La Generazione Beat italiana (i Capelloni) e l’Antigruppo
di Roberto Floreani curatore della mostra
La sezione dedicata alla Beat Gen, affiancata alla Pop italiana, rappresenta l’autentica novità dell’intero progetto, soprattutto nella sua estensione al misconosciuto Antigruppo siciliano, che conferisce identità nazionale a un sentire comune fino ad oggi circoscritto soprattutto a Torino e Milano.
Ci sono alcune dichiarazioni di quegli anni che rendono meglio di ogni altra cosa la temperatura di quella stagione: “Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il Beat è morto”, che Allen Ginsberg, il vate della Beat Generation disse a Gianni Milano, pari grado in Italia; e inoltre: “Perché siamo capelloni beat, randagi agnelli angeli fottuti”, scritta da Gianni De Martino, altro protagonista di quegli anni.
Indubbiamente l’Italia viene scossa dall’uscita nel 1964 del libro Poesia degli ultimi americani, curato da Fernanda Pivano, che sposta l’ottica dei giovani da Pavese, Baudelaire, Fenoglio, Svevo, verso Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, permeati da un’idea di ribellione e di autonomia totale verso il passato.
Il vocabolo Beat nasce negli Stati Uniti da un dialogo tra Jack Kerouac e Clellon Holmes nel 1948, diffuso poi al grande pubblico dal “New York Times” solo verso la fine del 1952: nell’uso comune di quegli anni sarà attribuita a un soggetto che ha toccato il fondo del mondo, senza un soldo e un posto dove stare. Mentre la Pop Art negli States prenderà identità precisa a New York solo un decennio dopo.
In Italia le tendenze Pop e Beat, pur nell’improprietà delle due definizioni, avranno una genesi più ravvicinata: con la prima di fatto identitaria a partire dal 1962 e la seconda che darà tracce già dal 1965. Entrambe saranno accomunate quindi da un sentire comune attento ai fermenti sociali, politici, economici e di costume di quegli anni e diventeranno lo specchio delle utopie, delle illusioni e delle speranze di buona parte di quella generazione. La declinazione musicale di quegli anni, infatti, fa ancora parte dell’immaginario collettivo di una larga parte della popolazione adulta di oggi.
Tuttavia, la ricezione di quel fortissimo messaggio libertario d’oltreoceano verrà immediatamente assimilata a misura della realtà italiana, in quella Torino dei “capelloni” che diverrà la capitale del giovanilismo alternativo: “randagi agnelli angeli fottuti”, come sintetizzato dall’illuminante dichiarazione di Gianni De Martino. In tal senso, preziosa è la testimonianza di Gianni Milano, che racconta della spasmodica ricerca di quei figli dello stupore assetati di libertà che contestano la società, l’istituzione, la famiglia, la scuola, il sistema. Fermento che sorge dal basso, peculiarità distintiva nazionale e che si catalizza in un campeggio spontaneo, improvvisato, battezzato Nuova Barbonia, pressoché privo di strutture dove i Capelloni vogliono decidere della loro vita, senza condizionamenti e che sarà sgomberato con la forza dalla Polizia, in un tripudio repressivo di stampa senza precedenti. Una Beat italiana nata dalla protesta, dalla contestazione che sarà quasi immediatamente fagocitata dalla politica, aggregata a quel movimentismo che condurrà, da lì a pochi anni, al Sessantotto e alla stessa contestazione della Beat americana vista come frutto di un paese imperialista, che già evidenzia i suoi contrasti in casa con la tragica guerra del Vietnam.
La Beat italiana si identificherà presto nella sottocultura, nel sottoproletariato, dove giovani quasi analfabeti volevano scrivere poesie, atmosfera distante da quella respirata nelle università americane e nella libreria City Lights di Ferlinghetti, anche fortunato editore di caposaldi mondiali quali la poesia L’Urlo di Allen Ginsberg, già protagonista in tutte le università americane per narrare, recitare e diffondere la propria esperienza di libertà.
La Beat italiana sarà distantissima da quel mondo, nel migliore dei casi cercherà di autoprodursi, autodiffondersi, di sopravvivere, distante dalle dorate realtà delle case editrici nazionali impegnate nella pubblicazione degli autori americani.
Per questo motivo, riuscire a esporre in mostra i rarissimi testi di quegli anni, di quelle edizioni con tirature minimali, senza distribuzione, senza diffusione libraria e oramai sparite dal mercato, rappresenta oggi un contributo significativo ai fermenti di allora.
L’Antigruppo siciliano di Nat Scammacca
Nello stesso periodo, passata da poco la metà degli anni sessanta, emerge un’altra realtà seminale della Beat italiana, a Erice, in provincia di Trapani. Una realtà collettivistica guidata dalla figura carismatica di Nat Scammacca che si doterà, fin dagli esordi, di un corposo Manifesto fondativo in 21 punti. La valorizzazione dell’Antigruppo rappresenta un tassello fondamentale per dotare la tendenza Beat italiana di un respiro nazionale fino ad oggi mai considerato, di riconoscere a un nutrito gruppo dell’estremo sud uno spessore teorico pressoché sconosciuto al nord e quindi mai considerato nel racconto di quegli anni. Nat Scammacca redige i 21 punti di polemica aperta, dove “chi non è del nostro gruppo è falso”, ovvero schiavo di quelle case editrici che si sono allontanate dal popolo, autocelebrandosi nei salotti dorati del capitalismo.
L’Antigruppo, di nome e di fatto, si oppone al monopolio del Gruppo ’63 – di cui vale ricordare l’atto fondativo proprio a Palermo – egemonico e distante dalla realtà di quella base che dovrebbe invece rappresentare: “la loro verità è bugia, quindi”. Due i principali obiettivi della polemica: Edoardo Sanguineti, il coordinatore, e Umberto Eco, l’affabulatore. Quella dell’Antigruppo è una feroce contestazione marxista alla sinistra imborghesita e un’opposizione assoluta al fascismo, pur con evidenti reminiscenze verbali e strutturali riconducibili alla comunicazione dei gruppi futuristi, pur molto attenti all’emancipazione delle estreme periferie nazionali.
Guidati da Nat Scammacca, gli affiliati Crescenzio Cane, Gianni Diecidue, Ignazio Apolloni, Antonino Cremona, Santo Calì, Pietro Terminelli, Emanuele Mandarà, Ugo Minichini, Giuseppe Addamo e molti altri saranno ricevuti nell’aprile del 1973 da Lawrence Ferlinghetti nella libreria City Lights a San Francisco, dove verrà loro attribuito un grande contributo culturale: “POPULIST MANIFESTO – for poets with love […] they are a fantastic production!”. Nonché riconosciuto Scammacca come più rilevante poeta Beat italiano.
Rispetto alla Beat Gen riconosciuta fino ad oggi, l’Antigruppo si doterà, negli anni, di testi teorici-popolari di grande rilevanza sociale: primo fra tutti “Estetica Filosofica Populista dell’Antigruppo siciliano”, che supportato dai ciclostilati (!) Antigruppo 1971, Esistenza e Antigruppo – 21 punti di polemica aperta, rappresentano la testimonianza più concreta dell’autonomia espressiva, sociale e movimentista della poetica Beat italiana, rispetto a quella americana.
Tutti scritti di difficile reperimento, perché auto-pubblicati in pochissime copie o rilegati da ciclostilati, che saranno esposti in mostra, in gran parte autografati dai protagonisti, presentando dei testi per la quasi totalità ancora inediti.