Firenze, Palazzo Strozzi e Museo del Bargello: Verrocchio, il maestro di Leonardo

Firenze, Palazzo Strozzi, con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello
Verrocchio, il maestro di Leonardo
a cura di Francesco Caglioti e Andrea De Marchi
Promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi e Musei del Bargello con la collaborazione della National Gallery of Art, Washington DC
9 marzo – 14 luglio 2019

Andrea del Verrocchio e bottega –  L’arcangelo Raffaele e Tobiolo 1470-1472 

Dal 9 marzo al 14 luglio 2019 Verrocchio, il maestro di Leonardo presenta per la prima volta a Palazzo Strozzi, con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello, straordinari capolavori di Andrea del Verrocchio, a confronto serrato con opere capitali di precursori, artisti a lui contemporanei e discepoli, come Desiderio da Settignano, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Bartolomeo della Gatta, Lorenzo di Credi e Leonardo da Vinci. Nel 2019 si celebra il cinquecentesimo anniversario della morte di quest’ultimo, il suo più grande allievo, e l’esposizione di Palazzo Strozzi e del Museo Nazionale del Bargello si offre come uno dei più importanti eventi a livello internazionale nell’ambito delle celebrazioni leonardiane.

Curata da due tra i maggiori esperti del Quattrocento, Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, la mostra comprende oltre 120 opere tra dipinti, sculture e disegni, con prestiti provenienti da oltre settanta tra i più importanti musei e collezioni private del mondo come il Metropolitan Museum of Art di New York, la National Gallery of Art di Washington DC, il Musée du Louvre di Parigi, il Rijksmuseum di Amsterdam, il Victoria and Albert Museum di Londra, le Gallerie degli Uffizi di Firenze. La mostra costituisce la prima retrospettiva mai dedicata a Verrocchio, mostrando al contempo gli esordi di Leonardo da Vinci, con sette sue opere, alcune delle quali per la prima volta esposte in Italia. Una mostra straordinaria che offre uno sguardo sulla produzione artistica a Firenze tra il 1460 e il 1490 circa, l’epoca di Lorenzo il Magnifico.

Artista emblematico del Rinascimento e prototipo del genio universale, Verrocchio sperimentò nella sua bottega tecniche e materiali diversi, dal disegno alla scultura in marmo, dalla pittura alla fusione in bronzo. Egli formò un’intera generazione di maestri, con i quali ha sviluppato e condiviso generosamente il proprio sapere. Nella storia dell’arte solo Giotto, Donatello e Raffaello hanno dato origine a una “scuola” paragonabile a quella di Verrocchio. Tramite il suo insegnamento si formarono artisti che hanno diffuso in tutta Italia, e fuori, il gusto e il linguaggio figurativo fiorentino, come testimoniano opere quali il David in prestito dal Museo Nazionale del Bargello, uno dei simboli assoluti dell’arte del Rinascimento e della città di Firenze stessa, e il Putto col delfino, in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio, opera capitale e modello di naturalezza. Alla scultura si affiancano dipinti supremi come la Madonna col Bambino della Gemäldegalerie di Berlino o la Madonna col Bambino e angeli e l’Arcangelo Raffaele e Tobiolo della National Gallery di Londra: capolavori presentati insieme per la prima volta, che attestano lo straordinario talento di Verrocchio nel campo della pittura, in cui diviene punto di riferimento per i suoi celebri allievi. Formidabile, inoltre, la selezione di disegni e dipinti su lino provenienti da alcuni dei più importanti musei del mondo, che permetteranno un confronto vivo e diretto tra i lavori del maestro e quelli dei suoi allievi, come nel caso della celebre Dama dal mazzolino del Bargello posta accanto allo studio di Braccia e mani femminili di Leonardo da Vinci, generosamente concesso in prestito da Sua Maestà la Regina Elisabetta II. Parte fondamentale della mostra sono infatti opere del giovane Leonardo, che negli anni Settanta lavorò nella bottega di Verrocchio, contribuendo al passaggio verso la Maniera Moderna, uno dei temi più avvincenti dell’arte di tutti i tempi. L’esposizione si propone di illustrare l’inesauribile vena creativa del maestro in un intreccio profondo e continuo tra pittura e scultura, presentando la sua opera nel dialogo costante con allievi fuori dal comune, per i quali la sua bottega fu luogo di intensa sperimentazione e condivisione.

IMMAGINE DI APERTURAAndrea del Verrocchio (Firenze, 1435 circa – Venezia, 1488), Madonna col Bambino, 1470 o 1475 circa, Tempera e olio su tavola, 54.6 x 75.8 cm, Be rlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie | © Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie / Christoph Schmidt

Ferrara, Castello Estense: L’arte per l’arte – Dipingere gli affetti

Ferrara, Castello Estense
L’arte per l’arte – Dipingere gli affetti: la pittura sacra a Ferrara tra Cinque e Settecento
Mostra a Cura di Giovanni Sassu con la collaborazione di Tito Manlio Cerioli e Romeo Pio Cristofori
26 Gennaio 2019 – 26 Dicembre 2019

Ippolito Scarsella (1551-1620), Martirio di Santa Margherita, 1611, tela cm 246,5 x 156,5, Ferrara, Azienda Servizi alla Persona, inv. DOC51 (in deposito presso i Musei di Arte Antica)

Torna al Castello Estense di Ferrara “L’arte per l’arte”, il progetto del Comune di Ferrara, promosso in collaborazione con la Fondazione Ferrara Arte, dedicato alla valorizzazione del patrimonio storico e artistico della città reso inaccessibile dopo il sisma del 2012. Dopo le opere di De Pisis, Boldini, Previati e Mentessi delle Gallerie d’Arte Moderna, protagoniste delle prime due esposizioni del progetto l’Arte per l’Arte, l’attenzione si sposta ora verso il periodo dal Cinque al Settecento. Le sale riccamente affrescate dell’ala sud e dei Camerini del Castello ospiteranno infatti la quadreria di proprietà dell’ASP – Azienda Servizi alla Persona di Ferrara, depositata presso i Musei di Arte Antica.

Si tratta di un vero e proprio capitale artistico, pressoché sconosciuto eppure di grande rilevanza storica, che l’esposizione al Castello mira a restituire al grande pubblico. L’esperienza di visita assumerà i contorni di un viaggio nel tempo affascinante e sorprendente che spazierà dal tramonto del dominio Estense fino al secolo dei Lumi. Le tappe di questo itinerario ci condurranno al cospetto dei due importanti protagonisti della rivoluzione naturalistica di inizio Seicento: Ippolito Scarsella detto Scarsellino e Carlo Bononi. La soave magnificenza del primo e la dolente bellezza del secondo, caratterizzano la Ferrara di quegli anni facendone uno dei più intriganti centri artistici dell’epoca. Contestualmente, faremo la conoscenza di personalità cronologicamente precedenti e parallele come, ad esempio, Giuseppe Mazzuoli detto il Bastarolo, il cui il manierismo castigato è fondamentale nella seconda metà del Cinquecento, Gaspare Venturini, pittore molto attivo per i duchi e per committenti religiosi, e l’enigmatico Giuseppe Caletti, curiosa figura di artista “maledetto” operante nella prima metà del Seicento. La seconda metà del XVII secolo è caratterizzata dal mitigato universo figurativo di Giuseppe Avanzi, pittore di mediazione che schiuderà il sipario al Settecento dove si imporranno le singolari personalità di Giacomo Parolini e Giuseppe Zola.

L’esposizione di queste opere è stata preceduta da una campagna di manutenzioni e restauri eccezionale: dopo i recenti recuperi delle tele di Scarsellino curati dai Musei di Arte Antica, in previsione dell’esposizione sono state ben 34 le tele restaurate e 14 quelle per le quali sono state approntate manutenzioni. Un risultato a dir poco eccezionale, raggiunto grazie ai finanziamenti messi a disposizione dalla Fondazione Ferrara Arte, dall’ASP – Azienda Servizi alla Persona, dal CFR e dal CIAS dell’Università degli Studi di Ferrara, con le operazioni conservative dirette dai Musei di Arte Antica sotto l’Alta Sorveglianza della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Bologna. Ma perché Dipingere gli affetti? Per una doppia evocazione simbolica. La prima riguarda il linguaggio: le opere che saranno esposte in Castello si muovono nel solco degli orientamenti successivi al Concilio di Trento che delegavano all’arte il basilare compito di mediare tra il fedele e la religione, tra il visibile e l’invisibile, attraverso forme naturalistiche, emotive e familiari, nelle quali l’uomo del Sei e Settecento si potesse riconoscere. La seconda attiene alla vocazione umanitaria che animava i luoghi da cui esse erano originariamente collocate. Non delle chiese qualsiasi, ma gli altari, le cappelle e gli ambienti di istituti religiosi che ponevano al centro del loro operare l’aiuto verso gli altri, fossero essi orfani, indigenti, bisognosi o donne in difficoltà. Un insieme di esperienze animato da figure di primo piano della corte Estense – da Alfonso II a Barbara d’Austria, fino a Margherita Gonzaga – ma anche di una fetta consistente della nobiltà e della borghesia cittadina, impegnata nell’attività di carità e solidarietà.

Ed è così che protagonista di questa mostra sarà anche la città di Ferrara, nel tentativo di ricomporre il tessuto connettivo di un’«araldica della beneficenza» (per usare una felice definizione di Andrea Emiliani) che costituì la manifestazione più tangibile di quella pietas sei e settecentesca animata da empatica affettività e impegno sociale. Un attivismo che portò ad ornare alcuni dei luoghi sacri più rappresentativi, oggi quasi tutti scomparsi o mutati per fattezze o destinazioni d’uso, come i conservatori femminili di Santa Barbara e di Santa Margherita, o l’Opera Pia della Povertà Generale. Un vero e proprio viaggio nel tempo, insomma, alla ricerca delle radici moderne di Ferrara. Questo vale non solo sotto il profilo storico-artistico, ma anche dal punto di vista sociale: il fatto che queste opere siano state ereditate dall’ASP – Azienda Servizi alla Persona di Ferrara, e che quest’ultima abbia collaborato e sostenuto la realizzazione del progetto espositivo, rappresenta il filo rosso che collega l’attività umanitaria degli antichi Istituti caritatevoli, con l’attuale declinazione delle politiche attive per il welfare della città.

IMMAGINE DI APERTURAIppolito Scarsella (1551-1620), Madonna di Reggio e Santi, 1600 circa, tela cm 144,5 x 112,5, Ferrara, Azienda Servizi alla Persona, inv. DOC18 (in deposito presso i Musei di Arte Antica)

Primo strumento digitale per esplorare il Codice Atlantico di Leonardo

www.codex-atlanticus.it

Un nuovo sito internet sviluppato da The Visual Agency in collaborazione con la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, consente di avere una visione d’insieme del capolavoro del genio fiorentino. L’applicazione, attraverso una visualizzazione assolutamente innovativa basata sugli argomenti trattati, permette di sfogliare il Codice Atlantico e mettere in luce l’evoluzione del pensiero leonardesco negli anni.

In occasione delle celebrazioni per i cinquecento anni dalla scomparsa di Leonardo da Vinci, The Visual Agency, società milanese di information design specializzata in infografica e data visualization, in collaborazione con la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, ha concepito, progettato e sviluppato un innovativo strumento che consentirà di approfondire, come mai si era fatto in precedenza, il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, il vero “tesoro leonardiano” conservato alla Biblioteca Ambrosiana. Dal 15 aprile 2019, infatti, è online www.codex-atlanticus.it, un sito internet in italiano e inglese, in grado di offrire una visione panoramica e di dettaglio dell’evoluzione del pensiero leonardesco negli anni.

“La data visualization è la principale competenza della nostra agenzia – afferma Matteo Bonera, Creative Director The Visual Agency – ed è stata applicata a questo progetto di digital humanities, diventando un linguaggio di analisi e sintesi capace di fare luce sulla complessità di un’opera così articolata”. “Il progetto sviluppato da The Visual Agency – dichiara mons. Francesco Braschi, dottore della Biblioteca Ambrosiana -, a cui il Collegio dei Dottori ha voluto dare il suo convinto supporto, per i suoi caratteri di innovazione, rigorosità e accessibilità a chiunque, corrisponde pienamente alla missione affidata da Federico Borromeo alla Biblioteca Ambrosiana. Il nostro fondatore, infatti, più di quattro secoli fa aveva ben chiaro il proprio progetto culturale, ovvero unire la più elevata qualificazione a livello accademico e scientifico con la più alta capacità nella divulgazione e condivisione della conoscenza in tutte le sue forme: teologico-filosofica, storica, letteraria, artistica”.

“Poter “svelare” in modo accessibile e accattivante i temi trattati nel Codice Atlantico – continua monsignor Braschi – significa avvicinare i visitatori della Biblioteca e gli utenti del sito a una comprensione più veritiera di Leonardo e della sua opera, troppo spesso frettolosamente e superficialmente ridotti al rango di “icona” ultimamente incomprensibile. Nel riconoscere il genio di Leonardo, Federico Borromeo non mancava di sottolineare come la mancanza di veri amici, capaci di incanalare la sua insaziabile sete di conoscenza, gli avesse impedito di far fruttare appieno i suoi talenti. Un giudizio prezioso, che ci permette di trarre dalla frequentazione di questo straordinario personaggio un aiuto a comprendere anche la nostra vita”.

I visitatori di www.codex-atlanticus.it potranno sfogliare il Codice partendo da una panoramica generale organizzata per materie trattate e anno di stesura delle pagine. Selezionando una particolare materia o argomento è possibile evidenziare le pagine interessate. Molto interessante è la funzione che consente di organizzare il Codice seguendo l’ordine cronologico nel quale è stato redatto. Selezionando una pagina specifica è possibile vedere le immagini di recto e verso del foglio, approfondire gli argomenti trattati e risalire alle pagine simili. L’accesso al sito è gratuito e non richiede una registrazione ed è ottimizzato per la fruizione attraverso dispositivi mobili e tablet. Inoltre, nella sala Federiciana della Biblioteca Ambrosiana, che accoglie a rotazione alcuni dei fogli più significativi del Codice Atlantico, è presente un totem con schermo sensibile al tatto, per ricreare in situ le stesse esperienze di visita a di approfondimento, che si possono avere sul sito www.codex-atlanticus.it.

L’intero progetto si basa su una ricerca svolta sul volume Il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci: indici per materie e alfabetico di Augusto Marinoni, a cura di Pietro C. Marani. La grande mole di informazioni ricavata è stata elaborata per ottenere i dati relativi alla datazione e all’individuazione degli argomenti trattati  in ogni singolo foglio del codice (organizzati in cinque materie: Architettura e Arti Applicate, Fisica e Scienze Naturali, Geometria e Algebra, Scienze Umane, Strumenti e Macchine) e per creare un enorme database che consente di risalire, a partire da ogni frammento di pagina, all’anno in cui era stato scritto, alla materia e alla sotto-materia di cui trattava.

Codex-Atlanticus.it
Una nuova luce sulla più grande opera di Leonardo da Vinci

Venezia, Palazzo Contarini Polignac – Förg in Venice

Venezia, Palazzo Contarini Polignac –
Förg in Venice
Evento Collaterale della Biennale Arte 2019
Mostra Elisa Schaar
Dall’11 maggio al 23 agosto 2019

Günther Förg: Untitled (Mask), 2000, Bronze, travertin plinth 42 x 12.5 x 10 cm / 16 1/2 x 4 7/8 x 3 7/8 in.© Estate Günther Förg, Suisse / VG Bild-Kunst, Bonn 2019. Courtesy Estate Günther Förg, Suisse and Hauser & Wirth

Förg in Venice offre un’approfondita ricognizione delle opere dell’artista all’interno dell’impareggiabile contesto veneziano di Palazzo Contarini Polignac, Venezia

Il Dallas Museum of Art (DMA) è lieto di presentare la mostra di Günther Förg (1952-2013), che sarà ospitata nello storico Palazzo Contarini Polignac a Venezia durante la Biennale Arte 2019. Evento Collaterale ufficiale della 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, Förg in Venice farà seguito a Günther Förg: a Fragile Beauty, la prima mostra americana in oltre trent’anni dedicata all’artista, organizzata nel 2018 dal Dallas Museum of Art in collaborazione con lo Stedelijk Museum di Amsterdam. Realizzata in stretta cooperazione con l’Estate di Günther Förg, Förg in Venice metterà in mostra oltre 30 opere del percorso multidisciplinare di Förg – dai dipinti alle meno note sculture – per riflettere sui metodi intuitivi e di ampio respiro di questo artista intellettuale e poliedrico. La mostra è curata dalla Dottoressa Elisa Schaar, storica dell’arte, e segue la ricerca resa disponibile dalla precedente mostra di Dallas, curata dalla Dottoressa Anna Katherine Brodbeck, Curatrice Capo del Dipartimento di Arte Contemporanea del DMA.

“Dopo l’importante mostra del Dallas Museum of Art dedicata all’artista nel 2018, siamo lieti di presentare il lavoro di Günther Förg al pubblico internazionale di Biennale Arte 2019, coinvolgendo nuove generazioni mondiali nello stesso modo in cui l’operato dell’artista ha influenzato la storia dell’arte per generazioni” ha dichiarato il Dottor Agustín Arteaga, Direttore del DMA. Nato nel 1952 a Füssen, Algovia, Germania, Förg è uno dei più significativi artisti tedeschi della generazione del dopoguerra, noto per il suo stile sperimentale e provocatorio legato alla storia dell’arte. Attraverso la sua innovativa produzione interdisciplinare che ha sfidato i limiti delle discipline artistiche, Förg ha esplorato un linguaggio di astrazione ed espressionismo, appropriandosi di metafore prese in prestito da architettura e arte moderna. L’Italia e l’architettura italiana hanno giocato un ruolo centrale nello sviluppo della carriera di Förg. Il suo primo viaggio in Italia, nel 1982, stimolò la sua nota serie di fotografie sugli edifici di importanza culturale e politica, dai monumenti italiani alle costruzioni in stile Bauhaus a Tel Aviv. Attraverso la fotografia, Förg riuscì a esplorare la relazione tra arte, architettura e interventi spaziali, un tema ricorrente in tutta la sua produzione che la mostra di Venezia metterà in risalto. Alcuni lavori di Förg furono esposti già alla 45. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia nel 1993 all’interno della mostra Il Viaggio verso Citera, ma Förg in Venice realizzerà il desiderio dell’artista di esporre durante la Biennale Arte con una personale, un sogno rimasto incompiuto quando era in vita.

Förg in Venice presenterà questo poliedrico artista sotto una nuova prospettiva, in un’ambientazione veneziana senza eguali dove gli arredi e le decorazioni giocheranno un ruolo chiave nel contestualizzare l’arte. La mostra offrirà una panoramica approfondita dei temi estetici e concettuali affrontati da Förg, non solo dal punto di vista della produzione artistica ma anche in relazione al contesto in cui le opere sono esposte. L’artista riteneva che lo spazio, l’ubicazione e il posizionamento di una sua opera fossero intrinseci all’opera stessa. Durante la sua carriera, Förg dipinse sulle pareti delle gallerie, usò porte e finestre come elementi integranti, e arrivò a usare la vernice di alcune sue opere per creare un gioco di riflessi che desse vita a considerazioni inaspettate. Per lo stesso motivo, l’artista installò più volte le sue opere all’interno di contesti storici, spesso attraverso interventi tanto delicati quanto minimalisti. Questa mostra porterà avanti tale tradizione, preservando l’atmosfera del Palazzo ma anche indagando lo spirito creativo e ludico di Förg. Nel contesto di Palazzo Contarini Polignac – una location classica, romantica e mozzafiato affacciata sul Canal Grande di Venezia – imbattersi nelle opere versatili e sapienti dell’artista inviterà il visitatore a interrogarsi sul rapporto di Förg con la storia dell’arte e dell’architettura, entrambe determinanti nella sua produzione polivalente.

Attraverso l’installazione delle opere d’arte di Förg – prevalentemente aderenti alle tradizioni moderniste- all’interno delle sale decorate e dell’architettura rinascimentale di Palazzo Contarini Polignac, l’esposizione indagherà l’eredità del modernismo estetico (uno degli ideali al centro dello studio di Förg) in uno spazio ricco di storia e maestria artigiana. La mostra non avrà uno sviluppo tradizionale bensì un allestimento di grande atmosfera dove le opere dell’artista abiteranno un contesto intimo e privato evocando una malinconia e un romanticismo raramente
associati all’opera di Förg. Grazie all’integrazione del ricco corpus di opere di Förg negli interni delle sale del Palazzo, la mostra illustrerà l’interesse dell’artista per il dialogo tra arte, architettura e fruizione. Lungo tutto il Palazzo, singoli quadri, arazzi ed elementi decorativi in determinate posizioni saranno sostituiti con le opere dell’artista. Al piano terra, un dipinto minimalista di grandi dimensioni raffigurante una finestra, “Untitled” (2004), affiancato da alcuni schizzi preparatori dell’opera, prenderà il posto di uno stemma dando l’impressione che ci sia una finestra dove in realtà non c’è. Nonostante la loro forte geometria, le finestre di Förg sono provocatorie poiché offrono una cornice dentro cui guardare ma senza fornire alcuna visuale: al contrario, dirigono e limitano lo sguardo, mettendo in discussione l’atto visivo e l’estetica in sé.

Nel Salone del Palazzo, quattro straordinari dipinti in stile Spot Painting realizzati tra il 2007 e il 2009 saranno presentati di fronte a quattro ampi arazzi. In queste opere astratte e gestuali, i segmenti orizzontali delle pennellate verticali richiamano i raffinati scarabocchi di Cy Twombly, ma con differenze sia a livello cromatico – con un diverso uso del bianco e del grigio chiaro che sembrano richiamare la base di una tavolozza – sia per quanto concerne l’impiego di pennelli puliti. Questi Spot Painting danno l’idea di essere stati prodotti velocemente, ma sono in realtà frutto tanto di una rapida intuizione quanto di un’attenta riflessione dell’artista. Insieme, i quattro dipinti daranno prova della ponderata e incessante sperimentazione di abbinamenti cromatici, applicazioni di pittura, composizioni e ritmi dell’artista, il tutto all’interno di una sola serie di quadri. Collocate di fronte agli arazzi figurativi del Palazzo, che si potranno ancora intravedere, queste opere di Spot Painting evocheranno – attraverso le pennellate fluttuanti sulle superfici piane – una sorta di potere autonomo dell’astrazione modernista, sottolineando il rapporto stesso dell’artista con questa forma artistica, tanto coinvolto quanto distaccato. Nella maestosa sala degli specchi del Palazzo, una serie di sculture di Förg, realizzate nel 1990, verranno installate vicino alle finestre. Queste sculture figurative, tra cui maschere di bronzo su piedistalli in compensato grezzo, esplorano le possibilità e i limiti della materia. Le superfici corpose, lavorate rapidamente, fanno pensare alla distruzione: deliberatamente imperfette, dimostrano che Förg preferiva esplorare un’idea anziché realizzare un ideale di piacere e perfezione estetica. Le superfici palpabili recano i segni delle impronte digitali di Förg, di agenti esterni casuali e danni fisici che spingono il bronzo e la sua lavorazione lontani dalle associazioni gerarchiche, classiche e monumentali di tale materiale. Lungo le sale laterali del Palazzo saranno infine in mostra diversi dipinti astratti di Förg datati dagli anni Ottanta agli anni Novanta, che sostituiranno le opere d’arte solitamente esposte. Nella sua interezza, l’offerta espositiva della mostra dà prova dell’ampia portata della carriera di Förg e della sua tendenza alla sperimentazione, raggruppando i vari filoni e le influenze concettuali che hanno interessato la sua produzione – dall’agile esecuzione, complessità tonale e composizione stratificata, alla libera gestione delle discipline formali e delle strutture geometriche.

IMMAGINE DI APERTURAGünther Förg at the opening of his exhibition at the Kunstverein Hannover 1995. © Estate Günther Förg, Suisse / VG Bild-Kunst, Bonn 2019. Courtesy Estate Günther Förg, Suisse and Hauser & Wirth

Pietrasanta (LU) Galleria Bonelli – Gonçalo Mabunda creatore del nascosto

Pietrasanta (LU) Galleria Giovanni Bonelli
La personale di Gonçalo Mabunda – Il creatore del nascosto
A cura di Alessandro Romanini
Dal 19 maggio al 30 giugno 2019
WEBSITE Galleria Giovanni Bonelli


Dal 19 maggio al 30 giugno 2019, la sede di Pietrasanta (LU) della Galleria Giovanni Bonelli ospita la personale di Gonçalo Mabunda (Maputo, 1975).

L’esposizione, curata da Alessandro Romanini, propone 20 sculture dell’artista mozambicano, che rappresenta il proprio paese alla Biennale di Venezia 2019, create utilizzando materiali bellici smantellati come proiettili, parti di fucili e mitragliatrici, usati nella lunga e sanguinosa guerra civile che per 16 anni ha insanguinato il suo paese. Mabunda si appropria degli scarti bellici che vengono smontati e poi riassemblati per formare maschere e troni dalle reminiscenze tribali caratteristiche della cultura sub-sahariana. L’inizio di questa sua particolare produzione va ricercato nel programma governativo chiamato “Trasformare le pistole in speranze”, al quale Mabunda partecipò già dal 1995. Scopo del progetto era raccogliere le armi ancora estremamente diffuse sul territorio segnato dalla guerra civile appena conclusa, e distruggerne la gran parte mentre la quantità residuale, veniva consegnata agli artisti, chiedendo loro di “trasformarle” in modo creativo.

Le maschere di Mabunda hanno la forza evocativa e mantengono le valenze simboliche e rituali delle antiche maschere tribali africane facenti parte della cultura e della tradizione con le quali l’artista è nato cresciuto. Con le sue creazioni Mabunda condanna le atrocità della guerra e soprattutto ne mette in evidenza in chiave metaforica e simbolica, gli indissolubili legami con l’esercizio del potere politico. I troni, simbolo del dominio conquistato con le armi di cui sono composti, diventano allo stesso tempo denunce della vacuità di un governo ottenuto con la violenza e un cortocircuito tra la modernità tecnologica (di cui le armi sono espressione) e l’ancestralità dei riti del popolo mozambichiano e della sua memoria collettiva. “Mabunda – afferma Alessandro Romanini – si presenta quindi come creatore, nel senso letterale di costruttore, come colui che rende visibile, attraverso il lavoro di scomposizione e ricomposizione della forma, di un senso ulteriore delle cose. Un mediatore in grado di far ascendere la dimensione personale e quella del suo popolo a una dimensione di valore universale”.

“Il nascosto, evocato nel titolo – prosegue Alessandro Romanini – si riferisce alla nuova possibilità di esistenza di oggetti (le armi) all’interno di una struttura estetica che in nessun modo ne mitiga l’impatto aggressivo ma che lo incanala in una nuova possibilità di senso che diventa, per contrasto, denuncia ed epifania di una nuova forma di vita e di relazione sociale possibili”. Catalogo in galleria.

Note biografiche
Gonçalo Mabunda (1975, Maputo District, Mozambico. Vive e lavora a Maputo). Nonostante l’infanzia trascorsa in un paese devastato dalla guerra civile (1975-1991) Mabunda ha potuto frequentare le scuole della capitale del Mozambico (Maputo): ha iniziato a dipingere a 17 anni e dai 22 anni ha iniziato a lavorare come artista a tempo pieno. Ha al suo attivo la partecipazione ad esposizioni in prestigiose istituzioni di livello internazionale quali ad esempio: il Centre Georges Pompidou di Parigi (2005); il Mori Museum di Tokyo (2006); il Guggenheim di Bilbao (2016); Palazzo Reale di Milano (2016); il Palais de Tokyo di Parigi (2018). La sua prima presenza alla Biennale di Venezia risale al 2015 mentre quest’anno (2019) è stato selezionato per rappresentare il Mozambico nel padiglione nazionale. A livello internazionale collabora con la Jack Bell Gallery di Londra. Numerosi riconoscimenti internazionali gli sono stati conferiti per il suo impegno di attivista contro la guerra trasmesso attraverso i suoi lavori.

Rendezvous with the Ironic Sculptor Gonçalo Mabunda

Parma, Fondazione Magnani-Rocca – De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna

Parma, Fondazione Magnani-Rocca
De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna
16 marzo – 30 giugno 2019
WEBSITE

Arnold Böcklin, Prometheus, 1882, olio su tela, 115,5 x 150,5 cm

Nella storia della cultura occidentale, Prometeo è rimasto simbolo di ribellione e di sfida alle autorità e alle imposizioni, così anche come metafora del pensiero, archetipo di un sapere sciolto dai vincoli della falsificazione e dell’ideologia. Prometeo, figura della mitologia greca, è un Titano-eroe, amico dell’umanità e del progresso. A lui sono legati miti antichissimi: ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini e subisce la punizione di Zeus che lo incatena a una rupe ai confini del mondo; un’aquila ogni giorno si nutre del suo fegato che però di notte ricresce. A interrompere il crudele castigo interviene Eracle che, ucciso il rapace con una freccia, libera Prometeo dopo trentamila anni. Ha quindi spesso simboleggiato la lotta del progresso e della libertà contro il potere. In tutto lo sviluppo letterario del mito appare evidente la tendenza ad arricchirlo di motivi filosofici, facendo di Prometeo l’incarnazione dello spirito d’iniziativa dell’uomo e del suo ardimento nello sfidare le forze divine.

Se diversi notissimi artisti si sono confrontati col mito di Prometeo – da Rubens a Mattia Preti, fino alla versione déco in bronzo dorato di Paul Manship, simbolo del Rockefeller Center di New York – la più celebre è però quella del grande pittore simbolista Arnold Böcklin. Questo capolavoro, il grande Prometheus del 1882, opera somma della Collezione Barilla di Arte Moderna, viene eccezionalmente esposto al pubblico fino al 9 maggio alla Fondazione Magnani-Rocca, durante il primo periodo della mostra “De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna”. Qui trova per la prima volta dialogo con le due versioni del Prometeo di Giorgio de Chirico e del fratello Alberto Savinio, i Dioscuri dell’arte, di cui il Prometheus di Böcklin rappresenta l’imprescindibile modello.

Del dipinto (realizzato a Firenze, dove Böcklin visse a lungo, citata nella montagna raffigurata nel quadro che riprende il profilo del Monte Morello che sovrasta la conca della città) si coglie al primo sguardo solo un cupo paesaggio di tempesta: onde di un blu profondo si infrangono con violenza contro una ripida scogliera, coperta di una fitta vegetazione, mentre il cielo denso di nubi è squarciato da un fulmine. Solo dopo un’attenta osservazione si riconosce la pur gigantesca sagoma del corpo del Titano, incatenato alla montagna e soggetto alla furia del cielo. Il protagonista della scena non è più l’eroe ribelle, ma la drammatica lotta, impari e senza speranza, dell’uomo contro le forze misteriose e oscure sprigionate dalla natura, che appare demonicamente animata. La figura di Prometeo, la cui consistenza materica sembra assorbita dalla roccia e dalle nuvole, così inerte ed esposta, ci comunica un senso di eroica impotenza e di rassegnazione.

Böcklin è uno dei grandi uomini del nord che sognano le rive mediterranee dove è nata la classicità ellenistica, le pianure abitate dagli dei. La chiarità del sud, dove tra le ombre trasparenti la natura suscita e accoglie presenze mitiche, è un paradiso perduto; Böcklin tenta di ritrovarlo, e scende per questo a Roma. La cultura assimilata a Basilea, dove era nato, non dovette essere estranea a questa ricerca. Basilea era infatti la patria anche dello storico Jacob Burckhardt; e negli anni intorno al 1870 vi abitava Nietzsche, che in alcune conferenze anticipò i tratti fondamentali della Nascita della tragedia, edito nel 1872. Così cominciava quel libro: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”. È lo spirito nordico affascinato dalla Grecia.

Entro quella duplicità Böcklin, anche se sembra stare in bilico, partecipa del secondo termine; è dionisiaco, ebbro, e solo talora riesce forse a unire le due sponde. Ma troppa gioia, troppa solarità sono nel mito greco di Nietzsche, mentre la musa di Böcklin è la malinconia: la strada del mito porta in lui al dramma, al commercio con la morte. Non è classico, Böcklin: la nostalgia del classicismo greco, e quindi il desiderio del suo recupero, sono manifestazioni di spirito romantico. Proprio per la fedeltà alla sua natura nordica, per la profonda malinconia, per la modernizzazione del mito, Böcklin suscita, nella seconda metà del XIX secolo, un ritorno di romanticismo, fonda una grande arte neo-romantica. Di essa è esempio tra i più ricchi di fascino proprio il Prometheus, in un crescendo che vede l’artista realizzare in quello stesso periodo le cinque stesure dell’Isola dei morti, tra il 1880 e il 1886; opere di invenzione assolutamente nuova, che fanno di Böcklin uno tra i massimi pittori dell’Ottocento. È in esse un inno drammatico alla natura, e un rapporto profondo tra la natura e l’episodio che vi si svolge; mostrano così una derivazione dal romanticismo originario tedesco, cioè da Caspar David Friedrich, palese modello del giovane Böcklin per i suoi primi paesaggi. Il centro, fantastico e naturale, di queste opere sta nell’immagine di rocce sul mare: rocce coperte da una folta vegetazione e precipitanti a picco sull’acqua, che contro di esse si frange o che le lambisce quietamente. La terra possente, immobile, eterna, e l’acqua trasparente, immensa, agitata e anch’essa eterna – i due elementi della natura originaria contrapposti e uniti – esprimono la bellezza suprema del loro contrasto e della loro unione.

In Prometheus il mito si palesa, è calato entro la natura, la abita e ne è assimilato. Il gigante è disteso sulle rocce, nel punto supremo, dove la vegetazione si estingue e le nuvole incombono; lontano, quasi irreale, quasi sogno, il grande corpo sembra una proliferazione delle rocce o un addensamento delle nuvole, tanto vi appaiono simili il colore e i giochi delle ombre e delle luci; sembra entrare nella grande armonia naturale del cosmo. Questo paesaggio, spinto così in avanti, senza orizzonte, quasi a contatto con chi osserva, è di grande bellezza, drammaticità e coinvolgimento; non una veduta, ma una terra che ci attira e, nello stesso momento, impaurisce, richiama a sé, con un potere di attrazione prodotto da qualcosa al di là della bellezza. Il martirio di Prometeo sembra quasi nascosto, secondario, eppure crea il mistero del paesaggio, ne acuisce il dramma.

Giorgio de Chirico, grande ammiratore di Böcklin, trasse ispirazione da quest’opera nel suo Prometeo del 1909, prima opera dove il mito si cela tra gli elementi del paesaggio naturale, in cui il pittore inserisce nella roccia la gigantesca sagoma del Titano; come scrisse Maurizio Fagiolo dell’Arco “Il quadro Prometeo vede un’alta roccia coronata dalla tragica figura mitica (come in un quadro famoso di Böcklin) che si scorge a un’attenta analisi dell’immagine”. De Chirico stesso nel suo saggio su Böcklin del 1920 ricorda questa opera: “Nel suo Prometeo interpretò meravigliosamente quell’aspetto della divinità gigante scesa ad abitare la terra, aspetto di cui la prima idea gli venne forse vedendo il quadro di Poussin intitolato Paesaggio siciliano, che trovasi ora al museo di Pietroburgo, e ove si vede in fondo, dietro una valle abitata da ninfe, sopra una roccia alta, il dorso gigantesco di Polifemo che suona la zampogna”. E prosegue su Böcklin “La prima volta che vidi la riproduzione di un suo quadro, ero ancora un bambino”, mentre al soggiorno monacense ha sempre fatto risalire la conoscenza approfondita di Böcklin e di tutti gli altri suoi referenti pittorici e filosofici: Klinger, e poi Nietzsche, Schopenhauer, Weininger.

Anche per Alberto Savinio, Böcklin rappresenta un modello primario. La sua serie sulle città trasparenti, ammassi di rovine galleggianti su una sorta di isola flottante, evocano nell’impatto iconografico la citata serie dell’Isola dei morti dell’artista svizzero. Nel suo Prometeo del 1929, Savinio propone tuttavia una visione diversa da quelle di Böcklin e de Chirico, operando una trasformazione ironica dell’impacciato nudo fotografico ottocentesco che gli era servito come modello, in una figura di dimensione mitica, benché quasi acefala. Sono gli anni in cui primeggiano nella pittura di Savinio i corpi giganteschi di eroi dell’antichità pagana, anomale creature che animano una nuova e straordinaria iconografia di rivisitazione mitica, in ardite torsioni di stampo manierista che rendono improbabile ogni richiamo alla classicità pur nella loro nudità grecizzante. Il Prometeo di Savinio volge malinconicamente la minuta testa ovoidale al cielo dove spicca, come l’epifania di un sogno irrealizzato, la fiaccola prima donata e poi negata agli uomini coi colori e le forme dei giochi agognati nell’infanzia. Alter ego dell’artista solitario, sacerdote e mago: un veggente. Per la prima volta esposte insieme, le due versioni del Prometeo di de Chirico e Savinio si trovano al cospetto del capolavoro del loro maestro, fornendo una rara occasione di lettura e di confronto delle fonti artistiche, ma anche filosofiche, alla base dell’arte dei Dioscuri.

IMMAGINE DI APERTURAAlberto Savinio, I Re Magi, 1929, olio su tela.

Galleria d’Arte Moderna di Roma – Donne. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione

Galleria d’Arte Moderna di Roma
Donne. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione
24 gennaio – 13 ottobre 2019

Felice Casorati, Susanna, 1929, olio su tela

Nella mostra la rappresentazione femminile attraverso la storia
L’evoluzione dell’immagine femminile, protagonista della creatività dalla fine dell’Ottocento alla contemporaneità

Da oggetto da ammirare, in veste di angelo o di tentatrice, a soggetto misterioso che s’interroga sulla propria identità fino alla nuova immagine nata dalla contestazione degli anni Sessanta: la mostra DONNE. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione – alla Galleria d’Arte Moderna di Roma dal 24 gennaio al 13 ottobre 2019 – è una riflessione sulla figura femminile attraverso la visione di artisti che hanno rappresentato e celebrato le donne nelle diverse correnti artistiche e temperie culturali tra fine Ottocento, lungo tutto il Novecento e fino ai giorni nostri. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con Cineteca di Bologna, Istituto Luce-Cinecittà, la mostra presenta circa 100 opere, tra dipinti, sculture, grafica, fotografia e video, di cui alcune mai esposte prima o non esposte da lungo tempo, provenienti dalle collezioni d’arte contemporanea capitoline, a documentazione di come l’universo femminile sia stato sempre oggetto prediletto dell’attenzione artistica. Per i possessori della MIC Card l’ingresso alla mostra è gratuito.

“Le donne devono essere nude per entrare nei musei?” – si domandava in maniera provocatoria lo slogan di uno dei più famosi collettivi di artiste femministe americane. L’interrogativo rifletteva su una verità incontrovertibile. Per secoli l’immagine femminile è stata, infatti, protagonista della creatività: il nudo femminile come forma da studiare, modello di bellezza, di erotismo o di ludibrio, mentre la modella diventava, alternativamente, la musa ispiratrice, la fonte di ogni peccato, l’esempio di doti domestiche e di virginale maternità. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del XX secolo la rappresentazione della donna è incardinata in un ossimoro che ne mostra l’ambivalenza: da una parte immagine angelica, figura impalpabile ed eterea, puro spirito immateriale, dall’altra minaccia tentatrice, fonte di peccato e perdizione. Da Le Vergini savie e le vergini stolte di Giulio Aristide Sartorio, alle modelle discinte in pose provocanti dei pittori divisionisti (Camillo Innocenti, La Sultana) passando a L’angelo dei crisantemi di Angelo Carosi, la donna vive sospesa tra il suo essere allo stesso tempo ninfa gentile e crudele seduttrice, Musa e Sfinge, analogamente a quanto avveniva nella contemporanea letteratura simbolista e decadente di D’Annunzio e dei poeti d’oltralpe e nelle stupefacenti pellicole cinematografiche che facevano vivere sullo schermo le prime dive dell’epoca moderna.

I profondi cambiamenti sociali, politici che seguirono la fine della Grande Guerra con la messa in crisi dei valori tradizionali, determinarono anche la prima grande rottura di quell’immaginario consolidato. Di pari passo all’emancipazione sociale delle donne – dai primi movimenti delle suffragette in Europa alla prepotente entrata nel mondo del lavoro a causa delle contingenze storiche – anche la raffigurazione dell’immagine femminile nelle arti visive risentì delle contraddizioni di una società che stava cambiando. Alla trasformazione delle dinamiche sociali si aggiunse l’impatto che su tutta la cultura occidentale del Novecento ebbero le teorie freudiane (L’interpretazione dei sogni è del 1900) che scardinarono per sempre l’immagine armonica della famiglia tradizionale, ora descritta come coacervo di pulsioni e conflitti. Nella serie dei ritratti esposti al secondo piano della mostra spicca, tra gli altri, il volto di Elisa, la moglie di Giacomo Balla, ritratta mentre si volta per guardare qualcosa o qualcuno dietro di sé. Il valore iconico dell’immagine è racchiuso nello sguardo che muta lo stupore in seduzione e curiosità trasformando il ritratto della giovane donna da oggetto da ammirare a soggetto misterioso. Figure allo specchio si interrogano sulla propria identità, volti enigmatici restano ermetici allo sguardo, realistici nudi espressionisti si alternano a visioni di un’umanità felice in uno spazio senza tempo.

Il forte richiamo alla famiglia italica tradizionale propagandata dal Fascismo, insieme al decremento dell’occupazione femminile, al fine di sottolineare e riaffermare l’esclusivo ruolo della donna come madre, trovò riscontro in molte delle espressioni artistiche coeve. Eppure quel modello, fatto proprio da molta arte degli anni Trenta e Quaranta, viene spesso disatteso pur nella ripresa di un analogo soggetto in cui l’intimità delle mura domestiche diventa un luogo e un universo segnati da indecifrabili solitudini esistenziali (Antonietta Raphaël, Riflesso allo specchio; Luigi Trifoglio, Maternità; Mario Mafai, Donne che si spogliano; Baccio Maria Bacci , Vecchie carte). Il voto delle donne nel 1946, conquista ottenuta anche grazie alla partecipazione femminile alla guerra di liberazione, rappresentò una svolta radicale nella storia italiana. Fu solo a partire dalla fine degli anni Sessanta, però, che le lotte per il raggiungimento della parità di diritti produssero, nelle donne, un profondo cambiamento nella percezione di sé, delle proprie possibilità e potenzialità nei più vari ambiti compreso quello dell’arte. Contemporaneamente alla contestazione sociale dei modelli patriarcali, la consapevolezza di una nuova identità femminile fu al centro della ricerca di molte artiste (Tomaso Binga, Bacio indelebile; Giosetta Fioroni, L’altra ego) ed anche il ruolo predestinato di “madre”, passando dalla condizione di scelta obbligata, divenne il fulcro del dibattito sulle libertà della donna e sulla riappropriazione del proprio corpo (Sissi, Nidi).

Il percorso espositivo sarà accompagnato da videoinstallazioni, documenti fotografici e filmici tratti da opere cinematografiche e cinegiornali provenienti dalla Cineteca di Bologna e dall’Archivio dell’Istituto Luce-Cinecittà che ne hanno curato la realizzazione. In una sala della mostra sarà proiettato il film, prodotto dall’Istituto Luce, Bellissima (2004) di Giovanna Gagliardi che attraverso documenti storici dell’Archivio Luce, spezzoni di film, canzoni popolari e interviste racconta per immagini il cammino delle donne nel ventesimo secolo. L’ultima sezione della mostra, dedicata alle dinamiche e le relazioni tra gli sviluppi dell’arte contemporanea, l’emancipazione femminile e le lotte femministe, presenta materiale documentario proveniente da ARCHIVIA – Archivi Biblioteche Centri Documentazione delle Donne – e testimonianze di performance e film d’artista di alcune protagoniste di quella stagione fondamentale provenienti da collezioni private, importanti Musei e istituzioni pubbliche (Museo di Roma in Trastevere; Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale; Galleria Civica d’Arte Moderna Torino; MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna; MART – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto – Archivio Tullia Denza).

Per tutta la durata della mostra il percorso sarà arricchito da nuove opere presentate al pubblico con incontri inseriti nel ciclo L’opera del mese secondo un calendario in corso di programmazione che partirà da marzo prossimo. Saranno anche organizzate, fra aprile e ottobre 2019, una serie di iniziative culturali nel segno dell’interdisciplinarietà – incontri, letture, performances, presentazioni,proiezioni, serate musicali e a tema – sulle tematiche affrontate dalla mostra. La GAM Galleria d’Arte Moderna dalla primavera 2019 lancerà, attraverso il suo sito e i social network, anche il contest #donneGAM tramite il quale inviterà il pubblico a postare fotografie di donne protagoniste della propria storia familiare. Immagini di nonne, madri, sorelle, compagne, ritratte al lavoro, a scuola, in casa o in altri luoghi di vita, di attività e di impegno per documentare le tante storie di donne di ieri e di oggi. Tutte le fotografie saranno trasmesse in mostra, tramite un monitor, in un’area appositamente allestita. Fino alla fine di febbraio nelle sale della Galleria sarà presente anche un focus sull’opera di Fausto Pirandello grazie al prestito speciale del Museo del Novecento di Milano del dipinto Il remo e la pala (1933), esposto insieme ad altre opere della GAM Galleria d’Arte moderna dello stesso autore.

IMMAGINE DI APERTURAAmedeo Bocchi, Nel parco, 1919, olio su tela

Parco archeologico del Colosseo – Roma Universalis. L’impero e la dinastia venuta dall’Africa

Roma, Parco archeologico del Colosseo: Colosseo. Anfiteatro Flavio, e altri luoghi
Roma Universalis. L’impero e la dinastia venuta dall’Africa
15 novembre 2018 – 25 agosto 2019

Gli imperatori della dinastia africana dei Severi, che regnò sull’Impero romano tra la fine del II e i primi decenni del III secolo, diedero un fondamentale apporto all’evoluzione storico-artistica e architettonica, a Roma e in molte parti dell’impero. Questa mostra punta a far conoscere al più vasto pubblico possibile l’ultimo periodo dell’Impero in cui Roma fu grande, governata da imperatori che lasciarono un’eredità forte e duratura in molti campi, pur nell’avanzare del declino.
La mostra è articolata in un percorso a tappe tra i monumenti che questa dinastia costruì o restaurò nell’area archeologica centrale, dal Colosseo al Foro Romano al Palatino.

CONTINUA LA LETTURA SUL WEBSITE UFFICIALE
LA RECENSIONE SU www.artemagazine.it

IMMAGINE DI APERTURABusto di Caracalla, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, ph. Luigi Sp

Modena – Angelo Fortunato Formiggini. Ridere, leggere e scrivere nell’Italia del Primo Novecento

Modena, alla Galleria Estense e alla Biblioteca Estense
Angelo Fortunato Formiggini
Ridere, leggere e scrivere nell’Italia del Primo Novecento
dal 28 febbraio al 30 giugno 2019

Foto di gruppo alla maturità anno 1896-97

“È morto proprio come un ebreo: si è buttato da una torre per risparmiare un colpo di pistola”. Queste terribili parole furono l’epitaffio scritto da Achille Starace, segretario nazionale del Partito Fascista, all’indomani della tragica scomparsa di Angelo Fortunato Formiggini (1878-1938), lanciatosi nel vuoto dalla Ghirlandina, a seguito delle leggi razziali imposte dal regime fascista nel 1938, con in tasca dei soldi per dimostrare che non si stava uccidendo per ragioni economiche. A quest’uomo di straordinaria cultura, ebreo di origine modenese, lucido intellettuale e grande editore, la Galleria Estense e la Biblioteca Estense Universitaria di Modena, dal 28 febbraio al 30 giugno 2019, dedicano una mostra, col patrocinio del Comune di Modena | Comitato per la storia e le memorie del Novecento, della Regione Emilia-Romagna, di AIB Emilia-Romagna, che ne ripercorre la vicenda umana e intellettuale, in relazione al contesto storico-culturale italiano nei primi decenni del XX secolo.

L’esposizione Angelo Fortunato Formiggini. Ridere, leggere e scrivere nell’Italia del primo Novecento, curata da Matteo Al Kalak, invita a una riflessione sui valori della convivenza, della democrazia e sul significato della cultura all’interno della formazione di una coscienza collettiva. La rassegna, che si avvale di numerosi contenuti multimediali, curati da Space, condurrà il visitatore a un contatto diretto con la singolare personalità di Formiggini, presentando numerosi documenti del suo lascito, alcuni esposti per la prima volta, e altre testimonianze artistiche dell’epoca, legati alla vita dell’editore e della cultura italiana di inizio Novecento. Il percorso si apre con una sezione sulla storia dell’ebraismo italiano, che affonda le proprie radici nell’età antica e medievale. Saranno esposti importanti documenti, come l’atto con cui papa Niccolò V ufficializzò la politica di “tolleranza” inaugurata dai duchi di Ferrara e Modena, consentendo agli Estensi di accogliere gli ebrei nei loro Stati, o alcuni contratti di matrimonio, o ancora una Bibbia antica, tutti riccamente decorati, a testimonianza dell’eccezionale livello culturale raggiunto dagli ebrei estensi da cui Formiggini discendeva.

Si passa poi alla giovinezza di Formiggini, in un panorama in grande fermento. L’Italia, lasciate alle spalle le guerre di indipendenza e con il primo conflitto mondiale lontano, si presenta come un laboratorio di idee e movimenti. Lo Stato unitario inaugura il nuovo secolo con il clamoroso attentato al re Umberto I e con il fronte politico dominato da Giovanni Giolitti, i cui governi caratterizzeranno il periodo precedente la prima guerra mondiale e, nel 1911, accompagneranno l’Italia all’impresa coloniale in Libia. Sono anni densi anche sul piano della cultura. Tra i letterati spiccano, ad esempio, Giosuè Carducci, il “poeta vate” della nazione o, ancora, Giovanni Pascoli, destinato ad avere un ruolo decisivo nella vicenda di Formiggini. Non mancano poi altre voci, da quella lirica ed estetizzante di Gabriele D’Annunzio, ai toni roboanti dei futuristi, anzitutto Filippo Tommaso Marinetti.

È in questo clima di profondo cambiamento che si situa l’esperienza del giovane Formiggini. Dopo il soggiorno a Roma, eccolo a Bologna dove nel 1907 consegue la laurea in filosofia con la tesi sulla “filosofia del ridere”, qui presentata in originale, con la quale inaugurò una riflessione teorica sull’umorismo e il riso che costituì il preludio di edizioni e collane librarie cui darà vita nei decenni successivi. Accanto a questa, saranno esposti alcuni doni ricevuti dallo stesso Formiggini, come il “libro di latta” dell’amico futurista Filippo Tommaso Marinetti. Nel 1908, Formiggini inizia la sua esperienza editoriale, sulla base degli ideali di fratellanza universale cui si era ispirato nel corso della sua giovinezza. L’avvio delle edizioni Formiggini, nel segno del poeta modenese Alessandro Tassoni, è contraddistinto dalla Miscellanea tassoniana, e dalla raccolta burlesca intitolata La Secchia: nelle due imprese furono coinvolti nomi illustri quali Giovanni Pascoli, Giulio Bertoni, Carlo Frati, Albano Sorbelli e Giulio Bariola.

Trasferitasi a Genova nel 1911, la casa editrice raggiunge i suoi vertici più alti, con 29 titoli pubblicati nel 1912 e 46 nel 1913. Allo scoppio della prima guerra mondiale, Formiggini, convinto interventista, parte poi per il fronte, persuaso che l’Europa postbellica sarebbe risorta “civile e fraterna”, se vi fosse stata “comunione di cultura fra i popoli”. Per questo, durante un congedo per malattia che si sarebbe protratto dalla fine del 1915 al 1917, fa inviare ai commilitoni quattordici casse di libri corredati da una “lettera ai combattenti” in cui spiegava la necessità di costituire biblioteche da campo. Anche durante le ristrettezze del conflitto, Formiggini rimane dunque un editore, convinto che solo la diffusione della conoscenza mediante i libri avrebbe potuto ristabilire le sorti dei popoli. Terminata la guerra, la seconda fase dell’avventura editoriale di Formiggini si situa nel contesto del regime fascista. Formiggini, che non aveva mancato di guardare con favore ai nuovi sviluppi politici, si deve misurare con la situazione venutasi a creare. Il rapporto con il regime e, soprattutto, con i suoi gerarchi, piccoli e grandi, non è facile.

Le conseguenze del nuovo ordine imposto dal fascismo si fa sentire, inevitabilmente, anche sul piano dell’organizzazione culturale: Formiggini mostra un atteggiamento ambiguo, tentando di trovare un equilibrio nel quadro di repressione e controllo che presto si viene a instaurare. Da un lato, nella produzione degli anni venti e trenta compaiono biografie dedicate a personalità invise al regime, come le “Medaglie” dedicate ad antifascisti quali Luigi Sturzo, Giovanni Amendola o Filippo Turati; dall’altro Formiggini tenta di compiacere lo stesso Mussolini e, più in generale, il suo entourage con opere come le Battaglie giornalistiche, in cui vengono proposte al pubblico le polemiche che il duce aveva condotto dalle colonne a stampa. Nel complesso, Formiggini definisce quello di Mussolini “un formidabile tentativo di dare all’Italia un’anima nuova e vibrante di fede”, che tuttavia aveva visto nei gerarchi e negli altri uomini dell’apparato dei cattivi esecutori.

La vera frattura con il regime e, per molti aspetti, l’avvio della definitiva disgrazia della impresa editoriale di Formiggini si ha con lo scontro con il filosofo Giovanni Gentile, uno degli esponenti più illustri del regime. Gli anni trenta segnano per l’azienda di Formiggini un momento di rapido declino. Nonostante i tentativi di riconfigurare l’assetto societario – la casa editrice è trasformata nella Società Anonima Formiggini –, il capitale subisce una svalutazione del 40% e le passività createsi sono fronteggiate da Angelo Fortunato con la vendita di molti terreni e proprietà di famiglia. Nel 1937, il regime arriva addirittura a confiscare la casa di Formiggini nei pressi del Campidoglio a Roma, dove Mussolini aveva disposto un riassetto urbanistico attorno all’attuale via dei Fori imperiali. Nel 1938, infine, con l’uscita del Manifesto della razza e, a breve distanza, delle leggi razziali, il Ministero della Cultura indaga sull’etnia dei dipendenti della casa editrice Formiggini.

Per l’editore modenese, sono mesi di disillusione, in cui fa di tutto per essere “discriminato”, ovvero esentato dalle normative sulla razza. Scrive inutilmente al Ministero della guerra per richiedere la croce di guerra che lo avrebbe salvato dalle leggi razziali. Tra i documenti tratti dagli archivi dell’azienda editoriale, affiorano le lettere, riservate e burrascose, indirizzate a Mussolini e agli altri gerarchi del regime fascista. La sua vicenda umana s’interrompe in modo tragico, quando l’editore si getta dalla torre della cattedrale di Modena.

Chiudono idealmente il percorso due documenti di eccezione: il testamento olografo di Formiggini e la ricostruzione virtuale, basata su foto d’epoca e ricerche d’archivio, della “Casa del ridere”, la collezione privata di manoscritti e stampe sull’umorismo, che Formiggini custodì gelosamente fino agli ultimi giorni per farne dono, alla sua scomparsa, alla Biblioteca Estense. Alla mostra si accompagna una rassegna dedicata alla collezione di cartoline provenienti dalla raccolta Casa del Ridere di Angelo Fortunato Formiggini, ambizioso e variegato progetto collezionistico da lui stesso definito “una specie di biblioteca e di museo di tutto ciò che è attinente al Ridere, senza limiti di tempo e di geografia”. La rassegna Intitolata Ridere in tempo di guerra. La Grande Guerra raccontata dalle cartoline di Angelo Fortunato Formiggini, a cura di Nadia de Lutio ed Erica Vecchio, nella Sala Campori della Biblioteca Estense Universitaria restituirà una visione d’insieme degli orientamenti e dei principali eventi della Grande Guerra, letti attraverso la lente delle cartoline umoristiche. Seguendo quella filosofia del ridere tanto cara all’editore modenese, il visitatore potrà ripercorrere la storia di personaggi come Guglielmo II e Francesco Giuseppe, gli anni cruciali del conflitto e i suoi tragici danni. Oltre all’indubbio valore di testimonianza storica sulla Grande Guerra, queste cartoline conservano ancora la viva bellezza del tratto artistico e satirico di importanti illustratori dell’epoca come Aurelio Bertiglia, Attilio Mussino, Golia (pseudonimo di Eugenio Colmo), Virgilio Retrosi. Catalogo Edizioni Artestampa

IMMAGINE DI APERTURAFilippo Tommaso Marinetti, Parole in libertà. Biblioteca Estense Universitaria

Modena – Pop Therapy. Lo spirito rivoluzionario delle figurine Fiorucci

Modena – Museo della figurina
Pop Therapy
Lo spirito rivoluzionario delle figurine Fiorucci

9 marzo – 25 agosto 2019

Fiorucci Stickers, 1984 Panini, Modena Dall’album per la raccolta di 200 figurine. Courtesy Comune di Modena, Museo della Figurina – FONDAZIONE MODENA ARTI VISIVE

La mostra rende omaggio al genio eclettico di Elio Fiorucci, attraverso l’album di figurine Fiorucci Stickers, pubblicato dalle Edizioni Panini nel 1984, che riscosse uno straordinario successo, con oltre 25 milioni di bustine vendute, e riassume la storia grafica della maison milanese. Accompagna la rassegna un intervento di Ludovica Gioscia, artista romana la cui pratica artistica è fortemente influenzata dai linguaggi espressivi della cultura e società degli anni ’80.

Dal 9 marzo al 25 agosto 2019, il Museo della Figurina di Modena, una delle realtà istituzionali che fa parte di FONDAZIONE MODENA ARTI VISIVE, presenta una mostra che rende omaggio al genio eclettico di Elio Fiorucci (1935-2015), creativo, pioniere dei moderni influencer e molto altro ancora. L’esposizione, dal titolo POP THERAPY. Lo spirito rivoluzionario delle figurine Fiorucci, curata da Diana Baldon, direttrice di FONDAZIONE MODENA ARTI VISIVE, e Francesca Fontana, curatrice del Museo della Figurina, indaga il ‘fenomeno Fiorucci’ attraverso 200 figurine che compongonol’album Fiorucci Stickers, pubblicato nel 1984 dalle Edizioni Panini e riassume l’immagine grafica della casa di moda milanese conosciuta in tutto il mondo. Già dalla confezione, l’album si presenta in modo assolutamente innovativo: non una pubblicazione sfogliabile ma un raccoglitore di colore rosa fucsia e giallo fluo, richiudibile mediante un bottone calamitato, al cui interno si trovano 28 schede mobili su cui attaccare le figurine. La flessibilità che lo caratterizza è strumentale per consentire all’utente di esprimere la propria creatività e mettere alla prova la propria fantasia. All’epoca della pubblicazione, le figurine erano considerate veri e propri oggetti di design, utilizzabili per decorare diari, motorini, ante di armadi, uno dei tanti linguaggi espressivi con cui si esprimeva la cosiddetta ‘Fioruccimania’.  Una vera e propria opera in stile Fiorucci che ebbe uno straordinario successo, con oltre 25 milioni di bustine vendute, pari a 105 milioni di figurine, ed è stato uno dei rari esempi di recupero del ruolo pubblicitario della figurina.

Il percorso espositivo, organizzato in sezioni, ricalca la divisione tematica dell’album. Fiorucci Storypropone alcune delle immagini più iconiche del marchio, dai celebri candidi angioletti elaborati dal grafico Italo Lupi nel 1970, alle sfrontate e provocanti campagne pubblicitarie incentrate sulla nudità del corpo femminile concepita da fotografi e grafici come Oliviero Toscani e Augusto Vignali. Electronrivela dischi volanti, circuiti, robot, videogames che sembrano fuoriusciti dal canale televisivo MTV;Pin Up propone gli stereotipi di donne sensuali e ammiccanti “made in USA”; Dance è un compendio della storia del ballo; Romance è incentrato sull’amore e la passione, con citazioni di vecchi film e fumetti rivisitati in chiave pop; Swim, infine, celebra la vita in spiaggia e i costumi da bagno. La mostra si conclude con una sezione dedicata ai negozi Fiorucci, la cui realizzazione era generalmente affidata a importanti architetti e designer quali Amalia Del Ponte, Ettore Sottsass, Michele De Lucchi, Franco Marabelli e Andrea Branzi. Sono esposti studi e progetti degli spazi e dell’arredamento, nonché alcune fotografie dei punti vendita, tutti provenienti dallo CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma.
La rassegna è arricchita da una selezione di oggetti quali abiti, accessori, scatole in latta e riviste d’epoca concessi in prestito da collezionisti privati.
Catalogo Franco Cosimo Panini.

Completa il percorso, l’installazione di Ludovica Gioscia (Roma, 1977), le cui opere risultano fortemente influenzate dalla cultura e dalla società degli anni ’80. Gli oggetti e i movimenti del periodo, che hanno avuto un impatto indelebile sulla sua formazione, si ripresentano nelle sue sculture e installazioni. Modelli grafici, tessuti, frammenti di diari personali, carte da parati, una serie dei suoiPortals appesi al soffitto e i Mad Lab Coats affiancheranno le figurine e i materiali di Fiorucci per creare un ambiente suggestivo, di forte impatto visivo. Ponendo l’attenzione sul pattern come elemento-chiave della figurazione degli anni ottanta, Ludovica Gioscia sottolinea come l’interesse per la moda e il design non riguardi soltanto la sfera d’espressione creativa ma la dinamica di un mondo industriale consumistico all’interno del quale moda e design dettano qualsiasi codice, da come ci si muove a come ci si rapporta alle cose. Nel 2010 l’artista ha creato l’Archivio Paninaro, al quale si è ispirata per una selezione di documenti archivistici pensati per cogliere legami con l’album Fiorucci e con il periodo storico in cui esso è stato prodotto, e realizzare una sorta diWunderkammer ricca di riferimenti all’immaginario Fiorucci e agli anni in cui esplodeva il fenomeno. Il titolo dell’installazione It’s Everything I’ve Always Wanted, All Plastic è una citazione di Andy Warhol in riferimento al negozio Fiorucci di New York. POP THERAPY è realizzata in collaborazione con Ca’ Pesaro Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Venezia – Fondazione Musei Civici di Venezia.

IMMAGINE DI APERTURAFiorucci Stickers, 1984 Panini, Modena Album per la raccolta di 200 figurine Courtesy Comune di Modena, Museo della Figurina – FONDAZIONE MODENA ARTI VISIVE