15 – Quel filo di luce nell’Arte della seta

Dove si parla dei sistemi di produzione della seta. Appare chiaro come l’intero ciclo di lavorazione coinvolga interi strati di popolazione indaffarata a coltivare la materia prima, poi a filarla, a tesserla, in ultimo a tingerla e ricamarla. Agricoltura ed artigianato sono strettamente legati. Le pratiche religiose non sono, però, le uniche ad essere adoperate per proteggere il ciclo lavorativo fino alla sua conclusione. Si usano allo stesso tempo accorgimenti riferiti alla superstizione. Maghi e magare sono, a pieno titolo, integrati nella comunità per fare o disfare sortilegi.

In biblioteca il silenzio era d’obbligo. La ragazza e altre due studentesse, alle prese anche loro con la tesi di laurea, erano le uniche persone presenti nella piccola sala soffocata dalla calura che il ventilatore a pale non riusciva a mitigare. Balzava all’attenzione la sequenza delle Gazzette ufficiali, rilegate in una tela verdastra con impressioni in argento. Alle pareti vecchie locandine e manifesti ottocenteschi. Uno fra questi annunciava la stagione di canto, ballo e prosa al Teatro della Munizione. In fin dei conti un ambiente modesto, ma ordinato e decoroso.
L’addetto, nel consegnarle il libro, le diede involontariamente del tu, un’abitudine acquisita negli anni con gli studenti. Lei scorse subito il testo come se avesse ricevuto un dono prezioso. Anton Giulio Filoteo degli Omodei, Descrizione dell’Isola di Sicilia. In calce all’ultima pagina era scritto: Terminata oggi primo maggio 1577. La ragazza si immerse nella lettura, come faceva ormai da giorni, impegnata a documentare i sistemi di produzione e di lavorazione della seta. Le consultazioni segnalavano che tali processi, in Sicilia, rimasero inalterati per centinaia d’anni, giacché le descrizioni che ne davano nel Cinquecento autori come Filoteo, potevano essere estese a qualsiasi epoca preindustriale. Dalle notizie che aveva raccolto appariva evidente la stretta connessione fra agricoltura e artigianato, con la partecipazione di varie categorie di lavoratori, occupati a coltivare la materia prima, poi a filarla, a tesserla, e in ultimo a tingerla e ricamarla.
La fase iniziale del ciclo della seta era propriamente agricola, rappresentata dalla coltura dei gelsi e dall’allevamento dei bachi. Le fronde alimentavano la voracità delle larve. Accudirvi era la fase più delicata. Implicava la nascita e la nutrizione, la raccolta dei bozzoli, e infine la conservazione della semente per l’annata successiva. Le operazioni avvenivano in campagna e spesso, fino a qualche anno prima, anche la filatura si affidava a contadine che eseguivano il lavoro in casa, retribuito a cottimo in relazione ai manufatti effettivamente prodotti, come già avveniva per lino e cotone.
Vitello voleva introdursi nel mondo della seta messinese – rifletteva la ragazza – ma per riuscirci doveva capire da chi procurarsi la materia prima. Donna Paula poteva essere il suo passepartout. Era probabile che la contadina si dedicasse anche lei ad allevare il baco e a filare col fuso o tessere i panni familiari col suo telaio domestico.
Stava considerando questa ipotesi, quando il bibliotecario sottovoce l’avvertì di essere desiderata in direzione. Rimase sorpresa, ma afferrò l’idea nell’intravedere sulla porta dell’ufficio il professore in amichevole conversazione. Affabilmente il direttore insisteva per lasciare la propria stanza a disposizione dell’amico.
Tranquillo e riservato, parve subito l’ambiente ideale per concentrarsi sul lavoro. Si accomodarono dallo stesso lato della scrivania. Il piano di mogano, con i bordi intagliati da ovuli e foglie, richiamava alla memoria fregi rinascimentali. A parete un quadro con la Scilla di Montorsoli.
La ragazza cominciò a esporre i temi della ricerca sviluppata e il professore non intese interromperla.
«A partire dal Quattrocento nel territorio messinese, più che in altre parti della Sicilia, in modo costante e progressivo incominciò a fiorire una vera e propria industria della seta.
Come ricordava anche lei, professore, le piantagioni di gelsi iniziarono ad aggiungersi a quelle della vigna e dell’ulivo e a soppiantare, quasi del tutto, le aree destinate a cereali, che in epoca precedente avevano costituito quasi completamente le risorse della campagna a vantaggio della città.
I messinesi, in anticipo sui tempi, accentrarono la produzione su poche colture remunerative – vite, olivo, gelso – escludendo il frumento, che presero ad acquistare con i ricavi della nuova industria e del traffico marittimo. La vendita della seta grezza, assieme a quella del vino e dell’olio, si rivelò indispensabile per mutare le condizioni di povertà, persistenti in gran parte delle famiglie contadine…».
Il professore ascoltava la giovane, apprezzando la sua esposizione lineare e i modi garbati attraverso i quali sapeva concatenare i concetti. Prese dalla tasca il sacchetto del tabacco e si accinse a caricare la pipa: un esercizio che amava fare, per meglio concentrarsi, anche se poi non l’avrebbe accesa, nel rispetto del divieto di fumare. Con un cenno la invitò a proseguire.
«In verità non possiamo parlare di una vera e propria rivoluzione agricola», riprese la ragazza, «perché da molti contratti si può dedurre che per le coltivazioni erano sempre praticati i metodi tradizionali, all’interno di un sistema altrettanto tradizionale».
«Gran parte della popolazione», intervenne il professore, «iniziò, dunque, a coltivare gelsi e a produrre seta grezza, come in precedenza si era fatto in modo più modesto con lana, cotone, lino… Tuttavia, ci volle tempo prima di comprendere che coltivare gelsi era una ricchezza. Capitava che in inverno, per ottenere legna da ardere, i contadini tagliassero questi alberi, né più né meno di come facevano con altre essenze legnose. Per evitare quell’autentica calamità economica furono emanati bandi con l’assoluto divieto di toccare i gelsi».
«All’inizio queste attività», continuò la ragazza, «furono a conduzione familiare, ma a partire dal Quattrocento e con grande sviluppo nel secolo successivo diverranno progressivamente una vera e propria industria, poiché, a detta di tutte le fonti, il filato messinese era molto ricercato: bianco, raffinato, sottile. Questa decantata qualità si riferiva unicamente al sistema di lavorazione. In realtà la varietà di gelso dal frutto nero permetteva di ricavare una qualità di seta resistente, tuttavia gialliccia, mediocre e dozzinale. Si sopperiva a questo con una lavorazione suppletiva, che incise sui costi di un mercato sempre più competitivo».
Il professore annuiva convinto, sempre pronto ad aggiungere qua e là degli incisi:
«Stavo pensando», puntualizzò, «che l’opera svolta dai contadini costituisce il retroterra dell’attività di tessitore esercitata da Vitello. Sarebbe interessante soffermarsi sulle varie fasi riguardanti la coltivazione dei filugelli».
«Aggiungerei che interessa anche l’attività condotta da Pellegrina, per i rituali propiziatori associati alle consuetudini di lavoro. Erano soprattutto le donne a prendersi cura del baco, che all’inizio della primavera trasformavano gli ambienti domestici in un piccolo laboratorio. Chi non aveva abbastanza semenza, accantonata dall’anno precedente, poteva acquistarla, per poi conservarla in un luogo arieggiato, tiepido e privo di odori».
«Privo di odori, è un modo di dire!», ironizzò il professore. «Uno dei luoghi più indicati era la stalla, dove asini e buoi assicuravano il tepore adeguato e la giusta umidità».
«C’era chi, però, preservava la semenza dentro casa, in un canestro appeso al soffitto, coperta con un panno per mantenerla al caldo e proteggerla dagli insetti. Giorno più giorno meno, la schiusa avveniva dopo due settimane. Se tardava, le donne più anziane riscaldavano nel proprio seno le uova, avvolte in un panno, facilitandone la crescita col calore corporeo».
«Si chiedeva l’intercessione dei Santi», annotò il professore. «Si pregava Sant’Antonio abate perché proteggesse i bachi dal fuoco e dalle formiche, oppure San Zaccaria perché allontanasse i topi. Non mancavano i segni del cielo come l’apparire di una meteora, o della terra come incontrare rospi, ramarri… oppure qualche rettile dove si pensava vi fosse trasmigrata l’anima di un defunto o di una donna di fora».
«Segni, in ogni caso benefici! Ma, per contro, diffuso era il timore del malocchio o delle fatture. Quando spuntava il primo baco, c’era chi taceva la notizia persino ai vicini… Si usavano accorgimenti magici: teste d’aglio, manciate di sale, conchiglie, denti di porco, striscioline di panno rosse per legare le eventuali fatture, magari unitamente a immagini sacre oppure a una cautelare passata d’incenso quotidiana».
«Sacro e profano s’intrecciavano, senza distinzione».

Da un paio d’ore professore e allieva erano rapiti in quella conversazione e risoluti nel proseguirla. Un funzionario, con fare cordiale, bussò per poggiare sulla scrivania due bottiglette d’acqua e chiedere se avessero bisogno d’altro. Un caffè? Il professore ringraziò, declinando l’offerta, e la ragazza riprese il discorso.
«Alla schiusa, si poggiavano i bachi su graticci di vimini dove era steso un letto di fronde di gelso, appena colte, pulite e finemente sminuzzate. Ogni due giorni si eliminavano gli escrementi».
«Le pulizie», intervenne il professore, interessato a fare notare gli aspetti caratteristici della cultura contadina, «non dovevano avvenire nei giorni di plenilunio e non era considerato opportuno toccare i bachi, tenuti sempre ben coperti e al caldo, prima di aver posto sui cannizzi arnesi dalla forma curva – falci, roncole, ferri di cavallo – per neutralizzare eventuali influssi maligni…».
La ragazza s’interrompeva ad ogni intervento del professore, ascoltava con attenzione e partecipazione, poi proseguiva il discorso esattamente dal punto dove l’aveva lasciato.
«Ogni attività avveniva secondo un sistema ben conosciuto e controllato. I bachi, che sopravvivevano alle fatalità e alle iettature», seguitò, «finalmente davano segno che era giunto il momento di filare il bozzolo. Cominciavano, infatti, a emettere la bava, producendo un involucro giallastro, morbido, nel quale avveniva la trasformazione delle larve in crisalidi e poi in farfalle. I contadini con attenzione toglievano manualmente il baco da quel bozzolo di seta immacolata.
Per l’occasione si faceva una gran festa, si mangiava e si cantava. Finalmente, non rimaneva che portare i bozzoli grezzi al mercato, dove sarebbero stati valutati e venduti».
Il professore, che fino a quel momento aveva seguito attentamente il discorso, rimase per qualche istante a fissare tacito l’allieva. Il suo volto esprimeva un compiacimento del tutto insolito per lui, sempre critico verso la maggior parte degli studenti, che nei suoi rimbrotti considerava disinteressati e negligenti.
Incuriosito da uno dei volumi consultati dalla ragazza in prima mattinata, sfogliò le pregevoli tavole, dal carattere illuministico, che Cristoforo Maria Martini, aveva inserito nel suo giornale di viaggio tra Roma e Livorno. Vi erano illustrate varie macchine per la produzione serica, alcune usate già dal Cinquecento anche a Messina, secondo i metodi dell’arte lucchese.
«Dopo la fase agricola», riprese l’allieva, «si passava all’articolata manifattura della seta. La prima delle applicazioni, consisteva nel filare i bozzoli. Con la macerazione nell’acqua si rammolliva l’esterno. Con la scopinatura si estraevano i capi delle bave. Infine, con la trattura, si dipanavano i bozzoli così da formare un lungo filo di seta cruda, ottenuto dall’unione di un certo numero di bave. A questo punto il filato, avvolto in matasse con l’aspo, era pronto per essere tessuto».
«Manganelli, aspi, telai, fusi, rocchetti», interruppe il professore, che, mentre ascoltava, con grande scrupolo era intento a esaminare i disegni di Martini. «Con questi arnesi si trasformava quel filo di luce in ricchi drappi di seta».
Sollevò lo sguardo dalle tavole del libro e con fare trasognato continuò a spiegare:
«All’epoca di Pellegrina, richiamando manodopera qualificata e istruendo quella locale, si provvedeva a sviluppare la manifattura locale. La città divenne presto luogo di immigrazione dalla Calabria, da Genova, da Venezia, da Lucca, da Napoli – sottolineò Napoli – addirittura dall’Europa settentrionale. C’era lavoro, giravano guadagni. Così, oltre a esportare seta grezza come fino a pochi decenni prima, ora si avevano a disposizione prodotti lavorati e per questo ancora meglio pagati e smerciati».
«Si producevano non solo drappi, ma anche velluti e felpe, oppure tovaglie, calze e fazzoletti…».
«Naturalmente!», concluse il professore, alzandosi in piedi, «Ogni laboratorio di seta si specializzò su alcune lavorazioni e non altre. Dipendeva dalle macchine, dalle tecniche, dalla qualifica dei setaioli. Vitello a Napoli aveva appreso e messo alla prova certe abilità artigianali. Per questo non tardò a fare uso della sua esperienza in una città che puntava a manufatti sempre più pregiati, per sviluppare la propria imprenditorialità».

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About the author: Sergio Bertolami