Arnold, Erich Hartmann, Elliott Erwitt e Cornell Capa. Anche se il gruppo rimane profondamente scosso dalla morte di Robert Capa, ucciso da una mina in Indocina nel 1954, e di Werner Bischof, perito in un incidente d’auto sulle Ande, la filosofia di fondo dell’agenzia come cooperativa gestita dai fotografi stessi, con tutti i suoi punti di forza e di debolezza, rimane immutata – e così il duplice orientamento dei fotografi verso la fotografia giornalistica e d’arte.

La Magnum è caratterizzata da questa presenza simultanea sul libero mercato dei servizi giornalistici e nei musei d’arte. Alla metà degli anni cinquanta, il pubblico apprezzamento del tipo di fotografia giornalistica rappresentato dalla Magnum giunge al culmine dal punto di vista sia artistico, sia commerciale. Ci sono ancora tutte le grandi riviste come acquirenti e distributori ideali e, dopo il trauma della seconda guerra mondiale, c’è un clima generale illuminato, un desiderio di creare un mondo migliore (anche se la guerra fredda incipiente comincia a incrinare queste illusioni). Nel 1955 si inaugura The Family of Man, una mostra curata da Edward Steichen al Museum of Modem Art di New York, che successivamente viene presentata in molti paesi del mondo. The Family of Man è ricordata spesso come la mostra fotografica con il numero di visitatori più alto di tutti i tempi, e certamente esercita un’enorme influenza e ispira a lungo un’intera generazione di fotografi in tutto il mondo. La mostra è formata principalmente da fotografie giornalistiche e documentari sociali. Contenuto artistico delle fotografie a parte, l’umanità vi è presentata inequivocabilmente come una famiglia. Oltre alle fotografie degli archivi di “Life”, la maggior parte delle opere esposte è costituita da immagini dei fotografi Magnum, i quali si trovano ora nella condizione di imporre degli standard che finora sembravano quasi impossibili nella fotografia giornalistica, considerata di second’ordine rispetto al giornalismo scritto. Henri Carrier-Bresson, ad esempio, esige che le fotografie siano pubblicate non rifilate e tenendo conto del loro contesto visivo.

Fino alla fine degli anni cinquanta la vita di Inge Morath è riempita da lunghi e frequenti viaggi, che lei vede come una preparazione ai grandi reportage. Al centro del suo lavoro stavano i ritratti e la descrizione delle grandi culture mondiali; vi sono stati volumi dedicati a diversi paesi, mentre i contributi a riviste su temi di attualità sono stati sporadici. Ha in mente di ritrarre le grandi culture madri della terra e le principali vie commerciali che le collegano tra loro. I suoi progetti per il futuro prevedono l’India, la Cina, gli influssi spagnoli in America Latina, la famosa via della Seta e il corso del Danubio, ma ottenere commissioni di questo genere dalle riviste sta diventando sempre più difficile, e così le sue idee si potranno realizzare solo a piccoli passi.

Nel 1956 Inge riesce a convincere “Holiday Magazine” a finanziare un viaggio in Iran, un ambito culturale che rappresenta un elemento importante del suo progetto sulla via della Seta. Riesce persino a destare l’interesse di Robert Delpire, che la accompagna per una parte del viaggio. Per il resto – la maggior parte – viaggia da sola, ogni tanto con un autista, passando le notti in antiche rovine perché non ci sono alberghi. Come sempre è ben preparata, si impegna ad adattarsi ai costumi e al modo di vestire del paese e a imparare le lingue locali, che considera un importante approccio alla rispettiva cultura. Il cammino la porta dall’Iran all’Iraq, fino alla Sira e alla Giordania. Ancora una volta il budget impone uno stile di vita spartano per tutta la durata del lungo viaggio.

Nel 1957 e nel 1958 Inge fotografa lungo il Danubio. Nel corso di questo lavoro torna a visitare la Romania, dove ha studiato la lingua durante la guerra. Poiché in tempi di guerra fredda qualsiasi riferimento alla Magnum, un’agenzia rinomata per la sua informazione critica, porterebbe più danni che vantaggi, deve lavorare per conto suo senza nessun tipo di copertura. “Paris Match” pubblica un servizio di diverse pagine sulla regione danubiana; tuttavia, poiché non è stato possibile visitare tutti i paesi bagnati dal fiume, non viene realizzato nessun volume. Comincia a fotografare il Messico nel contesto della sfera d’influenza spagnola in un primo viaggio nel 1959 e poi, più intensamente, nel 1960. Negli stessi anni riceve degli incarichi in Tunisia, dove continua a lavorare a un libro per Robert Delpire. Si alternano viaggi in Austria, Italia, Cecoslovacchia, Germania e Stati Uniti. In quel periodo vengono pubblicati diversi volumi, frutto del suo lavoro di ricerca: Venice Observed, De la Perse à l’Iran e Tunisie.

Tra tutti questi progetti si colloca un incarico di tutt’altro genere: nel 1959 Inge accompagna Yul Brynner in Germania, Austria e Gaza, in un viaggio che si propone di attirare l’attenzione sulla condizione dei profughi, specialmente i bambini, che dopo la guerra non hanno ancora trovato una casa. Sono affiancati da una troupe televisiva della CBS. Un reportage su questo viaggio viene pubblicato in un volume intitolato Bring Forth the Children: A Journey to the Forgotten People of Europe and the Middle East (McGraw-Hill, New York, 1960).

Dall’Europa agli Stati Uniti (dal 1960)

Dopo la visita del 1956, New York diventa un frequente punto di partenza per il lavoro di Inge Morath, uno sviluppo parallelo ai cambiamenti in atto nella Magnum. L’atmosfera aperta, multiculturale e intellettualmente stimolante di Parigi si sta dissolvendo, mentre migliori condizioni commerciali per la fotografia negli Stati Uniti e il numero crescente di americani tra i fotografi soci della Magnum danno sempre più importanza alla sede di New York. Negli anni sessanta alcune delle grandi riviste cominciano a trovarsi in difficoltà economiche, e l’agenzia cerca nuovi clienti nel mondo dell’industria. Le grandi aziende, ad esempio, hanno bisogno di servizi per le loro relazioni annuali. Nello stesso tempo aumenta la competizione televisiva, e per i fotografi è sempre più difficile far arrivare in tempo utile alla stampa il loro materiale d’attualità. Nel 1966 l’ultimo socio fondatore della Magnum, Henri Cartier-Bresson, conclude la sua partecipazione attiva, lasciando all’agenzia i suoi archivi, a testimonianza dei cambiamenti che questa e i suoi soci hanno subito nel corso del decennio.

Verso la fine degli anni cinquanta, Inge Morath lavora spesso per produzioni cinematografiche statunitensi, un’occasione di sopravvivenza economica per lei e altri collaboratori della Magnum. Nel 1960-1961 lavora per un’agenzia pubblicitaria di New York, che per una delle sue campagne vuole l’inconfondibile stile “Life”.

Probabilmente cominciai quella serie per la Bankers Trust già nel 1959. Fino a quel momento tutte le fotografie pubblicitarie erano assolutamente artificiali. Poi, d’un tratto, l’agenzia pubblicitaria, e probabilmente anche altri, ebbe l’idea che voleva le sue réclame nello stile della fotografia documentaria. Si rivolsero alla Magnum e, naturalmente, a Henri Cartier-Bresson. Quando lui rifiutò, chiesero a me. Io accettai il lavoro perché avevo appena comprato il mio appartamento a Parigi e mi servivano moltissimi soldi. L’incarico era pagato molto bene e il lavoro era interessante: una campagna completa su New York per la Bankers Trust. Alla fine fecero anche un piccolo volume. Non era un reportage e non usai dei modelli, che sarebbero apparsi troppo forzati, ma chiesi ai miei amici. Discutevo le situazioni con il direttore artistico, poi le fotografavo. La cosa meravigliosa di questo modo di procedere era che finivo sempre in tempi molto brevi, e ne andavo fiera. Preparavo le scene, e dopo le riprese vere e proprie mi prendevano cinque minuti. Il direttore artistico era molto seccato, diceva: “È troppo poco, ti paghiamo troppo!”.  Io rispondevo che ci avevo pensato per una settimana intera. La campagna fu un grande successo. Dopo un anno cominciai a pensare per immagini costruite e, a quel punto, decisi di smettere con quel genere di lavoro. Avevo guadagnato il denaro per l’appartamento.

È tipico dello stile di Inge Morath non perdere di vista i suoi obiettivi artistici. Da tempo è rinomata per i suoi ritratti, così si arrischia a chiedere una seduta di posa a Saul Steinberg. Lui accetta, ma la riceve con una maschera di carta. Inge Morath non si scompone e comincia a fotografarlo con la maschera. È l’inizio di una nuova collaborazione, in cui Saul Steinberg disegna le sue maschere e Inge Morath sceglie i “corpi” e i costumi corrispondenti. Il risultato è una serie completa, pubblicata accanto a disegni di Saul Steinberg nel libro Le masque, nel 1961.

Nel 1960, durante le riprese del film Gli spostati, Inge Morath incontra per la prima volta il drammaturgo Arthur Miller. Lo incontra di nuovo nella sede newyorchese della Magnum, quando Miller ha bisogno di fotografie di se stesso e del suo lavoro, e a lei viene richiesta la fotografia di scena per una delle sue produzioni teatrali. 

C’è un lento avvicinamento reciproco, interrotto dai frequenti viaggi di Inge, ma che porta una maggiore intimità. Si sposano nella primavera del 1962; nello stesso anno nasce la figlia Rebecca e, nel 1967, il figlio Daniel. All’inizio la famiglia vive a New York nel leggendario Chelsea Hotel, poi in una fattoria a Roxbury (Connecticut), a un paio d’ore di macchina da New York.

Anche se le condizioni esterne del suo lavoro sono cambiate, lo stile dell’espressione artistica di Inge Morath e il suo entusiasmo per la fotografia rimangono immutati. Impossibilitata a viaggiare finché la figlia è piccola, comincia a esplorare i dintorni più vicini. La vita in una piccola città della costa orientale americana offre al fotografo spunti sulla struttura sociale della comunità locale. Storie e informazioni indispensabili ad acquisire la necessaria familiarità con i suoi soggetti le vengono fornite dal marito, che vive nella zona da molto tempo, ma bisognerà aspettare il 1977 perché i due pubblichino un libro insieme. Il titolo: In the Country.

Per tutto quel tempo Inge non ha perso di vista la sua idea di viaggiare nelle regioni delle grandi culture mondiali. Una delle mete successive è la Russia e, come sempre, si prepara scrupolosamente; studia la lingua al Berlitz e la migliora con l’aiuto di Olga Andreyeva Carlisle, una vicina di origine russa. Visita il paese per la prima volta con il marito nel 1965. Negli anni a venire seguono altri viaggi, grazie ai quali vengono coltivati stretti contatti con intellettuali russi, specialmente scrittori. La prospettiva del suo lavoro passa da una osservazione distaccata al coinvolgimento personale per la condizione degli artisti sotto un regime dittatoriale. Le fotografie rispecchiano l’attrazione di Inge Morath per l’eredità culturale del paese e il suo interesse per quella cultura oppressa. Entrambi questi elementi si ritrovano nel volume In Russia, pubblicato nel 1967.

Una volta instaurate, queste relazioni personali e l’interesse per il paese diventano permanenti. Più volte la famiglia ospita gli amici russi nella sua casa e sostiene la traduzione e la pubblicazione di testi. 

Altri viaggi in Russia si svolgono nel 1985 e nel 1990. Nel 1991 esce un nuovo libro, intitolato Russian Journal. In un’ampia panoramica, frutto del suo decennale interesse per quella cultura, Inge presenta un diario visivo che sintetizza anche i profondi cambiamenti subiti dal paese.

Un altro degli ambiziosi progetti di Inge Morath è un viaggio in Cina. Nel 1972 ha iniziato a studiare il mandarino e a familiarizzare con la cultura cinese, ma l’occasione di visitare il paese non si presenterà prima del 1978. Seguiranno altri viaggi, e nel 1979 pubblica, insieme al marito, il volume Chinese Encounters.

I libri realizzati nei decenni più recenti sono spesso il frutto di viaggi compiuti con il marito. In genere non sono progettati in anticipo come pubblicazioni, e sono esempi di una feconda collaborazione tra un poeta e una fotografa – una collaborazione che non si presenta con una netta divisione tra immagine e testo, ma che dà vita a un intreccio tra i due mezzi espressivi. Di solito Inge Morath parla la lingua del posto e fa da interprete per Arthur Miller, mentre dal lavoro letterario e dai numerosissimi contatti di quest’ultimo scaturiscono gli incontri con l’élite artistica. Attraverso questi contatti, Inge acquisisce una più profonda comprensione della cultura sulla quale si basa il suo lavoro fotografico di quel momento. La collaborazione si sviluppa senza pressioni esterne ed è motivata esclusivamente dal comune interesse per le persone e la loro sfera culturale: una situazione congeniale allo stile di lavoro di Inge Morath, che in genere si sente inibita dagli incarichi formali.

Devo prima vedere e trovare quello che posso fare. Quando facevo un viaggio, naturalmente sapevo che cos’è un reportage e lo tenevo sempre presente. In altre parole, non ho mai viaggiato in un paese per tornare riportando solo primi piani di strutture murarie. Però avevo bisogno della mia libertà. Una o due volte è capitato, semplicemente, di non fare il reportage. Sono andata, e ho detto “Non lo vedo”. Quello che mi riusciva particolarmente difficile era quando i clienti dicevano di volere solo il colore quando non c’era nessun vero colore. Non mi piace che la gente mi dica che devo fare un ritratto a colori, quando io non vedo nessun colore.

Gli anni settanta e ottanta non portano solo evidenti cambiamenti nel panorama della stampa – la concentrazione delle case editrici porta con sé una riduzione delle opportunità di pubblicare e la competizione televisiva si inasprisce, ma anche la ricezione artistica della fotografia sta cambiando. I lavori di molti fotografi Magnum sono esposti in musei e gallerie, mentre si diffondono la vendita di opere individuali sul mercato dell’arte e il sostegno a progetti fotografici attraverso borse di studio o sovvenzioni artistiche.

Parallelamente a questi sviluppi internazionali, dal 1981 opera a Salisburgo la galleria Fotohof, che si propone di far conoscere la fotografia d’arte austriaca. In un incontro casuale dei soci fondatori Brigitte Blüml e Kurt Kaindl con Inge Morath a un convegno sulla fotografia, emerge che questa svolta verso la fotografia d’arte è un obiettivo comune, e ci si accorda su un primo progetto fotografico in collaborazione con la galleria. Nel 1991 esce il libro illustrato che ne è scaturito, Salzburg − An Artists View, dove, accanto ad altri tre fotografi attivi a livello internazionale, Inge Morath è rappresentata con una nuova opera fotografica.

Ben presto la considerazione artistica dell’opera fotografica realizzata fin qui porta altri frutti: sempre nel 1991, Inge Morath riceve il Gran Premio Nazionale Austriaco per la Fotografia, che viene assegnato per la prima volta. Un anno dopo la galleria Fotohof pubblica la sua monografia corredata da testi approfonditi. Parallelamente si allestiscono mostre delle sue opere, che ora vengono presentate anche al pubblico internazionale.

Con la nuova prospettiva della fotografia artistica, il lavoro fotografico di Inge Morath si fa di nuovo più intenso, in gran parte liberato dal lavoro giornalistico quotidiano e orientato a volumi illustrati e mostre. Nel 1993 e nel 1994, insieme ai suoi curatori di Salisburgo, Inge Morath compie diversi viaggi lungo il Danubio, portando così a termine un progetto che aveva iniziato negli anni cinquanta. In collaborazione con la galleria Fotohof escono quindi in rapida successione altri volumi illustrati che raccolgono alcuni dei suoi grandi reportage, presentandoli sotto la nuova luce della fotografia d’arte.

Nel 2001 Inge Morath accoglie l’invito della regista austriaca Regina Strassegger a realizzare un lavoro fotografico nella regione di confine tra l’Austria e la Slovenia, da dove provengono i suoi antenati, che ripercorra le tracce della sua famiglia e gli sviluppi politici successivi alla seconda guerra mondiale. È affiancata da una troupe cinematografica, che, con l’occasione, produrrà un lungometraggio su di lei. Le riprese iniziano nel 1999 e dovrebbero concludersi nel 2002. Nell’autunno del 2001, durante uno di questi viaggi fotografici, Inge Morath accusa forti dolori, che al ritorno a New York vengono diagnosticati come sintomi di una aggressiva patologia tumorale. 

Il 30 gennaio 2002 Inge Morath muore in un ospedale di New York.

1 Byron Dobell, A Conversation with  Henri Cartier-Bresson, in “Popular Photography“, settembre, September 1957.


Museo di Palazzo Grimani
Ramo Grimani,
Castello 4858
30122 Venezia
Tel. 041.241.1507

Orari: 
martedì-domenica dalle 10.00 alle 19.00; ultimo ingresso ore 18.30.
lunedì chiuso

https://ingemorathexhibition.com

Studio ESSECI di Sergio Campagnolo
Tel. 049663499
www.studioesseci.net
Referente Simone Raddi: simone@studioesseci.net

Direzione regionale Musei Veneto
Tel. 0412967611
Ufficio Comunicazione 
Referente Vincenza Lasala: vincenza.lasala@cultura.gov.it

Museo di Palazzo Grimani
Tel. 0412411507
Referente Eleonora Mazzeo: eleonora.mazzeo@cultura.gov.it

Roma: La Galleria del Cembalo presenta la mostra “The Spiders and the Bees” di François Xavier Saint Pierre

La Galleria del Cembalo presenta la mostra

The Spiders and the Bees
Dipinti di François Xavier Saint Pierre

Dal 12 gennaio al 18 febbraio 2023

Galleria del Cembalo

Palazzo Borghese, Largo della Fontanella di Borghese 19, Roma

Dal 12 gennaio 2023 la Galleria del Cembalo a Roma ha il piacere di ospitare nelle proprie sale The Spiders and the Bees, mostra personale dei dipinti di François Xavier Saint Pierre. L’esposizione affiancherà la mostra fotografica già presente in galleria, La vie en vert di Karmen Corak, che per l’occasione sarà prorogata al 18 febbraio 2023. Giovedì 19 gennaio 2023 alle ore 18.00 è in programma un evento speciale alla presenza dell’artista François Xavier Saint Pierre.

Nato in Canada, l’artista Saint Pierre risiede a Venezia dal 2020. The Spiders and the Bees segue la recente mostra antologica dell’artista svoltasi a Toronto presso il Koffler Centre of Arts lo scorso inverno e la prima personale internazionale che si è tenuta a Venezia in concomitanza con la 59esima Biennale d’Arte. Ed è proprio a Venezia che l’artista ha avuto modo di conoscere Karmen Corak e di trovare con lei molti punti di contatto: l’amore per l’Italia e per l’età classica, la grande sensibilità verso la natura, la vicinanza del pensiero artistico. Ne è sorto il desiderio di creare un’occasione di coesistenza delle loro opere e nella Galleria del Cembalo hanno trovato un luogo perché ciò avvenisse.

Le opere di Saint Pierre sono influenzate dalla pittura modernista e dai tòpoi classici e romantici. Il titolo della mostra richiama la favola satirica di Jonathan SwiftL’ape e il ragno” – scritta nel 1704 – che si situa nel più ampio contesto del dibattito storico noto come la querelle des Anciens et des Modernes (disputa degli Antichi e dei Moderni), avviata in Francia da una cerchia di autori e artisti francesi presso la corte di Luigi XIV. Gli Antichi attribuivano importanza alle radici del pensiero e all’arte greco-romana, mentre i Moderni ritenevano che la tecnologia (la bussola, la stampa tipografica e le armi da fuoco) li rendesse di gran lunga superiori. Swift paragonava gli Antichi alle api, che attingevano meraviglie dai fiori, e i Moderni ai ragni, che ricavavano il nuovo dal nulla. Il dibattito su come guardare alla storia è stato declinato in diversi modi nel corso dei secoli, toccando tutti gli aspetti del pensiero intellettuale, artistico e politico europeo: che importanza attribuiamo a quanto è accaduto prima di noi? Gli sviluppi tecnologici sono sempre sinonimo di una società superiore? Oggi, ad esempio, essi stanno conducendo ad un rapido declino delle abilità manuali.

Questo quadro funge da riferimento per l’artista nella sua esplorazione di forme artistiche passate, della nozione di progresso e del significato di essere contemporanei.

Oltre alle opere di Saint Pierre i visitatori potranno continuare ad ammirare le fotografie di Karmen Corak, artista italiana di origine slovena che ha studiato Arti Grafiche in Croazia e Conservazione e restauro di opere d’arte su carta in Italia, Giappone e Austria. Scattate nei giardini botanici in Italia, Slovenia, Germania, Francia, Cina e Giappone, le fotografie di Karmen Corak assegnano un valore cultuale all’impermanenza, alla dissolvenza del paesaggio, riflettendo sulla sua valenza poetica. In tal modo le immagini suggeriscono, anche attraverso i più piccoli dettagli, la spiritualità della sua connessione con il paesaggio e la profondità di un rapporto interiore, basato sulla vibrante interazione tra memoria e presente.

Le fotografie esposte sono testimonianza di una natura venerata, di una contemplazione paesaggistica che muove l’osservatore a dialogare con esse. Le immagini sono il risultato di un processo evolutivo che prende le mosse dall’amore per i giardini, unito ad un profondo interesse per la cultura tradizionale dell’Estremo Oriente. Ed è dal Giappone, sull’isola di Shikoku, che proviene la carta washi, ideale per stampare queste immagini.


INFORMAZIONI UTILI

Dal 12 gennaio al 18 febbraio 2023
DOVE: Galleria del Cembalo, Palazzo Borghese – Largo della Fontanella di Borghese 19, Roma
ORARI: Da mercoledì a venerdì dalle 15.30 alle 19.00 – sabato dalle 11.00 alle 19.00
INGRESSO LIBERO

CONTATTI
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Pisa, Museo della grafica – Presentazione del libro di Maurizio Vanni: Biomuseologia. Il museo e la cultura della sostenibilità

Il Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi (Comune di Pisa, Università di Pisa) è lieto di invitarvi alla presentazione del libro

Biomuseologia
Il museo e la cultura della sostenibilità

di Maurizio Vanni

Venerdì 13 gennaio ore 17:00

Alla presenza dell’autore Maurizio Vanni interverranno:
Alessandro Tosi, direttore scientifico del Museo della Grafica
Matteo Graniti, art curator
Elena Pampalone, lighting designer

Per ulteriori informazioni cliccare il logo:

Museo della Grafica – Lungarno Galilei, 9 – Pisa
Tel. 050/2216060 (62-66-67)
E-mail: museodellagrafica@adm.unipi.it
www.museodellagrafica.sma.unipi.it

Roma: Si conclude Street Art for Rights che consegna alla comunità un vero e proprio museo a cielo aperto

Immagine guida

Street Art for Rights 2022

La street art per l’Agenda 2030 ONU

In anteprima le foto del muro finito di ETNIK, uno degli street artist più affermati al mondo grazie al suo inconfondibile stile

Con l’ultimo muro del noto street artist Fabio Petani da poco realizzato, si conclude ufficialmente la III edizione di Street Art For Rights a Roma, il festival che racconta e diffonde la cultura della sostenibilità attraverso la street art, nel segno dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs) dell’Agenda ONU. 

Street Art for Rights si è affermato come un punto di riferimento per la street art in Italia con oltre 30 opere realizzate a Roma nei quartieri periferici di Corviale e Settecamini e nel Lazio tra Cassino, Fiumicino e Latina. Un vero e proprio museo a cielo aperto che offre a tutti gli appassionati e non, soprattutto durante le festività natalizie, di conoscere una “Nuova Roma“, inedita e poco conosciuta. L’arte dona nuova vita allo spazio della periferia in un trionfo di colori che ha ridato vivacità al volto dei quartieri. Grazie a Street Art for Rights, lo spazio urbano diventa un luogo dove potersi esprimere liberamente, una galleria d’arte in cui le opere non restano confinate ad un pubblico d’elite ma raggiungono sempre più cittadini. 

Il progetto Street art for Rights nasce infatti con l’intento di portare l’arte nei quartieri con contesti difficili della periferia di Roma, adottando i 17 Goals dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU e filtrandoli con l’occhio dell’arte contemporanea. L’obiettivo è quello di dare concretezza artistica al piano d’azione per le persone, il Pianeta e la prosperità promosso dall’ONU, avvicinando la comunità ai vari temi e sollecitando la discussione circa i problemi impellenti dell’era contemporanea. 

In questa III edizione gli artisti, selezionati per il loro impegno civile oltre che per il loro segno e impatto artistico, Natalia Rak (Polonia), Etnik (Svezia-Italia), Fabio Petani (Italia), Attorep (Italia), Barbara Oizmud (Italia), Davide Toffolo e Marqus (Italia), NSN997 (Spagna), Manuela Merlo in arte HUMAN (Italia), hanno realizzato 8 muri nei quartieri Settecamini, Ponte Mammolo e San Paolo, dedicati ai Global Goals dal 10 al 17 dell’Agenda 2030: OBIETTIVO 10 Ridurre le disuguaglianze; OBIETTIVO 11 Città e comunità sostenibili; OBIETTIVO 12 Consumo sostenibile; OBIETTIVO 13 Lotta al cambiamento climatico; OBIETTIVO 14 Vita sott’acqua; OBIETTIVO 15 Vita sulla terra; OBIETTIVO 16 Pace, giustizia e istituzioni solide; OBIETTIVO 17 Partnership per gli obiettivi. Tutti gli artisti hanno restituito, ognuno dal proprio personale punto di vista, un’immagine potente sul concetto-chiave di sviluppo sostenibile. Inoltre, tutti i muri sono stati realizzati usando anche le vernici speciali del brevetto AirLite, prodotti che riescono a trasformare gli agenti inquinanti in molecole di sale e ad avviare il processo di fotosintesi. 

Street Art For Rights è ideato e diretto da Giuseppe Casa, curato da Oriana Rizzuto, e organizzato dall’associazione culturale Taste & Travel in collaborazione con MArteSocial MArteGallery. Molto più di un semplice festival, Street Art for Rights rappresenta una vera e propria azione artistica e sociale, che attraverso la street art vuole ampliare lo spazio dedicato alla testimonianza di buone pratiche sui temi della sostenibilità – ambientale, sociale e di governance sostenibile – con il desiderio che queste si moltiplichino creando una reazione a catena di effetti positivi “contagiati e contagianti”. 

I MURI: IL PERCORSO, GLI ARTISTI E I LUOGHI IN DETTAGLIO 

ATTOREP – Via Settecamini 108, RomaObiettivo 10 – Ridurre le diseguaglianze

Attorep, con i suoi ritratti romantici che conducono alla riflessione alle relazioni umane sempre più fragili, ha interpretato il Global Goal numero 10, ovvero Ridurre le diseguaglianze. L’opera muraria rappresenta due volti, posti uno di fronte all’altro, non identificabili per razza, etnia e sesso grazie all’astrazione del colore. Le due figure si guardano negli occhi, con uno sguardo di affetto, di amore e di inclusione. 

Chi è Attorep? 

Un artista, street artist e curatore d’arte italiano, founder e art director del festival OSA Operazione Street Art. Inizia a farsi conoscere nelle periferie di Roma nel 2015, esponendo al MACRO e realizzando opere nella città. Nel 2018 è il vincitore del premio speciale Mario Moderni dedicato agli artisti emergenti dalla Fondazione Mario Moderni.

foto di © Elenoire

Davide Toffolo e Marqus – Via Settecamini 102, RomaObiettivo 11 – Città e comunità sostenibili

L’illustratore graffiante in stile gothic-punk Davide Toffolo ha tradotto insieme a Marqus il tema dell’inquinamento urbano attraverso la satira, raffigurando un enorme gorilla, come re di una città dai bordi e dall’estensione indefinita. Una critica diretta al consumismo contemporaneo, all’urbanizzazione massima e al non rispetto nei confronti dell’ambiente.

foto di © Elenoire

Chi è Davide Toffolo? 

Un fumettista, cantautore e chitarrista italiano, frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Le sue opere grafiche riguardano sia i fumetti che le animazioni. Le sue opere grafiche riguardano sia i fumetti che le animazioni. Le sue due attività, fumettista e musicista, non sono separate, ma continuamente integrate da performance di disegno e musica, come le atmosfere musicali durante le sue mostre di fumetti o i videoclip dei singoli musicali. 

Chi è Marqus? 

Marco Gortana, in arte Marqus, è uno street artist di Pordenone. Ha studiato all’Accademia di Belle arti di Brera: da lì ha deciso di indirizzare la sua arte verso il muralismo e i disegni in grande scala. Ha lavorato e viaggiato in giro per il mondo, e da artista giovane e originale, regala la sua visione immaginaria di città ideali. 

Etnik- Via Settecamini 104, RomaObiettivo 12 – Consumo sostenibile

L’urban artist di fama internazionale Etnik, attivo da oltre 30 anni nella scena dell’arte urbana, per il suo murales si è ispirato al goal numero 12 con ‘‘La Casa nella Casa”, il titolo del suo lavoro che oltre ad essere una visione sulla vera e propria architettura abitativa dedicata ai temi ecologici e di riciclo è allo stesso tempo uno spunto a lavorare su sé stessi, sulle nostre abitudini quotidiane. Con le sue illustrazioni geometriche fatto di forme, volumi e cromatiche che talvolta portano a figure astratte, Etnik vuole rappresentare l’equilibrio precario dell’essere umano e l’incessante velocità del mondo contemporaneo. Etnik anche con questo muro porta avanti una personale ricerca artistica capace di veicolare un forte messaggio, il punto di vista dell’artista sulla città e le parti di cui si compone, e con esso sviluppare la sua peculiare poetica.

foto di © Elenoire

Chi è Etnik? 

Artista di origine svedese attualmente di stanza a Torino, è attivo nella scena graffiti writing sin dai primi anni ’90. È attualmente uno degli street artist più affermati al mondo grazie al suo inconfondibile stile. Durante la sua carriera ha ricercato sempre una nuova strada per superare i limiti classici della disciplina portando la pittura murale ad alti livelli, ideando e organizzando anche eventi che hanno messo in contatto i migliori artisti del panorama europeo. Dal 2001 il suo modo di dipingere comincia ad evolversi verso forme geometriche e architettoniche, partendo dal lettering che diviene la base su cui Etnik imposta l’intero impianto concettuale e compositivo della sua ricerca artistica. Oggi lavora nel suo studio a Torino, viaggiando molto per realizzare wall painting di grandi dimensioni e partecipare ad esposizioni in galleria in tutto il mondo. 

Fabio Petani – Via Settecamini 100, RomaObiettivo 13 – Lotta al cambiamento climatico

L’artista Fabio Petani ha interpretato il goal 13 rappresentando un ghiacciaio che si scioglie e che si trasforma in un deserto. Il tutto racchiuso all’interno di una clessidra astratta che sta a rappresentare il passare del tempo, prezioso per salvare il nostro ecosistema.

foto di © Elenoire

Chi è Fabio Petani? 

Fa parte dell’Associazione Il Cerchio E Le Gocce. I suoi lavori sono caratterizzati da una disordinata armonia di linee, forme e volumi che si integrano fra loro con colori tenui e armoniosi miscelati a elementi di rottura. La ricerca analizza l’aspetto chimico e molecolare degli oggetti da cui nasce un lungo lavoro di ricostruzione degli elementi della tavola periodica; una produzione sempre più ricca di particolari per far emerge una complessità organica in continua evoluzione. Ogni elemento chimico, come ogni pianta, ha in qualche modo una connessione con l’ambiente, lo spazio o il contesto dove il murale viene realizzato. 

Barbara Oizmud – Metro B Ponte Mammolo, RomaObiettivo 14 – Vita sott’acqua

Barbara Oizmud ha realizzato una riflessione capillare sulla vita sott’acqua e sulla sempre più ampia diffusione di microplastiche all’interno dei mari. L’opera sulla parete della metropolitana di Ponte Mammolo si chiama “Polline“, ed è dedicata alla flora e fauna acquatica. L’artista ha ragionato sul 14esimo obiettivo dell’Agenda ONU 2030, che mira a “conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile“. Il risultato del lavoro di Oizmud è una creatura ibrida finita negli abissi, causa e al tempo stesso cura di una ferita collettiva generata dall’uomo. Polline è persona e animale, è oggetto e corallo. Polline è uno specchio della nostra società.

foto di © Elenoire

Chi è Barbara Oizmud? 

Fotografa e illustratrice, i suoi lavori sono pubblicati su riviste come Wired, Vanity Fair, Style, GQ, GQ Spagna, Rolling Stone, F Magazine, Financial Times, Cover Up, Shift Magazine, Topolino. Ha anche realizzato campagne fotografiche per clienti come Red Bull, Fox, Sky, Discovery, Fremantle Media, Universal, RomaEuropaFestival. Dal 2003 al 2006 ha lavorato come vignettista collaborando a progetti con la RAI, una delle principali emittenti televisive italiane. Nel 2016 Barbara sbarca a Los Angeles. È una dei cinque fotografi scelti dallo staff di David Lynch, provenienti da tutto il mondo, per realizzare un reportage fotografico del suo primo Music Festival “Festival of Disruption”. 

Natalia Rak – Via Settecamini 108, RomaObiettivo 15 – Vita sulla terra

Il goal 15 è rappresentato dall’opera di Natalia Rak: un bambino, o forse una creatura dei boschi mentre seduto su un tronco, come nella tradizione fiabesca, suona il flauto, che attraverso la sua melodia dà vita ad una danza di piante, fiori e farfalle. La creatura è seduta su un tronco tagliato, simbolo di deforestazione e desertificazione e proprio su di esso suona, infondendo positività e speranza: non è troppo tardi per fermarsi e dare inizio a nuova vita.

foto di © Elenoire

Chi è Natalia Rak? 

Dal 2011 l’artista polacca Natalia Rak crea dipinti su larga scala, sotto forma di splendidi murales. La sua arte è stata esposta in tutta Europa in città come Düsseldorf (Germania), Barcellona (Spagna) e Strasburgo (Francia). Inoltre, è stata presente in molte mostre collettive e ha partecipato ad alcuni dei più prestigiosi eventi di street art, come POW! WOW! (USA), Art Scape (Svezia), Mural Festival di Montreal (Canada), Blink (USA), Memorie Urbane (Italia). Il suo lavoro di spicco per il festival Folk on the Street di Bialystok “Legend of the Giants” è stato incluso nella serie “Sztuka ulicy – Street Art” pubblicata dalle Poste polacche. 

Manuela Merlo in arte HUMAN – Via di Settecamini 102, RomaObiettivo 16 – Pace, giustizia e istituzioni solide

L’artista ha rappresentato il goal 16 raffigurando una donna, simbolo della giustizia. Il volto della donna è impreziosito da due pendenti, che simboleggiano la bilancia della giustizia, mentre è intenta ad abbracciare e prendersi cura di una colomba bianca simbolo di pace. Quest’ultimo simbolo lo ritroviamo con nuova forma, attorno alla figura: due colombe-origami di carta che ci indicano la fragilità della pace.

foto di © Elenoire

Chi è Manuela Merlo? 

L’incontro con la StreetArt è dirompente per Manuela Merlo quando conosce i “Pittori Anonimi del Trullo” l’associazione culturale con i quali collabora in progetti sociali, operando sul territorio con numerosi di interventi di StreetArt in vari quartieri di Roma, in special modo nella borgata del Trullo. 

NSN997 – Scuola Media Volterra, Via Vito Volterra 190, San Paolo, RomaObiettivo 17 – Partnership per gli obiettivi

L’ultimo punto dell’Agenda ONU 2030 è un riepilogo dei precedenti e dà la chiave per realizzarli tutti: alla base deve esserci la collaborazione tra paesi ed un’armonia economica e politica globale. NSN997 hanno realizzato un muro dal titolo “Cooperazione” rappresentando l’unione di diverse discipline, saperi, culture, etnie e generazioni che compongono l’anello centrale, simbolo di una nuova visione del mondo, ecologica, egualitaria e sostenibile. 

Chi è NSN997? 

È il nome di una crew nata nel 1997 da tre graffiti writer. Nel 2014 hanno iniziato a sviluppare un loro stile, coerente con l’evoluzione della street art nell’ultimo decennio. Messaggi positivi, linguaggio grafico e semplice, pochi colori e scritte per parlare del lato migliore della società. Dal 2016 fanno parte del collettivo elKeller presso il CSA la Tabacalera di Madrid. In questi anni NSN997 ha realizzato opere e laboratori partecipativi in scuole ed eventi pubblici. Le loro opere sono presenti in Spagna, Italia, Portogallo, Grecia, Belgio e Romania.

foto di © Elenoire

Il progetto, promosso dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, è vincitore dell’Avviso Pubblico Contemporaneamente Roma 2020-2021-2022 curato dal Dipartimento Attività Culturali ed è realizzato in collaborazione con SIAE e con il Patrocinio dei Municipi IV e VIII.Street Art for RIGHTS fa parte delle attività sviluppate da MArteSocial, un incubatore   incentrato sulla risoluzione di problematiche sociali attraverso progetti artistico-culturali che possano generare un impatto positivo sugli abitanti dei quartieri meno sviluppati che vertono in condizioni di disagio ed emarginazione. MArteGallery è uno spazio virtuale dedicato all’esposizione di opere artistiche in ogni campo (fotografia, pittura, scultura, grafica, etc.), il cui obiettivo principale è dare spazio a giovani emergenti, dare supporto ad artisti e gallerie, diffondere l’accessibilità della cultura e dell’arte con possibilità di acquistare le opere esposte. Una vera e propria “etichetta dell’arte” dedicata agli emergenti e alle gallerie, che offre management e consulenze di comunicazione ma anche supporto, conoscenza e strumenti per operare nel mondo dell’arte contemporanea.


INFORMAZIONI UTILI
STREET ART FOR RIGHTS – III EDIZIONE

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I ritratti fotografici di Augusto De Luca dove cogliere effetti inesplorati o del tutto sconosciuti

RITRATTI FOTOGRAFICI DI AUGUSTO DE LUCA

Ritratti di Augusto De Luca 

“Ho sempre avuto dentro di me il germe dell’uomo madre; la creatività mi ha sempre accompagnato… Ho cercato sempre di esprimermi con uno stile ben preciso ma attraverso tutti i materiali e i formati. Desidero scoprire come la mia creatività si manifesta nelle diverse circostanze”.
“La geometria mi serve come grammatica del linguaggio espressivo nell’immagine. Lo scheletro strutturale, la composizione e il taglio geometrico servono a dare una chiave di lettura all’immagine”.
“La luce evidenzia ma, con l’ombra, elimina dando all’immagine valori di profondità, di terza estensione e possibilità sottrattive… Credo che l’impegno e la tecnica si possono raggiungere con la volontà e lo studio mentre l’inventiva e la passione costituiscono qualcosa in più in quanto elementi innati e inesorabilmente speciali”.

Chi è Augusto De Luca? Presto detto: è un famoso fotografo e performer italiano. È conosciuto anche come “Il Cacciatore di Graffiti”, dal titolo di un articolo sul quotidiano Il Mattino che descrive un tratto del suo immaginario artistico. Nel 2011, infatti, per denunciare il degrado della sua città di nascita, ha ideato la Performance – Partita a golf nelle buche stradali di Napoli. «A partire dal 2005, dopo aver trascorso alcuni anni a Roma, tornato a Napoli, mi sono accorto che sui muri della città c’erano tanti disegni colorati su carta che mi ricordavano le opere di Keith Haring, Ronnie Cutrone e Kenny Scharf. Ne sono stato subito colpito. Ancora non sapevo nulla di “Street Art”». Molte persone, ancora oggi, conoscono ben poco questa forma d’arte. De Luca, a differenza, già a partire dagli anni Settanta aveva cominciato a sviluppare la sua passione per l’arte in generale e per la fotografia in particolare. Da allora i suoi scatti fotografici sono presenti in diverse collezioni pubbliche e private: dalla Camera dei deputati a Roma alla Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi. Una ricca documentazione in proposito si può trovare visitando i siti web che illustrano una lunga carriera piena di conferme.

«Mi sento navigatore, o meglio, esploratore dell’immenso universo dell’arte», asserisce De Luca, «L’artista è uno scopritore, cerca le chiavi per aprire la porta delle emozioni e delle sensazioni. L’arte è il luogo dove razionalità, fantasia, verità e finzione si sposano creando una miscela esplosiva». La vera arte è sempre esplosiva, ma per farla esplodere occorre che l’artista per primo inneschi emozioni: «Ogni mia foto è filtrata dall’EMOZIONE, dal rapporto che si crea tra me ed il luogo da ritrarre. Quando vedo qualcosa che mi attrae, comincio a girarci intorno per trovare la MIA inquadratura. È un lavoro su di me e sulla città al tempo stesso». Ecco perché, soprattutto ai giovani, De Luca ha sempre indicato cosa guardare attraverso l’obiettivo fotografico e ricorda Henry Bergson quando asseriva: «A che cosa mira l’arte se non a mostrarci, nella natura e nello spirito, fuori e dentro di noi, le cose che non colpirebbero esplicitamente i nostri sensi e la nostra coscienza?». È un modo per intraprendere una esplorazione e una ricerca sul proprio “Esprit de Finesse”, nel senso più ampio del termine.

«Io ho molte anime, che vengono fuori a mesi o anni alterni. Sono fotografo, performer, avvocato, collezionista, musicista. Tutto questo fa parte di me, io non elimino niente, semplicemente permetto alle mie diverse anime di alternarsi… Attraverso le mie foto vengono fuori le mie idee, le mie passioni, i miei mostri, chi sono e cosa penso». De Luca svela così il suo segreto su come conoscere e conoscersi. Un pensiero che s’invera nel guardare attentamente le sue immagini: quando in un viaggio restituisce le sensazioni in lui suscitate dai luoghi o quando nei volti celebri del mondo della cultura e dello spettacolo afferra l’emozione di un momento. Di tali ritratti mostriamo una carrellata in bianco e nero. Una collezione completa del mondo di De Luca compare nei suoi libri fotografici, recensiti sulle principali riviste di settore e sulle più importanti reti televisive, come Rai3 e Rai2. Libri arricchiti da prefazioni e contributi letterari delle maggiori personalità del nostro tempo. Il poeta Mario Luzi, la regista Lina Wertmuller, il compositore Ennio Morricone, lo storico Giovanni Pugliese Carratelli, i giornalisti Maurizio Costanzo e Sandro Curzi, l’architetto Paolo Portoghesi. «Nei miei ritratti c’è la persona da ritrarre e ci sono sempre anche io. Quando fotografo cerco un oggetto e un’inquadratura da poter abbinare al soggetto ed è li che c’è anche qualcosa di mio, la mia firma, la mia anima. Vengono fuori le parti di me più nascoste: è come andare dallo psicologo. Ho scoperto attraverso le mie foto che convivono in me».

In quel preciso istante, fissato nel tempo, emergono sentimenti contrastanti ed estremi che danno vita alle sue molteplici ispirazioni. «La grande fotografia è realizzata al momento giusto, ma ha bisogno anche di un taglio giusto che valorizza quell’attimo… La fotografia deve vivere di contenuto e di forma, quella che vive solo dell’uno o dell’altro non rimane». Come non rimane se fotografi per gli altri, senza fare emergere la propria intima essenza: «Finirai per fare cose che hanno fatto tutti, solo perché sai che piacciono…». A scorrere articoli e note su De Luca ciascun lettore troverà parole di assoluto consenso, che evidenziano la sua poetica. Come queste poche righe, stralciate da ND Magazine, rivista internazionale che ha come mission promuovere fotografia e fotografi: «Con il suo stile ha attraversato molteplici generi fotografici, utilizzando molti materiali, cercando sempre con i suoi scatti di esaltare elementi primari, unità espressive minime che compongono immagini in cui forme e segni si combinano in modo da ricordare atmosfere metafisiche». Le medesime atmosfere metafisiche, che in questa pagina cogliamo in alcuni dei suoi prestigiosi ritratti. Valicano la semplice mimesi del reale, per fare emergere le molteplici stratificazioni del sentire e dell’agire.

Augusto De Luca – Note biografiche

Augusto De Luca

Augusto De Luca, (Napoli, 1° luglio 1955) è un fotografo e performer. Ha ritratto molti personaggi celebri. Studi classici, laureato in giurisprudenza. È diventato fotografo professionista nella metà degli anni ’70. Si è dedicato alla fotografia tradizionale e alla sperimentazione utilizzando diversi materiali fotografici. Il suo stile è caratterizzato da un’attenzione particolare per le inquadrature e per le minime unità espressive dell’oggetto inquadrato. Immagini di netto realismo sono affiancate da altre nelle quali forme e segni correlandosi ricordano la lezione della metafisica. È conosciuto a livello internazionale, ha esposto in molte gallerie italiane ed estere. Le sue fotografie compaiono in collezioni pubbliche e private come quelle della International Polaroid Collection (USA), della Biblioteca Nazionale di Parigi, dell’Archivio Fotografico Comunale di Roma, della Galleria Nazionale delle Arti Estetiche della Cina (Pechino), del Museo de la Photographie di Charleroi (Belgio).

Milano, Cardi Gallery: Paolo Scheggi – Making Spaces

CARDI GALLERY – MILANO

DAL 26 GENNAIO AL 15 APRILE 2023

PAOLO SCHEGGI | MAKING SPACES

La mostra ripercorre attraverso una selezione di oltre 25 opere la ricerca dell’artista dai primi anni Sessanta all’inizio degli anni Settanta.

Per l’occasione verrà ricostruito, nella sua versione originaria, lo storico ambiente immersivo Interfiore, presentato per la prima volta alla Galleria La Tartaruga nel 1968

A cura di Ilaria Bignotti

A distanza di 60 anni dall’ingresso in collezione di due Intersuperfici di Paolo Scheggi nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, allora diretta da Palma Bucarelli, e dalla partecipazione dell’artista alla collettiva Monocroma a Bologna e Firenze, questa mostra intende analizzare la sua ricerca artistica dai primi anni Sessanta agli inizi degli anni Settanta, celebrando il 1963 quale data fondamentale per l’affermazione e la contestualizzazione di Paolo Scheggi a livello internazionale.

Making Spaces è il titolo dell’esposizione organizzata da Cardi Gallery a Milano in collaborazione con l’Associazione Paolo Scheggi, che dal 26 gennaio al 15 aprile 2023 presenterà al pubblico una selezione di oltre 25 opere di Paolo Scheggi.

Il percorso espositivo, curato da Ilaria Bignotti, si snoderà secondo due direttive che intendono, da un lato, indagare la progettazione integrata all’architettura che l’artista conduce elaborando i moduli spaziali alla base delle sue opere più note, dall’altro, offrire ai visitatori una panoramica ampia sull’approccio di Scheggi ai concetti di interazione, interspazio e di multimedialità anche attraverso inedita documentazione d’archivio.

La mostra è pensata come un dialogo tra Intersuperfici, Inter-ena-cubi – opere realizzate con moduli di cartone colorato fustellato e plexiglas, oppure con moduli di metallo smaltato monocromo – ambienti e progetti di integrazione plastica all’architettura – che rappresentano un ciclo affascinante di produzione tra il 1962 e il 1971, elaborato da Scheggi grazie al dialogo con Bruno Munari, Nizzoli Associati, Mario Brunati, nel contesto di collaborazioni con riviste quali Casabella, Domus e In lettere e schizzi progettuali, disegni e maquette di ambienti che costituiscono il corollario teorico e programmatico dei suoi lavori.

Per l’occasione, verrà anche ricostruito il grande ambiente immersivo Interfiore (1968), realizzato con 85 anelli fluorescenti in legno e luce di Wood sospesi nel buio, per una decisa “invasione” dello spazio architettonico tanto cara all’artista.

Paolo Scheggi, Composizione spaziale, 1967-1968,
Legno dipinto di rosso, Collezione privata

“Fontana aveva messo per iscritto la sua stima nei confronti di quei quadri così profondamente neri, bianchi, rossi, in una lettera carica di presagi rispetto alla carriera intensa e folgorante che Scheggi stesso avrebbe percorso – sottolinea la curatrice Ilaria Bignotti; una carriera confermata, ancora nel 1963, dalla sua prima partecipazione in una mostra all’estero: è a Bruxelles, alla mitica Galerie Smith, che le sue Intersuperfici si affacciano alla scena internazionale. Bastino questi dati per comprendere la valenza scientifica della mostra oggi da Cardi Gallery inserita nel contesto della città di Milano, luogo nevralgico per l’artista di origine fiorentina: qui Scheggi poté trovare un laboratorio cosmopolita e aperto a tutti i linguaggi che egli seppe, nell’arco di un incandescente decennio, sperimentare, travalicando ogni confine”.

L’esposizione racconta anche il ruolo che ebbero celebri critici, progettisti e produttori con i quali Scheggi strinse collaborazioni, come Germano Celant, Angelo Fronzoni, Alessandro Mendini, Gian Mario Oliveri, Giancarlo Sangregorio, e con i quali nel 1965 l’artista firmò il volume dattiloscritto Ipotesi di lavoro per la progettazione totale presentato al Collegio Regionale Lombardo degli Architetti a Milano, fino alla collaborazione con la Fabbrica Poggi che vide la produzione di oggetti plastico-visuali anche legati all’arredo, e al suo ruolo di consulente visuale per i grandi concorsi di progettazione urbanistica tra il 1966 e il 1969.

Questo appuntamento si pone in un momento particolarmente vivace per gli studi sull’opera dell’artista, in cui i concetti di interazione e interscambio tra lo spazio, lo sguardo, e il tempo di percezione e di esperienza, sono al centro di un interesse di respiro internazionale, come dimostra l’ingresso nel 2022 nella collezione permanente della Tate Modern Londra di un Inter-ena-cuboformato da moduli smaltati rossi, attualmente esposto nella mostra internazionale The Dynamic Eye: Op and Kinetic Art from Tate Collection in corso al MAP-Museum of Art di Pudong, Shanghai (Cina).

Accompagna la mostra un volume di Silvana Editoriale.

PAOLO SCHEGGI

Paolo Scheggi nasce a Settignano (Firenze) nel 1940. Dopo gli studi artistici inizia una ricerca di ardita sperimentazione che lo porta a superare rapidamente le istanze dell’Informale. A Milano dal 1961, stringe un rapporto di vivace collaborazione con Germana Marucelli ed entra in contatto con l’ambiente artistico del capoluogo lombardo, suscitando l’attenzione di Lucio Fontana dal 1962. Seguito dalla critica più influente dell’epoca, da Argan a Bucarelli, da Belloli a Celant, da Dorfles a Kultermann, è riconosciuto tra gli esponenti della Pittura Oggetto, elaborando un personale linguaggio plastico-visuale che si estende poi a livello ambientale e prosegue, nell’ultima fase della sua ricerca, in direzione teatrale e performativa, con azioni urbane e successivamente volge ad una indagine mitico-politica in chiave metafisica. A contatto con i movimenti e i gruppi di ricerca internazionali, partecipa alle principali esposizioni del tempo, da Parigi a Buenos Aires, da New York ad Amburgo, da Düsseldorf a Zagabria, fino alla sua prematura scomparsa, nel 1971.


PAOLO SCHEGGI. MAKING SPACES
Milano, Cardi Gallery (Corso di Porta Nuova, 38)
26 gennaio – 15 aprile 2023

Informazioni: +39 02 45 47 8189; mail@cardigallery.com
www.cardigallery.com

Ingresso gratuito

Orari:
Da lunedì a sabato, 10.00 – 18.00

Ufficio stampa
CLP Relazioni Pubbliche
Clara Cervia | clara.cervia@clp1968.it
Chiara Ciucci | chiara.ciucci@clp1968.it
Tel. 02.36755700 | www.clp1968.it

Asti, Palazzo Mazzetti: “Boldini, la vita nella pittura” nota critica di Vittorio Sgarbi

Giovanni Boldini e il mito della Belle Époque

Asti, Palazzo Mazzetti
Fino al 10 aprile 2023

Allestimento della mostra “Boldini e il mito della Belle Époque”

Boldini, la vita nella pittura

Testo in catalogo a cura di Vittorio Sgarbi

Un vento, un vento benefico, non di tempesta, un vento che muove l’aria, pulisce il cielo, risveglia. A questo penso davanti alle opere di Boldini: lo stile di Boldini, nella sua età matura, non è artificio, come appare, ma natura. È un vento forte che scuote l’immobilità dell’immagine, la sua facilità e il suo limite illustrativo, per una strada diversa da quella del futurismo, ma nello stesso senso.

Boldini è un anti-accademico ma è anche un pittore classico. Il segno, la pennellata veloce non sono una fuga, ma una condizione più viva della pittura, un modo per fermare ciò che è instabile lasciandolo tale. Boldini non imita, non riproduce, compete. Il suo vento è la sua vanitas, per cui tutto si spegne: per questo è considerato mondano, superficiale, facile. In realtà Boldini, vissuto a Parigi a fianco degli impressionisti fin dal loro esordio, fu l’unico italiano che, superato il provincialismo, non si fece seguace ma anticipatore. L’impressionismo fu un’arma che non volle usare, pur non rinunciando al confronto con la vita moderna. Ma di Parigi egli intuì l’essenza cosmopolita, e fu pittore essenzialmente cittadino. Pittura e disegno, acquerello e pastello in lui sono la medesima cosa, uniti dalla velocità di esecuzione, dalla istantaneità con cui gesto e movimento sono bloccati e non riprodotti, ma prolungati. Quale differenza con un grande statico, benché mobile nello spazio della mente, come Cézanne, o con un euforico della natura come Monet! Boldini vive nella pittura e in essa ama la vita. Lo si vede anche nei pastelli e acquerelli dei vari periodi: dall’intima conversazione de I due amici al vibrante Bois de Boulogne, dalla bellezza eterea della Divina alla potente sensualità della Contessa de Rasty. Non mancano intense atmosfere di teatri e di café, spazi di ampi paesaggi pieni di vento, architetture umili o sfarzose, animali sorpresi nel lavoro o nel gioco, momenti, aspetti, volti e semplici oggetti della vita di tutti i giorni, ove spicca costante la ricerca della vitalità e la gioia di fermare l’attimo.

Ottocento e Novecento sono, nella sua poetica, indicazioni convenzionali, prive di un riscontro reale. Boldini non è mai un ritardatario, ma un pittore del Novecento prestato all’Ottocento, in un perpetuo controtempo.
Artista indocile a ogni scuola, Boldini fu certamente anche pittore della Belle Époque, ritraendo una società che bramava ostentare le proprie fortune attraverso lo sfolgorio delle sue donne: le mogli e le figlie, le amanti, le cocottes, e il mondo di sprechi nel quale erano immerse. Ma in quel lusso sfrenato brillava la bellezza e Boldini ne era stregato. Impressionismo, futurismo, espressionismo, ogni tendenza si fonde dietro le lenti dei pince-nez boldiniani in un cocktail di forme in cui il mestiere e il virtuosismo consentono di attingere a profondità insondate. Boldini oggi è con noi, senza che nulla del suo mondo ci appartenga più. Ma grazie anche ai suoi acquerelli e pastelli quel mondo non cadrà dalla nostra memoria, e vi rimarrà regalandoci una freschezza di impressione che incanta, come in un autentico inno alla libertà. Boldini esprime con assoluta immediatezza le rapinose impressioni sulla realtà, emozioni pure, senza corporeità. Ciò che in pittura è straordinario artificio nell’acquerello appare inevitabile, conseguenza stessa delle cose. La realtà chiede il gesto che l’afferri, non vuole altra impronta.

Per intenderlo ci assistono le parole di Montale, in Ossi di seppia, scritte quando ancora Boldini e D’Annunzio erano vivi: “Esterina, i vent’anni ti minacciano, / grigiorosea nube / che a poco a poco in sé ti chiude. / Ciò intendi e non paventi. / Sommersa ti vedremo / nella fumea che il vento / lacera o addensa, violento. / Poi dal fiotto di cenere uscirai / adusta più che mai, / proteso aun’avventura più lontana / l’intento viso che assembra l’arciera Diana. […] // L’acqua è la forza che ti tempra, / nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi: / noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo / come un’equorea creatura / che la salsedine non intacca / ma torna al lito più pura. // Hai ben ragione tu! / […] il tuo profilo s’incide / contro uno sfondo di perla. / Esiti a sommo del tremulo asse, / poi ridi, e come spiccata da un vento / t’abbatti fra le braccia / del tuo divino amico che t’afferra. // Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra.”

Questo è lo spirito di Boldini, il divino amico che trasforma le donne che dipinge in dee. Nessuna moda può piegarlo, Boldini la moda la fa. Consacra la bellezza. Restituisce alle sue donne una bellezza senza fine. È un artista totalmente libero, che sente la vita e la trasmette in pittura. In Boldini arte e vita sono una cosa.


SEDE
Palazzo Mazzetti
Corso Vittorio Alfieri, 357
Asti

INFORMAZIONI
T. +39 0141 530 403
M. +39 388 164 09 15
www.museidiasti.com
info@fondazioneastimusei.it
prenotazioni@fondazioneastimusei.it

ORARI
Martedì – domenica 10.00/19.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)
Lunedì chiuso

Hashtag ufficiale

#BoldiniAsti

Ufficio StampaArthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

LOTTO, ROMANINO, MORETTO, CERUTI. I campioni della pittura a Brescia e Bergamo

BRESCIA – PALAZZO MARTINENGO

DAL 21 GENNAIO ALL’11 GIUGNO 2023

LOTTO, ROMANINO, MORETTO, CERUTI

I campioni della pittura a Brescia e Bergamo

Attraverso 80 capolavori, per la prima volta, verranno messi a confronto diretto

i più grandi pittori attivi nelle due città tra Rinascimento e Barocco, dando vita a un derby culturale che proseguirà al piano nobile del Palazzo con quattro approfondimenti che indagheranno argomenti caratterizzanti la storia e l’identità di Brescia e Bergamo.

L’iniziativa è parte del programma di

“Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023”

A cura di Davide Dotti

Dal 21 gennaio all’11 giugno 2023, Palazzo Martinengo a Brescia accoglierà i capolavori dei più importanti maestri dell’arte attivi tra il Cinquecento e il Settecento a Brescia e Bergamo. Per la prima volta, la mostra Lotto, Romanino, Moretto, Ceruti. I campioni della pittura a Brescia e Bergamo metterà in dialogo la cultura e la produzione artistica espressa dalle due città durante i quasi quattro secoli di dominazione veneziana.

L’esposizione, una delle più attese del programma per “Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023”, curata da Davide Dotti, organizzata dall’Associazione Amici di Palazzo Martinengo, col patrocinio della Provincia di Brescia, del Comune di Brescia, del Comune di Bergamo, della Fondazione Provincia di Brescia Eventi, presenta una selezione di oltre ottanta capolavori provenienti da collezioni pubbliche e private sia italiane che estere, che darà vita a un vero e proprio derby culturale e artistico: i lavori dei grandi maestri bresciani del Rinascimento quali Foppa, Moretto, Romanino, Savoldo e Gambara saranno messi a confronto con quelli dei bergamaschi Moroni, Palma il Vecchio, Cariani, Previtali e Lotto – che visse e lavorò per oltre dodici anni nella Città dei Mille – per comprendere come il comune substrato culturale lombardo, ravvivato dalle novità proposte dai pittori veneziani (Bellini e Tiziano in primis), abbia dato vita a linguaggi espressivi in alcuni casi similari, in altri antitetici.

Di estremo interesse sarà poi avvicinare tele eseguite nel corso del quinto decennio del ‘500 da Moretto e da Moroni che, in quegli anni, si trovava a Brescia nella bottega del Bonvicino, da cui assimilò quell’intenso naturalismo che caratterizza la poetica del genio bresciano.

Alessandro Bonvicino detto Moretto, La visitazione, olio su tavola, 66 x 91 cm. Collezione privata

Lo stesso inedito ed emozionante parallelo tra gli esponenti delle due scuole pittoriche verrà proposto nelle sale successive dedicate al tema della “ritrattistica” – Moroni, Ceresa e Fra Galgario da un lato, Bellotti, Cifrondi e Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto dall’altro -, della “pittura barocca”, della “natura morta” – Baschenis e Bettera campioni nella Città dei Mille, Rasio e Duranti in quella della Leonessa – e della “pittura di genere” dove protagonisti saranno gli irriverenti dipinti con nani e pigmei di Bocchi e dell’allievo bergamasco Albrici, i paesaggi di Roncelli e i rustici interni di cascinali e osterie di Botti.

Il percorso espositivo proseguirà poi al piano nobile della storica residenza cinquecentesca con una sorprendente “mostra nella mostra”, costituita da quattro approfondimenti dedicati a temi caratterizzanti l’identità culturale e la storia delle due città, dove s’incontreranno sculture, disegni, strumenti musicali, dipinti, cimeli storici, documenti antichi e fotografie d’epoca.

In particolare, verranno indagate le figure dei due papi del ‘900, il bergamasco Giovanni XXIII e il bresciano Paolo VI, e il loro rapporto con l’arte e gli artisti, da Picasso a Chagall, da Matisse a Dalí fino a Manzù; le tradizioni gastronomiche e quelle musicali tra Rinascimento e XX secolo; infine un focus particolare sarà riservato all’avventura del grande architetto Marcello Piacentini, attivo nei primi decenni del Novecento tra Bergamo e Brescia, dove trasformò il volto urbano delle due città.

“Per un anno unico e irripetibile come sarà per Brescia e Bergamo il 2023 – afferma il curatore Davide Dotti – ho ideato un’esposizione speciale e diversa rispetto alle ultime otto curate in Palazzo Martinengo. La mostra, infatti, sposando il significato profondo della Capitale Italiana della Cultura 2023, proporrà un inedito ed emozionante confronto tra i più grandi pittori attivi nelle due città durante i quasi quattro secoli di dominazione veneziana, dando così vita un vero e proprio derby artistico e culturale che proseguirà al piano nobile di Palazzo Martinengo nelle sezioni dedicate all’architettura, alla musica, alle tradizioni gastronomiche e ai due grandi papi del Novecento e al loro rapporto con l’arte e gli artisti. Percorrendo le sale del Palazzo il pubblico compirà così un emozionante viaggio ricco di opere inedite, sorprese e curiosità, il cui obiettivo è dare risalto allo straordinario patrimonio culturale che si è stratificato nel corso dei secoli a Brescia e Bergamo, nonché stimolare una nuova presa di coscienza su un capitolo fondamentale della storia dell’arte italiana, scritto dai grandi maestri della pittura attivi nelle due città, gemellate nell’anno della Capitale Italiana della Cultura”.

L’esposizione è il nuovo appuntamento espositivo dell’Associazione Amici di Palazzo Martinengo che fa seguito ai successi di pubblico e di critica ottenuti con le rassegne Il Cibo nell’Arte dal Seicento a Warhol (2015), Lo Splendore di Venezia. Canaletto, Bellotto, Guardi e i vedutisti dell’Ottocento (2016), Da Hayez a Boldini. Anime e volti della pittura italiana dell’Ottocento (2017), Picasso, De Chirico, Morandi. Cento capolavori dalle collezioni private bresciane (2018), Gli animali nell’arte dal Rinascimento a Ceruti (2019), Donne nell’arte. Da Tiziano a Boldini (2020-2022), visitate da oltre 300.000 persone.

Catalogo Silvana Editoriale


LOTTO, ROMANINO, MORETTO, CERUTI
I campioni della pittura a Brescia e Bergamo
Brescia, Palazzo Martinengo (via dei Musei 30)
21 gennaio – 11 giugno 2023

Orari:
mercoledì, giovedì e venerdì, dalle 9:00 alle 17:00
sabato, domenica e festivi, dalle 10:00 alle 20:00
lunedì e martedì chiuso
La biglietteria chiude un’ora prima

Aperture straordinarie:
Pasqua (9 Aprile), Pasquetta (10 Aprile), 24 Aprile, 25 Aprile, 1 Maggio, 2 Maggio, 2 Giugno

Biglietti (audioguida compresa):
intero, €14,00
ridotto, €12,00 (gruppi superiori alle 15 unità, minori di 18 e maggiori di 65 anni, studenti universitari con tesserino, soci Touring Club con tessera, soci FAI con tessera, insegnanti, possessori di carta di credito e bancomat Banco BPM)
ridotto scuole, €6,00
gratuito, minori di 6 anni, disabili con un accompagnatore, giornalisti con tesserino, guide turistiche, due insegnanti per scolaresca, un accompagnatore per gruppo di adulti

Visite guidate gruppi:
€80,00 per gruppi di adulti; €45,00 per le scuole
La prenotazione è obbligatoria per tutte le tipologie di visita guidata
prenotazioni scuole: tel. 392-7697003; prenotazioniscuole@gmail.com
prenotazioni gruppi: tel. 392-7697003; gruppi@amicimartinengo.it

Informazioni: tel. 392-7697003; mostre@amicimartinengo.it
www.mostrabresciabergamo.it

Amici Palazzo Martinengo
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TEFAF New York a Maggio 2023

TEFAF NEW YORK 2023

New York City, Park Avenue Armory

12–16 Maggio 2023

TEFAF New York è la fiera annuale che propone arte moderna e contemporanea, gioielli, antiquariato e design da oltre 90 gallerie provenienti da tutto il mondo. L’ottava edizione di TEFAF New York si terrà dal 12 al 16 maggio 2023, come di consueto al Park Avenue Armory, uno degli edifici storici più belli ed eleganti di Manhattan, dove i più importanti mercanti d’arte del mondo esporranno capolavori di varie epoche. La fiera newyorchese è ampiamente apprezzata per aver introdotto nuovi modi di guardare, pensare e vivere l’arte. TEFAF New York offrirà un’interessante programma culturale con presenze di spicco del mondo dell’arte e, nello stesso periodo, anche un’edizione di TEFAF Online con una selezione dei capolavori esposti all’Armory.

Biglietti acquistabili a partire da marzo 2023

TEFAF New York

TEFAF New York è stata fondata all’inizio del 2016, originariamente come due fiere d’arte annuali a New York entrambe allestite presso il Park Avenue Armory ovvero: TEFAF New York Fall e TEFAF New York Spring. Oggi, TEFAF New York è un’unica fiera annuale che presenta arte moderna e contemporanea, gioielli, antiquariato e design, con circa 90 espositori di spicco provenienti da tutto il mondo. Tom Postma Design, studio famoso per soluzioni innovative ideate per importanti musei, gallerie e fiere d’arte, ha sviluppato un allestimento che interagisce con gli spazi spettacolari dell’edificio storico dando loro un aspetto più leggero e contemporaneo. Gli stand degli espositori si estenderanno su tutto l’edificio simbolo dell’Armory, comprendendo la Wade Thompson Drill Hall, il primo e secondo piano con le sale d’epoca dell’Armory, dando vita ad una fiera elegante nei dettagli e di impatto senza precedenti a New York.

TEFAF

TEFAF è una fondazione no profit che sostiene l’esperienza e la varietà della comunità globale dell’arte, come dimostrano gli espositori selezionati per le sue due Fiere annuali di Maastricht e New York. TEFAF si pone come guida esperta per i collezionisti privati e istituzionali del mercato globale dell’arte, ispirando appassionati e collezionisti di tutto il mondo

TEFAF Maastricht si terrà al MECC Maastricht dall’11 al 19 marzo 2023. Il 9 e 10 marzo solo su invito.

Il TEFAF di New York si terrà al Park Avenue Armory dal 12 al 16 maggio 2023. L’11 maggio solo su invito.


QUANDO:                  
Maggio 12–16, 2023.  (il giorno 11 solo su invito).

DOVE:                      
Park Avenue Armory
643 Park Avenue (tra la 66ma e la 67ma strada)
New York, NY 10065

Website:                  
https://www.tefaf.com/fairs/tefaf-new-york

Contatti Stampa:     
Sharp Think | tefaf@sharpthink.com;
Per l’Italia: Studio ESSECI, roberta@studioesseci.net