9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – I cani

9- La vita a CostantinopoliI cani

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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E allora sarà anche sparita da Costantinopoli una delle sue curiosità più curiose, che sono i cani. Qui proprio voglio lasciar correre un po’ la penna perché l’argomento lo merita. Costantinopoli è un immenso canile: tutti l’osservano appena arrivati. I cani costituiscono una seconda popolazione della città, meno numerosa, ma non meno strana della prima. Tutti sanno quanto i Turchi li amino e li proteggano. Non ho potuto sapere se lo facciano per il sentimento di carità che raccomanda il Corano anche verso le bestie; o perché li credano, come certi uccelli, apportatori di fortuna, o perché li amava il Profeta, o perché ne parlano le loro sacre storie, o perché, come altri pretende, Maometto il Conquistatore si conduceva dietro un folto stato maggiore canino che entrò trionfante con lui per la breccia di porta San Romano. Il fatto è che li hanno a cuore, che molti turchi lasciano per testamento delle somme cospicue per la loro alimentazione, e che quando il sultano Abdul-Mejid li fece portar tutti nell’isola di Marmara, il popolo ne mormorò, e quando ritornarono, li ricevette a festa, e il Governo, per non provocar malumori, li lasciò in pace per sempre. Però, siccome il cane, secondo il Corano, è un animale immondo, e ogni turco, ospitandolo, crederebbe di contaminare la casa, così nessuno degli innumerevoli cani di Costantinopoli ha padrone. Formano tutti insieme una grande repubblica di vagabondi liberissimi, senza collare, senza nome, senza uffici, senza casa, senza leggi. Fanno tutto nella strada; vi si scavano delle piccole tane, vi dormono, vi mangiano, vi nascono, vi allattano i piccini, e vi muoiono; e nessuno, almeno a Stambul, li disturba minimamente dalle loro occupazioni e dai loro riposi. Essi sono i padroni della via. Nelle nostre città è il cane che si scansa per lasciar passare i cavalli e la gente. Là è la gente, sono i cavalli, i cammelli, gli asini che fanno anche un lungo giro per non pestare i cani. Nei luoghi più frequentati di Stambul, quattro o cinque cani raggomitolati e addormentati proprio nel bel mezzo della strada, si fanno girare intorno per una mezza giornata tutta la popolazione d’un quartiere. E lo stesso accade a Pera e a Galata, benché qui siano lasciati in pace non già per rispetto, ma perché sono tanti, che a volerseli cacciare di fra i piedi, bisognerebbe non far altro che tirar calci e legnate dal momento che s’esce di casa al momento che si ritorna. A mala pena si scomodano quando, nelle strade piane, si vedono venire addosso una carrozza a tiro a quattro, che va come il vento, e non ha più tempo di deviare. Allora si alzano, ma non prima dell’ultimo momento, quando hanno le zampe dei cavalli a un filo dalla testa, e trasportano stentatamente la loro pigrizia quattro dita più lontano: lo strettissimo necessario per salvare la vita. La pigrizia è il tratto distintivo dei cani di Costantinopoli. Si accucciano in mezzo alle strade, cinque, sei, dieci in fila od in cerchio, arrotondati in maniera che non paiono più bestie, ma mucchi di sterco, e lì dormono delle giornate intere, fra un viavai e uno strepito assordante, e non c’è né acqua, né sole, né freddo che li riscuota. Quando nevica, rimangono sotto la neve; quando piove, restano immersi nella mota fin sopra la testa, tanto che poi, alzandosi, paiono cani sbozzati nella creta, e non ci si vede più né occhi, né orecchie, né muso. A Pera e a Galata, però, son meno indolenti che a Stambul, perché ci trovano meno facilmente da mangiare. A Stambul sono in pensione, a Pera e a Galata mangiano alla carta. Sono le scope viventi delle strade. Quello che rifiutano i maiali, per loro è ghiottoneria. Fuor che i sassi mangiano tutto, e appena hanno tanto in corpo da non morire, tornano a raggomitolarsi in terra e ridormono fin che non li sveglia la fame. Dormono quasi sempre nello stesso luogo. La popolazione canina di Costantinopoli è divisa per quartieri come la popolazione umana. Ogni quartiere, ogni strada è abitata, o piuttosto posseduta da un certo numero di cani, parenti ed amici, che non se ne allontanano mai, e non vi lasciano penetrare stranieri. Esercitano una specie di servizio di polizia. Hanno i loro corpi di guardia, i loro posti avanzati, le loro sentinelle fanno la ronda e le esplorazioni. Guai se un cane d’un altro quartiere, spinto dalla fame, s’arrischia nei possedimenti dei suoi vicini! Una frotta di cagnacci insatanassati gli piomba addosso, e se lo coglie, lo finisce; se non può coglierlo, lo insegue rabbiosamente fino ai confini del quartiere. Sino ai confini, non più in là; il paese nemico è quasi sempre rispettato e temuto. Non si può dare un’idea delle battaglie, dei sottosopra che seguono per un osso, per una bella, o per una violazione di territorio. Ogni momento si vede una frotta di cani stringersi furiosamente in un gruppo intricato e confuso, e sparire in un nuvolo di polvere, e lì urli e latrati e guaiti da lacerare le orecchie ad un sordo; poi la frotta si sparpaglia, e a traverso il polverio diradato si vedono distese sul terreno le vittime della mischia. Amori, gelosie, duelli, sangue, gambe rotte e orecchie lacerate, son l’affare d’ogni momento. Alle volte se ne radunano tanti e fanno tali baldorie davanti a una bottega, che il bottegaio e i garzoni son costretti ad armarsi di stanghe e di seggiole e a fare una sortita militare in tutte le regole per sgombrare la strada; e allora si sentono risuonare teste e schiene e pance, e ululati che fanno venir giù l’aria. A Pera e a Galata in specie, quelle povere bestie sono tanto malmenate, tanto abituate a toccare una percossa ogni volta che vedono un bastone, che al solo sentir battere sul ciottolato un ombrello o una mazzina, o scappano o si preparano a scappare; ed anche quando sembra che dormano, tengono quasi sempre un occhio socchiuso, un puntino impercettibile di pupilla, con cui seguono attentissimamente, anche per un quarto d’ora filato, e a qualunque distanza, tutti i più leggeri movimenti di qualsiasi oggetto che abbia apparenza d’un bastone. E son così poco assuefatti a trattamenti umani, che basta, passando, accarezzarne uno, che dieci altri accorrono saltellando, mugolando, dimenando la coda, e accompagnano il protettore generoso fino in fondo alla strada, cogli occhi luccicanti di gioia e di gratitudine. La condizione d’un cane a Pera e a Galata è peggiore, ed è tutto dire, di quella d’un ragno in Olanda, che è l’essere più perseguitato di tutto il regno animale. Non si può, vedendoli, non credere che ci sia anche per loro un compenso dopo morte. Anch’essi, come ogni altra cosa a Costantinopoli, mi destavano una reminiscenza storica; ma era un’amara ironia; erano i cani delle cacce famose di Baiazet, che correvano per le foreste imperiali dell’Olimpo colle gualdrappine di porpora e coi collari imperlati. Quale diversità di condizione sociale! La loro sorte infelice dipende anche in parte dalla loro bruttezza. Sono quasi tutti cani della razza dei mastini o dei can lupi, e ritraggono un po’ del lupo e della volpe; o piuttosto non ritraggono di nulla; sono orribili prodotti d’incrociamenti fortuiti, screziati di colori bizzarri, della grandezza dei così detti cani da macellaio, e magri che se ne possono contar le costole a venti passi. La maggior parte poi, oltre alla magrezza, son ridotti dalle risse in uno stato che, se non si vedessero camminare, si piglierebbero per carcami di cani macellati. Se ne vedono colla coda mozza, colle orecchie monche, col dorso spelato, col collo scorticato, orbi d’un occhio, zoppi di due gambe, coperti di guidaleschi e divorati dalle mosche; ridotti agli ultimi termini a cui si può ridurre un cane vivente; veri avanzi della fame, della guerra e della vaga venere. La coda, si può dire che è un membro di lusso: è raro il cane di Costantinopoli che la serbi intera per più di due mesi di vita pubblica. Povere bestie! metterebbero pietà in un cuore di sasso; eppure, si vedono qualche volta potati e rosicchiati in un modo così strano, si vedono camminare con certi dondolamenti così svenevoli, con certi barcollii così grotteschi, che non si possono trattenere le risa. E non son né la fame né la guerra né le legnate il loro peggiore flagello: è un uso crudele invalso da qualche tempo a Galata e a Pera. Sovente, di notte, i pacifici peroti sono svegliati nei loro letti da un baccano indiavolato; e affacciandosi alle finestre, vedono giù nella strada una ridda spaventevole di cani che spiccano salti altissimi, e fanno rivoltoloni furiosi e battono capate tremende nei muri; e la mattina all’alba la strada è coperta di cadaveri. È il dottorino o lo speziale del quartiere, che avendo l’abitudine di studiare la notte, e non volendo esser disturbati dalla canea, si sono procurati una settimana di silenzio con una distribuzione di polpette. Queste ed altre cagioni fanno sì che il numero dei cani diminuisca continuamente a Pera e a Galata; ma a che pro? Intanto a Stambul crescono e si moltiplicano, sin che non trovando più alimento nella città turca, migrano a poco a poco all’altra riva, e riempiono nella famiglia sterminata tutti i vuoti che v’han fatto le battaglie, la carestia e il veleno.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

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