Dove è interrogato Chimento Quienca, il fabbricante di ceste tirato in causa da Pellegrina. È sospettato di essere coinvolto, anche lui, nel giro delle divinazioni. Quienca confessa come un torrente in piena. Racconta di quando ha conosciuto Pellegrina sin dal suo arrivo a Messina e di quando nei giorni di carnevale appena passati ha accompagnato dalla magara il suo amico Rechiputo, disperato per aver perso un anello di valore. In questa occasione, Pellegrina ha saputo indicare chi lo avesse rubato e dove lo avesse nascosto. Tutto ciò cadendo in trance davanti ad uno specchio.
Mercoledì 17 aprile 1555.
Poche ore dopo la confessione di Pellegrina, fu la volta di Chimento, il canestraio. Era già nella lista dei convocati, dal momento che la donna nel chiamarlo in causa aveva sostenuto di conoscerne soltanto il nome, ma non il cognome.
Per l’esattezza Chimento di cognome si chiamava Quienca. Dichiarò 40 anni d’età o circa. Nativo di Sorrento, città del Regno di Napoli, abitava in Messina, alla cantoniera della Dogana nuova.
Confermò il mestiere di escofiaro. Fabbricava ceste, panieri, sporte e quant’altri oggetti intrecciati con fibre vegetali. Servivano per trasportare merci d’ogni sorta, finanche donne, bambini e vecchi, a dorso di mulo. Chimento Quienca aveva perciò a che fare con gran numero di carrettieri, agricoltori, pescatori, ma anche spedizionieri e naviganti. Con molti di questi imbastiva piccoli traffici, per arrotondare le entrate del suo commercio minuto.
Negli ultimi giorni s’era sparsa la voce di una retata del Sant’Officio tra i nativi di Napoli, Sorrento e Salerno. Una campagna mirata contro una setta di sortìleghi e divinatori. Quienca era fra questi, a torto o a ragione.
Introdotto di fronte ai giudici, col suo passo incerto e claudicante, andò a sedersi dove gli fu indicato e, remissivo, si accinse ad affrontare l’interrogatorio.
I suoi lineamenti d’uomo vissuto non lasciavano trasparire emozioni, all’infuori di una rabbia trattenuta, deciso a farla pagare a chi lo aveva denunciato e la sua mente si arrovellava per scoprirlo.
Al mercato si diceva che avevano arrestato la Napolitana e che suo marito Vitello stava facendo il diavolo a quattro per farla liberare. Era stato visto a Palazzo, mentre insisteva per essere ricevuto con la richiesta scritta di un favore, chi diceva rivolta ai giudici o ai senatori della corte stradigoziale, chi sosteneva addirittura diretta allo stradigò in persona.
Interrogato rispose alla formula di rito che mai era stato carcerato dal Sant’Officio. Come già Pellegrina il giorno dell’arresto, anche a lui toccò chiarire se era sposato e con chi, se aveva figli e quanti, da quale città proveniva e quando si era stabilito a Messina.
Disse di essere maritato con una donna di nome Minica Fienca, ma di non sapere di chi fosse figlia, perché era una trovatella cresciuta con la pietà della gente. Si era unito a lei diciotto o vent’anni prima, a Palermo, dove era rimasto per sette od otto anni. Poi decise di stabilirsi a Messina. Da Minica aveva avuto due figli, un maschio di nome Joan Dominico di anni 13 e una femmina di nome Ioanella di anni 9.
Gli domandarono se sa che qualche persona ha fatto magarie e cercato rimedi per indovinare e sapere alcune cose. La convinzione che la Napolitana l’avesse tirato in causa, non lo rese affatto reticente.
Senza incertezza alcuna ricordò che durante il carnevale appena passato, giorno più giorno meno, un suo conoscente, mastro Antonino Rechiputo, aveva preso a dolersi. Rechiputo aveva una bancarella al mercato, vicino alla sua. Anche lui era un venditore di canestri. Lo conosceva bene, perché abitava di fronte casa, alla cantoniera della Dogana nuova.
Per non sentirlo lamentarsi d’aver perso un anello cui era molto legato, gli propose:
«Andiamo a cercarlo, perché si dice che c’è una napoletana di nome Pellegrina che sa divinare – poi rivolto a Don Sebastiàn, che lo ascoltava accigliato, chiarì – sebbene io non dia credito a queste cose».
Così lui e mastro Antonino andarono a casa di Pellegrina. Le spiegarono come avessero perso l’anello – o meglio come l’avesse perso Rechiputo – e chiesero di svelargli chi lo teneva nascosto. Pellegrina rispose che lo avrebbe fatto e, senza perdere tempo, prese uno specchio. Si fece consegnare da Rechiputo la berretta e posandola sopra lo specchio ci guardò dentro. Fissandolo incantata.
All’improvviso, senza dubbio alcuno, diede per certo: «Questo anello vale ben dieci tarì».
Con sorpresa valeva proprio dieci tarì, perché mastro Antonino confermò che era vero.
Allora Pellegrina aggiunse:
«Lo tiene mastro Luchiano, il pantalonaio, e lo nasconde dentro una cassa sotto un involto di panno».
Quienca ribatté che non era possibile, perché mastro Luciano, che aveva un banco proprio vicino a loro, era uomo dabbene. Pellegrina, senza scomporsi, replicò:
«Tornate domenica, perché lo vedrò meglio».
Mastro Antonino, dal momento che Pellegrina aveva indovinato l’esatto valore dell’anello, le pagò due tarì e se ne andarono.
Quienca non ritornò domenica. Si presentò solo Rechiputo, visto che era affar suo. Pellegrina insistette che l’anello l’aveva proprio mastro Luciano e lo nascondeva nella cassa. Non aggiunse altro.
Quienca pensava ormai conclusa la deposizione; ma gli domandarono ancora dove avesse conosciuto Pellegrina. Rispose di averla conosciuta per fama, sin da quando si stabilì a Messina: si diceva che sapesse fare certe cose. Più o meno otto anni prima del processo era preso da talune pene d’amore. Sua moglie Minica era incinta di Ioanella e di rado gli concedeva qualche rapporto intimo, così lui le sue voglie, come dire, le appagava altrove. Anche dopo avere partorito, però, continuò la relazione con una donna che lo faceva soffrire così tanto da convincerlo di essere affetto da una qualche legatura, per impedirgli di lasciarla.
Si recò così da un certo mastro Rotellaro, che stava alla marina e per il modo di parlare, a lui così familiare, doveva essere di Salerno o giù di lì. Angelo Rotellaro, per essere preciso, morto ormai da più di sei anni, all’epoca teneva fama di nigromantico. Raccontò l’accaduto e chiese che gli facesse grazia di sapere se stava magariato.
Mastro Angelo disegnò su di un pezzo di carta due triangoli incrociati, così da formare una stella a sei punte e gli disse che quello era il segno di Salomone.
Fissando la figura, cominciò a recitare un’orazione: «Nel nome del padre, del figlio, dello spirito santo tetamaggraton, che venisse qui lo spirito a dirmi quello che voglio».
Poi, mezzo stralunato, chiamò suo figlio e fece guardare dentro al segno pure lui. Il bambino riferì di avere ascoltato uno spirito che gli assicurava quanto la donna, di cui il canestraio chiedeva, gli volesse bene e che non gli aveva fatto niente, ma quello che aveva passato era soltanto benevolenza.
Quienca, rincuorato dal fatto che non c’era sortilegio, ma che i suoi erano soltanto tormenti d’amore, chiese al negromante di poter guardare anche lui nel segno di Salomone; ma Rotellaro gli spiegò che mai e poi mai avrebbe scorto qualcosa. Quello spirito potevano vederlo quelli che avevano il sangue legio, come suo figlio e pochi altri. Solamente una donna mastro Rotellaro conosceva capace di vedere questi spiriti. Senza essere né vergine, né gravida. Si chiamava Pellegrina e abitava sotto Montevergine.
Quienca riferiva ai giudici come un torrente in piena quando tracima, portando con sé persino pesanti macine di mulino.
Gli inquirenti lo sollecitavano con domande, perché fosse più attinente ai fatti. Non gli chiesero, invece, per quale ragione, dopo Rotellaro, aveva sentito la necessità di rivolgersi anche a Pellegrina. Fatto sta che Quienca espose di nuovo le sue pene d’amore pure a lei:
«Madonna Pellegrina fammi un piacere, perché so che vedete quello che altri non vedono, quindi ditemi un po’ se questa donna mi ha fatto qualche cosa».
Pellegrina – senza l’aiuto di nessuno, come gli aveva detto mastro Rotellaro – guardò nel circolo di Salomone che lo stesso Quienca le aveva disegnato uguale a quello di mastro Angelo.
Ancora una volta ebbe conferma che la donna, da cui temeva il maleficio, non gli aveva fatto proprio niente e anche la magara, usando la stessa espressione del negromante, avvalorò che era solo benevolenza.
La domanda conclusiva, se avesse mostrato a Pellegrina una caraffa con un anello d’oro all’interno attaccato a un filo, disorientò del tutto il canestraio. Cosa sapevano e cosa volevano indurlo a confessare, questi giudici?
Atterrito Quienca rispose di no.
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