Dove il Promothore Advocato Fiscale deposita l’atto ufficiale che sarà allegato alla sentenza finale. Inspiegabilmente, il documento rivela l’esistenza di un nuovo testimone, le cui dichiarazioni non sono mai comparse nei verbali dell’istruttoria.
Giovedì 2 maggio 1555.
Due giorni, solo due giorni, furono concessi al magnifico Promothore Advocato Fiscale per dimostrare le sue accuse. Fu condotta dal carcere la detta Pellegrina e interrogata. Ripiegata su sé stessa sembrava divenuta minuscola. Fu ribadito, con le consuete formule di rito, di confessare tutta la verità, ma l’accusata ripeté come una triste litania di aver detto la veritati et non habi altro chi dire.
L’avvocato fiscale prese la parola per procedere con la Publicazione dei testimoni che resero deposizione contro Pellegrina Vitello la Napoletana.
La sua voce grave e inflessibile risuonò nell’aula, martellante.
«Il primo teste giurato portò prove e disse: che saranno passati da otto a nove anni circa, che, essendo inferma una donna residente nella città di Messina, venne da lei la sopraddetta Pellegrina.
Vedendo l’ammalata affermò che teneva una maya e che lei stessa l’avrebbe trovata e l’avrebbe disfatta a suo volere.
Poi la detta Pellegrina scese al piano terra, raggiunse la porta di casa dell’ammalata, frugò intorno, all’improvviso risalì la scala e tornò nella stanza dov’era l’inferma.
Portò un cuore di cera nel quale stavano infilzati certi spilli e polveri nere, e disse: Ecco la maya che t’ho trovato, e poi tolse via gli spilli e gettò via la fattura.
Erano presenti altre persone, che il teste nominò, e dichiara essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
«Il secondo teste giurato portò prove e, tra le altre cose, disse: che saranno passati quindici anni, a Messina, in una casa che dichiarò, essendo malata una certa persona che nominò, una donna di nome Pellegrina disse testualmente, mostrando fra le mani l’oggetto di un sortilegio: Guardate che maya era stata fatta a questa ammalata.
Diceva d’averla trovata sotterrata in un angolo della cantina. Era una papattola nera, infilzata di spilli e aghi, che subito disfece e, facendola a pezzi, diceva che voleva guarire l’inferma.
Anche in questa circostanza si trovavano presenti altre persone, che il secondo teste nominò, dichiarando d’essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
«Il terzo teste giurato portò prove e disse: che saranno passati circa dieci o undici anni, stando malata una certa persona, che nominò, in una certa casa di Messina, che dichiarò, venne una donna di nome Pellegrina e disse che l’ammalata aveva una fattura e che lei stessa l’avrebbe trovata.
La testimone vide che la detta Pellegrina, a un’ora della notte, con una candela in mano cercava fuori della porta la fattura.
Spegnendo improvvisamente la candela disse che l’aveva scovata.
Le vide in mano certe spille che diceva di avere tolte dalla detta fattura. Diceva che ad ogni spilla che sfilava l’ammalata sarebbe piano piano guarita.
Il testimone dichiara di essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
Il promotore fiscale sembrò a un tratto impuntarsi, poi garantì che il quarto teste giurato era conforme al terzo testimone. Saltò il passo e riprese la lettura dal capo successivo.
«Il quinto teste giurato portò prove e disse: che saranno passati sei anni da quando, in una data zona della città di Messina, una donna di nome Pellegrina disse a una certa persona, che nominò, che anche lei teneva una maya.
La suddetta persona le rispose che non lo avrebbe creduto se non l’avesse mostrata. La detta Pellegrina in quell’attimo raggiunse di corsa il sottoscala e ne uscì una maya di cera con certo argento vivo.
Nel mostrargliela disse che era quella la prova che cercava, allorché la persona rispose che le credeva.
Pellegrina fece per la stessa persona certi altri rimedi, per i quali fu compensata con quattro tarì.
Per sciogliere la legatura prese latte di donna e acqua benedetta e proferì certe parole incomprensibili.
Il testimone dichiara d’essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
«Il sesto teste giurato portò prove e disse: che durante il Natale dell’anno 1553, avendo maritato sua figlia con una certa persona, che nominò, poiché suo marito voleva ripudiarla, andò a casa di Pellegrina Vitello e le disse di vedere che cos’era che il marito disprezzava di sua figlia.
Allora la detta Pellegrina chiese che le portassero un oggetto del marito, deciso di comune accordo. Quando glielo consegnarono, la detta Pellegrina, posandolo sopra uno specchio, disse che sua figlia stava bene e sana, ma teneva una fattura, che lei stessa avrebbe disfatto.
Pretese che le anticipassero denari per acquistare le cose che ci volevano, e subito le furono corrisposti certi denari per rompere la sopraddetta fattura.
Inoltre, il medesimo teste disse che durante il carnevale appena trascorso una certa persona, che nominò, riferì a questo testimone che la detta Pellegrina aveva visitato un’ammalata, sostenendo che teneva una maya.
Inoltre, disse che sempre durante il carnevale passato una certa persona, che nominò, chiese alla detta Pellegrina che le praticasse qualche rimedio affinché suo marito non se ne andasse, perché di tanto in tanto soleva lasciarla e partire. Una volta, addirittura, era stato fuori per sei anni senza tornare a casa.
La detta Pellegrina promise che qualcosa avrebbe fatto. Domandò denari e la suddetta persona glieli diede. Di là ad un pezzo, Pellegrina consegnò a questa persona certe polveri gialle per darle da mangiare a suo marito.
In ultimo il medesimo teste disse che una persona, che nominò, gli riferì di avere visto la detta Pellegrina che custodiva demoni in una caraffa.
Il testimone dichiara d’essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
«Il settimo teste giurato portò prove e disse: che nell’anno 1550 o 51 una certa persona, che nominò, andò da una donna di nome Pellegrina e le disse che un’altra certa persona, che anche nominò, stava per essere martoriata. Chiese, pertanto, di darle un certo pane scritto, perché non confessasse.
La detta Pellegrina prese un pezzo di pane e guardò incantata una caraffa, che conteneva acqua con certe cose nere.
Scrisse il pane con lettere indecifrabili e la detta persona, vedendo quelle cose nere dentro la caraffa, domandò cos’erano, perché pareva che fossero demoni. Detta Pellegrina non rispose niente, ma consegnò il pane scritto a quella persona e le disse di andare presto dal detenuto a farglielo mangiare, prima che lo torturassero.
Raccomandò, tuttavia, di tagliare con il coltello una fetta del pane dalla parte scritta, perché non si riconoscesse.
Il testimone dichiara d’essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
«L’ottavo teste giurato portò prove e disse: che il mese di novembre appena passato, in una parte di Messina, che dichiarò, una certa persona, che nominò, vide Pellegrina moglie di Nardo Vitello, che prese un pezzo di allume e lo mise nel fuoco, affinché si abbrustolisse, e dopo essersi abbrustolito lo avvolse in una carta, e, mettendovi dentro anche un po’ di paglia, legò tutto insieme e se lo mise nel petto.
Pubblicamente ha sentito dire che l’accusata è una magara.
Dichiara d’essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
«Il nono teste giurato portò prove e disse: che una donna di nome Pellegrina venne un giorno in una certa parte di Messina, che dichiarò, in una casa, sostenendo come in detta casa vi fosse una magaria, fatta ai danni di una certa persona, che nominò.
La detta Pellegrina, facendo certe cose, affermò che la magaria era in un angolo del pozzo della casa e, scavando da quelle parti, disse che aveva scorto la detta magaria. Stava fra certe pezze, la prese in mano e disse: Ecco la magaria!
Di là a qualche giorno detta Pellegrina scovò un’altra fattura nascosta sotto lo scalone di un’altra casa di Messina, che dichiarò. Per sciogliere questi sortilegi Pellegrina si faceva pagare.
Inoltre, lo stesso teste disse che saranno trascorsi circa tredici anni da quando la suddetta Pellegrina andò in una certa casa di Messina, che dichiarò, e affermò che anche là c’era una magaria, e scavando fuori della porta la detta Pellegrina disse di averla trovata e faceva certe cose, per le quali si faceva pagare.
Il testimone dichiara d’essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
«Il decimo teste giurato portò prove e disse: che il carnevale scorso, in Messina, una certa persona, che nominò, perse un anello in un posto che dichiarò, ed essendo molto afflitta, giacché non riusciva a trovarlo, insieme con un’altra persona, che nominò, andò a casa di una donna di nome Pellegrina.
Spiegarono come avevano perduto l’anello e le domandarono di svelare loro chi lo tenesse. La detta Pellegrina rispose, che avrebbe soddisfatto la richiesta, cosicché posò sopra uno specchio la berretta di quello che aveva perduto l’anello.
Sostenne, la detta Pellegrina, che quest’anello aveva un valore finanche di dieci tarì e la detta persona rispose che era vero.
Pellegrina disse che lo teneva nascosto una persona, che nominò, e lo teneva in una cassa sotto un involto di panni.
Visto che una delle due persone replicò che stava accusando un uomo dabbene, detta Pellegrina tornò a dire di ripresentarsi all’indomani, che lei stessa avrebbe controllato meglio e avrebbe risposto loro con più certezza.
Il detto teste, vedendo che Pellegrina aveva indovinato il valore dell’anello, le pagò due tarì. Il giorno seguente, una delle due persone tornò per la risposta.
La detta Pellegrina confermò che l’anello ce l’aveva quel tale che aveva già indicato.
Il testimone dichiara d’essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
Il promotore fiscale s’interruppe ancora una volta. Fece rilevare che avrebbe saltato la lettura dell’undicesimo teste giurato, perché conforme al precedente e continuò.
«Il dodicesimo teste giurato portò prove e disse: che l’agosto scorso a Messina una certa persona andò da Pellegrina Napolitana, che abitava nelle vicinanze dell’abbeveratoio di San Giovanni.
Le manifestò come un suo innamorato si volesse maritare, ma con un’altra donna, e le chiese di donarle qualche cosa perché non si maritasse.
La detta Pellegrina rispose che lo avrebbe fatto e che le avrebbe mandato un rimedio perché non si maritasse. Come compenso chiese tre tarì, che la detta persona corrispose subito; cosicché di là a due ore la suddetta Pellegrina mandò, a casa di quella persona, certe polveri, di consistenza uguale alla sabbia.
Mandò a dire di posare quelle polveri dentro le scarpe del suo innamorato, in modo che le toccasse, così l’uomo non si sarebbe maritato.
Il testimone dichiara d’essere vero quanto sostenuto, facendosi carico della responsabilità del giuramento che ha fatto e che non afferma ciò per odio».
Letto parola per parola l’atto di Publicatione di li testimoni, all’imputata bene intellecta il promotore avvocato fiscale chiese di rispondere alle accuse.
Pellegrina ribadì:
«Non è vero, né ho da dire di più di quello che ho detto».
Le fu domandato, perentoriamente, chi volesse l’indomani come avvocato e fu ricondotta in carcere.
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