L’isola di Saint Barth – Fu Cristoforo Colombo a donarle il nome di suo fratello Bartolomeo

CHAMPAGNE SAINT BARTH

Saint Barth (Saint Barthélemy è il suo nome per intero) – nei meravigliosi Caraibi –  è ricca di vegetazione, insenature e collinette che dominano il mare. Personaggi del calibro di Madonna, Naomi Campbell e Claudia Schiffer, nel corso degli anni ’80 e ’90 hanno fatto conoscere al mondo questo piccolo paradiso che da allora è diventato una delle mete più costose e chic del mondo.

Fu Cristoforo Colombo il primo europeo a metter piede sull’isola di Saint Barth nel 1493 e le donò un nome speciale: quello di suo fratello Bartolomeo.

Situata nelle piccole Antille dei Caraibi e abitata a quel tempo da indigeni dediti alla pesca, nel corso dei secoli successivi l’isola di Saint Barth ha assistito al passaggio di numerosi coloni: Svezia, Francia e Ordine di Malta si sono susseguiti negli anni e hanno lasciato il segno in piccoli dettagli. La capitale Gustavia ad esempio, si chiama così per il passaggio di Re Gustav.

In seguito al referendum del 1878 l’isola di Saint Barth torna sotto il controllo della Francia che trasmette tradizioni, leggi e cultura: si ritrova nel profumo di baguette che si sente passando davanti alle boulangeries, nei piatti tipici della cucina francese, nello charme trasmesso dagli abitanti del posto, nell’atmosfera elegante che si percepisce in ogni angolo.

Oggi Saint Barth è un’isola per pochi perché la notevole popolarità data da stilisti, attori, modelle e fotografi, ha reso questo fazzoletto di terra una destinazione d’élite, dove i prezzi di ville affacciate sul mare raggiungono cifre astronomiche e dove gli hotel con meno di 4 stelle si contano sulle dita di una mano. Ma un viaggio da queste parti, merita davvero? Come dicono gli americani, tanto amanti di questa zona del mondo, yes, definitely.


Pecorino Sardo: un nome che è un’istituzione

Le prime notizie storiche sulle tecniche di produzione dei formaggi sardi risalgono alla fine del ‘700. I formaggi allora prodotti erano denominati i bianchi, i rossi fini, gli affumicati, la fresa e lo spiatatu. Il rosso fino e l’affumicato potrebbero essere considerati i progenitori del Pecorino Sardo DOP. Questi formaggi venivano ottenuti da latte crudo o da latte riscaldato con pietre arroventate immerse in esso, che ne uccidevano i batteri. Alcuni produttori usavano effettuare la semicottura, o come si usava dire in gergo si “riportava a fuoco” la cagliata. Agli inizi del ‘900 cominciano a diffondersi gradualmente alcune nuove pratiche di base, quali l’uso del termometro, la filtrazione del latte, l’impiego di caglio liquido titolato e di macchinari moderni per una lavorazione igienicamente più sana. In questo periodo alcuni importanti studiosi del settore parlano di un pecorino dolce, fabbricato con caglio liquido di vitello e con cottura della cagliata seguita da compressione della pasta con un torchio.

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PECORINO SARDO

Salamini Italiani alla Cacciatora: una piccola riserva di gusto

La Denominazione Cacciatore deriva etimologicamente dal suo originario utilizzo nella razione che i cacciatori portavano nelle bisacce durante le loro escursioni. La storia del prodotto si sviluppa di pari passo con l’evoluzione della cultura rurale tipica delle regioni che compongono il territorio di produzione, da cui deriva la materia prima lavorata secondo tradizioni consolidate. I richiami storici al salame Cacciatore sono presenti soprattutto nelle tradizioni gastronomiche lombarde che si sono mantenute fino ai nostri giorni.

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SALAMINI ITALIANI ALLA CACCIATORA

Vetro di Empoli: servizi da tavola e oggetti per l’arredamento

La produzione del vetro, sebbene già presente a Empoli nel XV secolo, incontrò un notevole impulso nella seconda metà del Settecento, quando Domenico Lorenzo Levantini cominciò a produrre maiolica e vetro in prossimità di Porta Pisana. Proprio in questa fornace, Francesco Del Vivo e Michele Ristori fondarono una vetreria nel 1830 che mantenne la sua attività fino al 1984. Le fabbriche assorbivano al proprio interno gran parte della forza lavoro per la produzione del vetro e per le seconde lavorazioni, mentre la vestizione di fiaschi e oggetti di “bufferia”, svolta a domicilio dalle “fiascaie”, rappresentava una considerevole risorsa occupazionale per migliaia di donne. La lavorazione del vetro artistico e del vetro verde di Empoli fu un connubio felice, dal quale nacque una delle più originali espressioni dell’artigianato artistico italiano degli anni Trenta del ‘900: una produzione ampia e articolata, composta di servizi per la tavola e di oggetti per l’arredamento, capaci di portare una ventata di assoluta contemporaneità nella casa moderna.

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IL VETRO DI EMPOLI

Cappello di Paglia di Signa: maestria nell’intreccio delle fibre vegetali

L’intreccio delle fibre vegetali è una delle più antiche attività dell’uomo, che ispirandosi alla natura realizzò nel tempo contenitori delle fogge più varie e copricapo per ripararsi dal sole.  Nel 1714 a Signa, Domenico Michelacci detto Bolognino, cominciò a coltivare grano marzuolo, dalla spiga piccola con chicchi minuti, per ottenere paglia da intrecciare. Lo seminò fitto, affinché nel cercare la luce crescesse in lunghezza, ed in solchi poco profondi, per poterlo poi facilmente sbarbare ancora flessibile prima che il culmo ingrossasse e la spiga granisse. Il Michelacci, avvalendosi della maestria diffusa nell’intreccio della paglia per fare cappelli, ne fece fare una gran quantità, utilizzando gli ultimi internodi di quegli steli. Presentò quindi quei bei prodotti sulla piazza di Livorno, ottenendo immediatamente un grandissimo successo, confermatosi in breve specialmente in Inghilterra, che ne commissionò sempre maggiori quantità.

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IL CAPPELLO DI PAGLIA DI SIGNA

 

Chianti Classico: olio extravergine di oliva sulle tavole del mondo

L’olio extravergine di oliva Chianti Classico DOP è il risultato di un’attenta attività di sperimentazione e verifica che richiede grande impegno e rigore tecnico per raggiungere la sua eccellenza. La sua tradizione secolare è iniziata nel Trecento dopo Cristo ed è a partire da quest’epoca che per motivi religiosi (legati ai rituali e alle cerimonie cattoliche), nutrizionali ma anche per l’incremento delle popolazioni nell’area compresa tra Firenze e Siena, la coltivazione degli olivi cominciò a diffondersi e molte zone furono trasformate da boschi in oliveti e vigneti. Questa trasformazione agricola ha determinato le caratteristiche del paesaggio toscano che racchiudono il loro fascino proprio nel modo in cui l’attività agricola si inserisce nell’ambiente naturale.

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CHIANTI CLASSICO

La Pietra di Oratino: questo è il lavoro dello scalpellino

La lavorazione della pietra in Molise ha radici antichissime; si pensa che strutture e oggetti in pietra venivano realizzati primariamente per garantire la sicurezza e la sopravvivenza delle popolazioni. In alcuni centri della regione si possono rinvenire interi centri abitati costruiti in pietra, così come è facile imbattersi in bellissimi esempi di elementi architettonici e decorativi quali capitelli e statue. Un tempo, quando le condizioni di trasporto erano ancora molto difficoltose a causa delle distanze territoriali, lo scalpellino andava alla ricerca della materia prima da lavorare e la scolpiva in loco, senza portarla presso la sua bottega, risparmiando così tempo e fatica. Lavorare la pietra è, oggi come allora, un’attività che richiede pazienza e attenzione, così come estro e fantasia.

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LA PIETRA DI ORATINO

 

Le Ceramiche della provincia di Reggio Calabria: dall’argilla splendidi capolavori

La produzione di ceramiche artistiche nella provincia di Reggio Calabria e, più in generale, nell’intera Regione, costituisce una delle tradizioni locali più antiche e fiorenti; grazie alla tenacia di abili maestri ceramisti, da un lato, e all’intraprendenza di giovani capaci, dall’altro, è giunto, sino ai nostri giorni, uno di quegli antichi mestieri le cui origini, tecniche e tradizioni, tramandate di padre in figlio, risalgono ad un lontano passato. Più in generale, i primi manufatti in terracotta derivano dal periodo neolitico e sono stati rinvenuti in Giappone; altri antichi centri di lavorazione dell’argilla sono stati la Siria, la Mesopotamia, la Cina e l’antica Grecia. Com’è facilmente intuibile, quest’ultima zona geografica ha prodotto una notevole influenza su tutto il bacino del Mediterraneo, compresa la Calabria.

In Calabria, i principali centri di produzione artigianale della ceramica ricadono nella provincia di Reggio Calabria ed, in particolare, nei comuni di Seminara, Gerace, Bagnara Calabra e nei territori limitrofi, nonché nel comune capoluogo. La produzione tradizionale si ritrova anche nei comuni di Squillace (Cosenza) e Gerocarne (Vibo Valentia). E’ importante evidenziare che la maggior parte dei ceramisti calabresi, grazie all’apprezzamento e alla preservazione delle antiche tecniche di lavorazione della ceramica, è riuscita a perpetrare un’arte particolare e tipica, caratterizzata da numerosi manufatti di gusto popolare, apprezzati e spesso investiti da una serie di simbolismi e ritualità.

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LE CERAMICHE DELLA PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA

 

I Pupi Siciliani: in scena le gesta dei grandi eroi medievali

L’Opera dei Pupi siciliana (Opra) è uno spettacolo caratteristico teatrale in cui le marionette, animate dai “pupari”, rappresentano le gesta dei più grandi eroi medievali che lottarono per la cristianità contro i saraceni. In particolare, il tema più ricorrente dell’Opra fu lo scontro fra i paladini di Carlo Magno e i guerrieri musulmani che, occupata la penisola iberica, rappresentavano una vera minaccia per il regno franco e per l’intera Europa cristiana. Secondo la tradizione storiografica il teatro delle marionette a soggetto cavalleresco, era già noto in Spagna nel 500, fu introdotto in Francia nel XVII sec. e diffuso in Italia (Sicilia) dalla città di Napoli nei primi decenni dell’800. Nell’isola, esso acquisì rapidamente caratteristiche specifiche che fecero ben distinguere l’Opera dei Pupi dalla generica arte delle marionette. I Pupi siciliani vennero infatti rivestiti con elaborate armature di metallo ed il filo direzionale della mano destra fu sostituito da un’asta di ferro, più adatta a far compiere alla marionetta movimenti diretti e precisi, specialmente durante i combattimenti e i duelli.

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I PUPI SICILIANI

Il valore del patrimonio culturale: una sfida da considerare

di Sergio Bertolami

Parliamo spesso di cultural heritage, l’eredità culturale che dal passato si trasmette alle generazioni future. Una eredità tangibile o intangibile. L’elenco sarebbe lungo: dalla lingua all’alimentazione, dai costumi alle tradizioni, dall’artigianato alle arti. Una eredità storica che permette di raccontare l’essenza dell’uomo. Scriveva Lucien Febvre, nel 1949: «La storia si fa con i documenti scritti, certamente. Quando esistono. Ma la si può fare, la si deve fare senza documenti scritti se non ce ne sono. Con tutto ciò che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per produrre il suo miele se gli mancano i fiori consueti. Quindi con delle parole. Dei segni. Dei paesaggi e delle tegole. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietre fatte dai geologi e con le analisi di metalli fatte dai chimici. Insomma, con tutto ciò che, appartenendo all’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, dimostra la presenza, l’attività, i gusti e i modi di essere dell’uomo».

Parliamo spesso di eredità culturale, dunque, ma facciamo fatica ad afferrarne il significato intrinseco. Non accadeva nei tempi passati, quando si parlava meno e si agiva di più. Una quantità di chiese medievali del nostro territorio, dall’originario corpo unico sono state portate a tre e persino a cinque navate. Oggi sarebbe scandaloso. La maggior parte sono sorte in epoca romanica col contributo di generazioni di fedeli che, di secolo in secolo, con le proprie offerte le hanno completate nelle murature e arricchite nelle decorazioni. I prospetti e i sagrati sono edificazioni perlopiù ottocentesche. Non solo i luoghi di culto, ma tutte le architetture di quelli che oggi chiamiamo “centri storici” sono state modificate e a loro volta hanno modificato il tessuto urbano connettivo. Ieri, erano borghi palpitanti di vita. Oggi, per salvaguardarli, dovremmo considerarli alla stregua di musei permanenti a cielo aperto. Un’eredità culturale intoccabile, da conservare e da proteggere, perennemente sottoposta ai pericoli del degrado.

Il ragionamento vale dalla scala urbana a quella degli oggetti. Sono pezzi unici e impagabili, per ricchezza artistica o consistenza documentaria; nelle teche di vetro fanno mostra delle epoche passate. Solo gli esperti possono sfiorare questi oggetti, ma con grande precauzione. Lo stuolo dei visitatori li può solo ammirare; alcuni di essi, li venerano come icone santissime. Oggi, però, non si costruiscono più musei a immagine dei grandi templi nazionalistici della civiltà, come il Louvre, il British, il Metropolitan. Al contrario, troviamo un po’ d’ovunque piccoli musei di cultura materiale: in abbazie, castelli, case di campagna e fattorie, miniere di sale o di carbone, magazzini e prigioni. C’è persino chi, come lo scrittore turco Orhan Pamuk, con il suo “Museo dell’Innocenza” a Istanbul, afferma la necessità di nuovi musei, che attraverso oggetti modesti «onorino i quartieri e le strade e le case e i negozi nelle vicinanze, e li trasformino in elementi delle loro mostre». Questi oggetti tramutano la realtà del vivere quotidiano in museo dell’esistenza umana. Una tale visione sconcerta i benpensanti, ancorati al pregio artistico; ma mette in gioco, e forse riesce a chiarire, le idee confuse sull’eredità culturale di cui stiamo parlando. Così come è comunemente inteso, questo patrimonio ereditato dal passato rispecchia la memoria dei morti piuttosto che quella dei vivi. In realtà occorrerebbe congelare il tempo scisso nelle dimensioni antitetiche di passato e presente, per considerarlo, invece, una continuità mutevole. Il passato fluisce nel presente senza alcuna interruzione, rendendo l’eredità culturale sempre viva.

Per comprendere appieno la differenza fra il patrimonio dei morti e quello dei vivi, basterebbe un semplice esempio. Pamuk assicura che i musei sono nelle nostre case, quindi l’esempio è volutamente impostato proprio su degli oggetti comuni, apparentemente senza qualità. Il portafogli di un parente scomparso è custodito per richiamarne la memoria. Perché non si è conservato nella stessa maniera il contante che vi era contenuto? Perché non si sono disposte sotto vetro banconote e monete in corso, come faremmo con qualsiasi altro oggetto personale appartenuto a quel parente particolarmente caro: l’orologio da taschino del nonno, il cestino da cucito della nonna, lo scatto sbiadito che li ritrae nel giorno delle nozze o attorniati dai nipoti. L’argenteria ereditata viene esibita in vetrina, ma il conto bancario è riscosso. Le cianfrusaglie sono finite in cantina, i beni preziosi invece venduti o impiegati o investiti. In alcuni casi, il patrimonio non è disperso, come nell’antica legge sul maggiorascato; in altri, il patrimonio è inalienabile, come per i beni sottoposti a tutela.

L’esempio, di sicuro stravagante, è la raffigurazione tangibile di come la concezione del valore sia sovente enigmatica. Una eredità familiare dimostra il legame tra chi è scomparso e chi rimane; è da considerarsi viva, perché si trasmette di persona in persona, produce effetti e si trasforma in nuova vita. È il medesimo legame espresso dalle eredità collettive, come nell’esempio delle chiese romaniche, in epoca storica patrimonio di una comunità che utilizzava la ricchezza comune, la conservava, la proteggeva, e nel caso la modificava per rispondere alle rinnovate esigenze. Il valore del bene rispondeva a una utilità sociale condivisa da tutti. A dimostrazione che l’eredità culturale non era frutto della schizofrenia identitaria di oggi. In passato, seppure in presenza di forti disuguaglianze – una ristretta élite colta e una massa largamente analfabeta – il senso di appartenenza, di generazione in generazione, era elemento fondamentale nella trasmissione e nella salvaguardia del bene ereditato. (>>> Continua).