Alphonse Mucha – Idealizzò a simbolo erotico l’immagine femminile

di Sergio Bertolami

28 – Il fascino fatale della femme fin-de-siècle

Quando si parla di Art Nouveau, spesso la mente corre alle leggiadre fanciulle ritratte da Alphonse Mucha, ragazze adorabili di delicata sensualità e fantasia, dai capelli boccolosi mossi dal vento, con camicie lunghe e svolazzanti, avviluppate in intrecci floreali. Questo perché Mucha è stato, da sempre, uno dei personaggi simbolo del nuovo stile e del clima parigino fin-de-siècle. Essendo, però, un convinto patriota cecoslovacco, forse si sarebbe risentito di essere considerato un “parigino” e forse anche di essere identificato soltanto per una fase della sua carriera. Capita spesso agli artisti, ecco perché non amano essere catalogati: le correnti per loro natura hanno limiti sempre troppo definiti. Alphonse Mucha, moldavo di nascita (Ivančice 1860), trascorse gli ultimi anni di vita, lavorando a quello che considerava il suo capolavoro d’arte, L’epopea slava (Slovanská epopej), venti enormi dipinti raffiguranti la storia dei popoli cechi e slavi che donò alla città di Praga nel 1928. Eppure, queste opere, sotto il profilo artistico furono criticate e sotto quello politico vennero denunciate dalla stampa, ubriacata dall’ondata crescente del nazismo, come “reazionarie”. Così quando le truppe tedesche occuparono la Cecoslovacchia, nella primavera del 1939, Mucha fu tra i primi ad essere arrestato e interrogato dalla Gestapo. I giorni di prigionia lo fecero ammalare di polmonite e, sebbene fosse stato rilasciato, il 14 luglio 1939 morì. Nei suoi ultimi anni, Mucha s’era infervorato di nazionalismo e aveva ripreso lo stile storicista considerato da molti ormai obsoleto, tanto lontano dall’arte floreale che lo aveva portato al successo.

Jiri Mucha, Alphonse Maria Mucha: His Life and Art, 1966

Suo figlio, il giornalista Jiri Mucha, gli ha dedicato molti articoli, per riportare l’attenzione sulle opere col tempo trascurate, e quando durante gli anni Sessanta del secolo scorso s’è finalmente risvegliato un interesse generale per l’Art Nouveau, in un libro ne ha celebrato la figura artistica a tutto tondo (Alphonse Mucha: his life and art, 1966). Secondo jiri, Mucha «quando ancora gattonava sul pavimento prima che imparasse a camminare, sua madre gli legava una matita al collo con un nastro colorato in modo che potesse disegnare. Ogni volta che perdeva la matita, iniziava a urlare». Chissà mai se questo preludeva davvero al grande artista. Di tali amenità a posteriori se ne leggono tante. Fatto sta che, ormai cresciuto, mentre si guadagnava da vivere come impiegato, continuava ancora a disegnare, da autodidatta. Nel 1877 tentò senza successo di entrare all’Accademia di Belle Arti di Praga. Ripiegò in qualcosa di simile un paio d’anni dopo, rispondendo ad un annuncio della ditta viennese Kautsky-Brioschi-Burghardt, che cercava disegnatori e artigiani per allestire scenografie teatrali. Qualcuno ricorderà la prima attività di Klimt; come lui anche Mucha prese a dipingere seguendo l’arte acclamata di Hans Mackart. Quando nel 1881, il Ringtheater, dove la ditta stava lavorando, fu ridotto in spezzoni ardenti, uccidendo 449 persone, il giovane disegnatore perdette il lavoro.

Paul Gauguin suona l’armonium
nello studio di Alfons Mucha
in rue de la Grande-Chaumière, Parigi, 1895 circa

Non gli rimase che fare l’artista di strada nella piccola città ceca di Mikulov, alloggiando all’Hotel Lion, un alberguccio a buon mercato. Si sosteneva con qualche veduta del paese, qualche ritratto di persone del luogo, in mostra nella vetrina di un negozio. Di quei giorni Alphonse Mucha raccontò, a suo figlio jiri, un aneddoto divertente (per noi): «Ho raffigurato il volto di una bella donna e l’ho portato a Thiery, il negoziante, che lo ha esposto in vetrina. Poi ho cominciato ad aspettare con ansia il denaro. Quando per due e anche tre giorni non ci furono notizie di Thiery, andai a chiederglielo io stesso. Il buonuomo non fu affatto contento di vedermi. La popolazione di Mikulov era indignata e lui aveva dovuto tirare via il dipinto dalla vetrina. La giovane donna che avevo raffigurato era la moglie del medico locale, e Thiery aveva messo un avviso accanto al ritratto scrivendo: «Per cinque fiorini all’Hotel Lion». Lo scandalo fu debitamente spiegato e alla fine l’equivoco funzionò a mio vantaggio. Tutta la città ora sapeva che all’Hotel Lion avrebbe potuto incontrare, non la signora del ritratto, ma un bravo artista. Nel corso del tempo, ho dipinto l’intero quartiere, tutti gli zii e le zie di Mikulov». L’aneddoto gustoso di per sé, è indicativo anche per altri motivi. Il primo fu che schizzi, disegni, dipinti di Mucha, riscossero evidenti consensi da parte della popolazione di Mikulov. Una popolazione non certo raffinata culturalmente, né incline ad accettare proposte pittoriche inconsuete. Mucha si manteneva opportunamente all’interno dei confini prescritti dall’arte accademica. Accadde tutt’altro a Gauguin col quale Mucha per un po’ dividerà lo studio parigino nel 1893, quando gli scatterà una foto spassosa, in cui il pittore senza pantaloni suona l’harmonium. In Bretagna – molti lo ricorderanno – Gauguin dipinse La Belle Angèle (1889), albergatrice a Pont-Aven, una delle donne più belle del paese. Quando alla fine le mostrò il lavoro, la donna esclamò «Che orrore!» e gli disse che poteva benissimo tenerselo. Gauguin, in quell’occasione, aveva deciso di «osare tutto», applicando le soluzioni intraviste sulle stampe giapponesi, Mucha non aveva ancora osato niente. Tant’è che quel suo operare convenzionale e accademico gli valse l’incontro col primo dei suoi mecenati, il conte Khuen Belassi, che lo invitò ad abbellire con affreschi – in verità pannelli decorativi realizzati fuori opera – la sala da pranzo nel nuovo castello di Emmahof vicino a Hrusovany. I dipinti non esistono più, distrutti negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale. Quando gli affreschi di Emmahof, furono terminati, il conte Khuen cedette Mucha a suo fratello, il conte Egon, che viveva nel castello avito di Gandegg in Tirolo. Qui si verificò il primo vero salto di qualità, perché, se è vero che Mucha aveva perso l’occasione di frequentare i corsi all’Accademia di Belle Arti di Praga, ora il conte Egon gli offriva di studiare a Monaco di Baviera. Ritroviamo Monaco nelle biografie di molti artisti: Corinth, Kandinsky, von Jawlensky, Klee, de Chirico. Solo che quando vi giunse, Mucha era troppo in anticipo, per la Secessione di Monaco mancavano sette anni. Con una seconda serie di affreschi a Emmahof, il conte Khuen lo compensò generosamente chiedendogli di scegliere tra Roma o Parigi. Scelse Parigi e fu la sua fortuna. Non tanto perché entrò all’Académie Julian e proseguì all’Académie Colarossi – ambienti dove fece amicizia con molti membri dei Nabis – neppure perché conobbe l’arte giapponese dilagante e neanche perché visse la città fremente in vista della mostra dell’anno 1889, quella che avrebbe celebrato i cento anni dalla Rivoluzione francese e si sarebbe imposta agli occhi del mondo con la sua simbolica torre Eiffel. Fu la sua fortuna perché non tutti i mali vengono per nuocere: alla fine del 1889, improvvisamente e senza preavviso, il conte Khuen interruppe il suo sostegno finanziario e il giovane dovette inventarsi l’arte della sopravvivenza.

Pannelli murali decorativi al castello di Hrušovany Emmahof

Per un grafico, fantasioso come lui, non era poi difficile trovare lavoro in una Parigi con un’attività commerciale stimolata dall’Esposizione Universale. Cominciò a guadagnarsi da vivere modestamente, come illustratore per varie riviste e libri. Fino ad allora Mucha aveva, però, seguito le indicazioni e le richieste dei suoi committenti. All’inizio del 1890 ancora dipingeva quadri come quelli appesi alla Neue Pinakothek di Monaco, al Musée du Luxembourg primo museo di arte contemporanea nella Parigi dell’epoca. Quadri essenzialmente accademici. Delle nuove correnti invece sapeva poco o niente, né più né meno degli altri giovani amici suoi. Il compagno di studi Maurice Denis sintetizzava bene conoscenze ed interessi: «Anche gli studenti più capaci non sapevano quasi nulla dell’impressionismo. Ammiravano Bastien-Lepage, parlavano con rispetto di Puvis de Chavannes, discutevano di Peladan e Wagner, leggevano letteratura decadente, quanto scadente, e si appassionavano al misticismo, alla Cabala e al calendario caldeo». Nelle pagine biografiche, Jiri Mucha aggiunge: «Potevo vedere in mio padre fino a che punto questa miscela di teosofia, occultismo e misticismo affascinasse i suoi seguaci, eppure mio padre non si dichiarò mai un simbolista e probabilmente sarebbe rimasto molto sorpreso da una tale classificazione». Nonostante questa osservazione, nello studio di Mucha si raccolsero molti dei simbolisti di tendenza esoterica e strinse amicizia con Albert de Rochas, famoso specialista di ipnotismo e di parapsicologia. Fatti privati che poco interessarono i suoi lavori. Ora occorreva, soprattutto, che l’arte uscisse dalle sale delle pinacoteche e dei musei, per diffondersi all’esterno, nelle piazze e nelle strade. Sappiamo che a Parigi l’arte nuova aveva svoltato grazie a due importanti promotori come Siegfried Bing col negozio “L’Art Nouveau” e Julius Meier-Graefe con “La Maison Moderne”. Affinché si verificasse, però, una trasformazione compiuta del gusto sociale, occorreva che l’arte nuova fosse percepita ovunque e da chiunque. Al di là delle facili soluzioni, occorrevano strumenti espressivi nuovi. Due furono i mezzi che a Parigi diffusero l’Art Nouveau di luogo in luogo: gli ingressi alla linea metropolitana realizzati da Hector Guimard e i manifesti concepiti da Alphonse Mucha.

Hector Guimard, Castel Béranger, il primo condominio Art Nouveau a Parigi

Lo stile Art Nouveau esplose, infatti, a Parigi col progetto di Guimard (1895-1898) noto come Castel Béranger. Nonostante il nome, era un semplice condominio, che deve avere suscitato fantasie medievali – a cominciare da quelle del progettista, seguace di Eugène Viollet-le-Duc – per la facciata asimmetrica, per il gioco di chiari e scuri volumetrici, di aggetti e rientranze. Un condominio formato da 36 appartamenti, grandi e piccoli. Al sesto piano quattro atelier d’artista, occupati fra gli altri dal pittore Paul Signac e dal designer Tony Selmersheim. Signac descrisse così il Castel Béranger per La Revue blanche del 15 febbraio 1899: «È un edificio residenziale molto moderno, a tre corpi che contengono una quarantina di appartamenti. La sua facciata, invece di essere il solito rettangolo, traforato da aperture simmetriche, è molteplice: i mattoni rossi o smaltati, la pietra bianca, l’arenaria fiammata, la graniglia di marmo, sono disposti sui lati disuguali, sui quali si aggrappano – in varie tonalità di un blu verdastro – il ferro e la ghisa dei balconi, dei bow-window, dei ganci di fissaggio, dei tubi, delle grondaie e delle boiserie, di un identico colore, ma in un tono più chiaro. La porta d’ingresso in rame rosso sfavillante». La scintilla si produsse davvero, se la realizzazione vinse il primo concorso per le facciate più belle della città di Parigi (1898). La conversione di Hector Guimard per l’arte nuova era avvenuta tre anni prima, durante un viaggio a Bruxelles dove aveva incontrato Victor Horta e visitato il cantiere dell’hotel Tassel ancora in costruzione. Il Castel Béranger, pur tributandogli la fama fra una cerchia ristretta e danarosa di estimatori, non avrebbe potuto, comunque, rendere Guimard la figura di spicco che fu per l’Art Nouveau parigina, se non fosse stato per un progetto di più ampio respiro.

Hector Guimard, capolinea della Linea 1 della Metropolitana

L’evento nodale intorno al quale ruotò il suo successo ha come contesto l’Esposizione Universale del 1900. La città di Parigi stava preparando l’evento del secolo, desiderando qualificarsi come una delle più grandi metropoli europee. Il trasporto pubblico era fra le necessità principali della modernità. La linea 1 (Porte de Vincennes – Porte Maillot) venne aperta il 19 luglio 1900, dopo venti mesi di lavoro, ma servivano anche i chioschi e gli accessi al métro. La Compagnie du Métropolitain, anziché scegliere fra i deludenti elaborati del concorso che aveva indetto, a sorpresa affidò l’incarico direttamente a Guimard, che non era neppure fra i partecipanti alla gara. Fu questo progetto a decretare la celebrità dell’architetto, non soltanto fra una committenza elitaria, ma anche tra le fasce minute dei lavoratori che per necessità si spostavano giornalmente utilizzando i mezzi pubblici: molti prestavano servizio saltuario a domicilio negli uffici e nelle abitazioni, altri godevano di stipendio come funzionari e impiegati, altri ancora come artigiani, commercianti e fornitori svolgevano attività in negozi e grandi magazzini, gli operai raggiungevano le fabbriche da un capo all’altro di Parigi. Si comprenderà bene tutto ciò, rammentando semplicemente che nella capitale francese lo stile Guimard divenne subito sinonimo di Art Nouveau.

Alphonse Mucha, manifesto per Gismonda
di Victorien Sardou con Sarah Bernhardt
al Théâtre de la Renaissance di Parigi

Alphonse Mucha divenne celebre anche lui, dalla sera alla mattina, come Guimard. A testimoniarlo è il numero speciale (tiré a part) della rivista d’arte e letteratura La Plume, che usciva il primo e il 15 di ogni mese. Ospitava scritti di Verlaine, Moréas, Laforgue, Bloy , Mallarmé. Utilizzava disegni e illustrazioni di artisti come Grasset, Toulouse-Lautrec, Denis, Gauguin, Pissarro, Signac, Seurat, Redon. Alla fine dell’anno 1897 pubblicò una monografia consacré ad Alphonse Mucha e alla sua opera, con 127 illustrazioni da lui stesso realizzate. Il numero aprì così: «Tre anni fa brillava sui muri della capitale un manifesto che annunciava: Gismonda, Sarah Bernhardt, al Theatre de la Renaissance. Viva emozione nel mondo degli artisti e in quello dei collezionisti: un nuovo talento si annunciava all’orizzonte; tra non molto le trombe della fama avrebbero segnalato la sua apparizione nel ristretto campo della gloria. Immediatamente si formarono due correnti: l’una che sosteneva l’autore di Gismonda, l’altra che difendeva strenuamente le glorie consacrate e denigrava ferocemente il talento del nuovo venuto, il quale si teneva in disparte, circondato da bizzarre leggende». Una di queste leggende bizzarre narrava dell’osannata diva che durante un tour in Ungheria s’imbatteva con lo squattrinato disegnatore nei panni di un violinista zigano. La realtà è meno romanzata, ma a volte altrettanto intrigante. A metà degli anni Novanta, Sarah Bernhardt era all’apice di una gloriosa carriera di attrice. I suoi ammiratori erano convinti che la sua “strana bellezza onirica” fosse impossibile da raffigurare. L’aveva fotografata Nadar, ritratta su tela Jules Bastien-Lepage o Antonio de la Gandara. Niente era, però, soddisfacente. Lei avrebbe voluto apparire in un dipinto del preraffaellita inglese Edward Burne-Jones, ma rimase solo un desiderio. L’unico che riuscì nell’intento fu Mucha. Il manifesto, che la mostrava nel costume di Gismonda, lo teneva appeso al muro del suo camerino: «Sarah era in piedi di fronte ad esso, incapace di distogliere lo sguardo. Quando mi ha visto, è venuta e mi ha abbracciato. Insomma, nessuna vergogna, ma successo, grande successo».

Sarah Bernhardt in copertina su di un numero della Revue illustrée
Alphonse Mucha in copertina su di un numero della Revue illustrée

Come avvenne la svolta di una vita, lo raccontò lui stesso. La mattina del giorno di Natale del 1894, Mucha si presentò alla tipografia dell’editore Lemercier in Rue de Seine, per una commissione. Sarah Bernhardt telefonò chiedendo notizie del manifesto per la nuova commedia Gismonda, scritta per lei dal celebre drammaturgo Victorien Sardou – la sua Tosca fu musicata da Puccini –. Lemercier aveva commissionato a vari pittori lavori che l’attrice aveva scartato. Con così scarso preavviso, poche erano le speranze di trovare un altro artista per Capodanno. Mucha accettò di assistere ad uno spettacolo della Bernhardt, per tentare di ritrarla. Noleggiò un frac, si fece prestare un cilindro (più largo della sua testa) e si presentò dietro le quinte del Theatre de la Renaissance, con un album da disegno e tutte le matite di cui aveva bisogno. «Ho abbozzato il suo vestito, i fiori dorati tra i capelli, le maniche larghe e una foglia di palma in mano». Dopo il teatro, sul tavolo di marmo di un bar schizzò la sua proposta al direttore dello spettacolo, un certo M. de Brunhoff. Il formato allungato del manifesto – che ricordava un tipo di stampa giapponese, che a sua volta si rifaceva alle pitture su rotoli cinesi – richiese di utilizzare due pietre litografiche in contemporanea. Ne scaturì un lavoro così bizzarro per quel suo formato insolito, una composizione ieratica, dettagli stilizzati, colori delicati e tenui, tanto che sia Lemercier che de Brunhoff, sconcertati, si aspettavano un disastro. La grande Sarah – ricordava Mucha – ne rimase incantata. Quando il manifesto apparve sui muri di Parigi, a gennaio del 1895, fece scalpore: l’immagine era riprodotta quasi a grandezza naturale, con posa solenne e sacrale. Come scrisse Jerome Doucet sulla Revue illustrée, «Questo manifesto ha reso familiare a tutta Parigi il nome di Mucha da un giorno all’altro […] Questo manifesto, questa finestra bianca, questo mosaico sulla parete, è una creazione di prim’ordine, che ha meritato il suo trionfo».

Alphonse Mucha, Manifesto Salon des Cents 1901, Museo delle Arti Decorative, Parigi
Alphonse Mucha, Moët & Chandon White Star, 1899
Alphonse Mucha – Job Cigarettes

Mucha firmò un contratto in esclusiva per Sarah Bernhardt, che accettò di pagare un acconto mensile di 3000 franchi, più 1500 franchi per ognuno dei sei manifesti che l’artista disegnò per lei: La Dame aux Camèlias (1896), Lorenzaccio (1896), La Samaritaine (1897), Médée (1898), Hamlet (1899) e Tosca (1899). Bernhardt portò numerose altre commissioni. Sulla traccia ispiratrice di quel suo successo, Mucha creò un tipo femminile ideale, riconoscibile a prima vista, che usò per pubblicizzare di tutto. Manifestazioni e prodotti commerciali: dalle diverse edizioni del Salon des Cent alle Cigarette Job, dallo Champagne Moët & Chandon alla rivista satirica Cocorico, ai manifesti per Biscuits Lefèvre-Utile, per Chocolat Idéal, per la bicicletta Perfecta. Progettò mobili e posate, scatole di biscotti e modelli per spille e ciondoli. Nel 1900 realizzò una esposizione per il gioielliere Georges Fouquet, che in Rue Royale si trovava di fronte a Maxim’s, il tempio del palato tra i piaceri della Belle Époque. Tutti lavori che gli assicurarono l’affermazione internazionale e gli consentirono l’ingresso nei salotti dell’aristocrazia dell’epoca. Fu presente anche alla grande Esposizione Universale di Parigi del 1900, dove ricevette una medaglia d’argento. Di quei giorni animati ricorderà anzitutto «l’esaurimento, la stanchezza assoluta…». Questo perché la fama comportò presto di doversi tutelare dalle imitazioni, diffuse ovunque nei padiglioni espositivi: «La mia arte era in voga, penetrava nelle fabbriche e nelle officine come “le style Mucha” e vari oggetti della Mostra venivano continuamente sequestrati per proteggere i disegni originali dalla contraffazione».

Boutique della gioielleria Georges Fouquet al 6 rue Royale di Parigi, disegnata nel 1901 da Mucha e smantellata nel 1923, Museo Carnavalet (Parigi)

Negli anni del primo Novecento le sue figure femminili comparvero sui muri delle città e sulle pagine delle riviste. La sua tecnica preferita era la litografia, ma si rivolse anche alla pittura, adottò la fotografia per studiare le pose delle sue modelle, che rappresentò anche in scultura. Quando, però, l’euforia per l’Art Nouveau sfiorì, Mucha dovette trovarsi pronto a lasciare Parigi per l’America, alla ricerca di commissioni più redditizie. Compì numerosi viaggi negli Stati Uniti, di solito rimanendo per cinque o sei mesi. Sentiva di poter fare qualcosa di più che non assecondare esclusivamente le richieste commerciali. Accolse soltanto una proposta, nel 1906, per progettare le scatole e un display per un Savon Mucha. Realizzò un manifesto per l’attrice americana Mrs. Leslie Carter, acclamata come The American Sarah Bernhardt. Preferì dedicarsi all’insegnamento dell’illustrazione e del design alla New York School of Applied Design for Women e alla Philadelphia School of Art. Rientrato in patria nel 1911, dal momento che era nato come pittore di storia, tornò infine al vecchio amore e si applicò a una serie di dipinti dedicati all’epopea slava. Amava rappresentare lo spirito del suo popolo, la «luce che risplende nelle anime di tutte le persone con i suoi chiari ideali e gli avvertimenti ardenti».

Alphonse Mucha al lavoro per la serie L’epopea slava

Con questo articolo si conclude la prima stagione sull’Arte del Novecento, dedicata ai Precursori.
Ringraziamo per l’interesse mostrato.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Antoni Gaudí – “La retta è la linea degli uomini e la curva è la linea di Dio”

di Sergio Bertolami

27 – Gaudí espressione massima del modernismo catalano

Corsi e ricorsi caratterizzano la Storia. Per cui anche Antoni Gaudí i Cornet, dal secondo dopoguerra, è stato progressivamente “riscoperto”, così com’è accaduto per l’Art Nouveau che in Spagna ritroviamo sotto il nome di Modernismo. Molteplici le ragioni. La prima, in modo assoluto, è dovuta all’imporsi del razionalismo sulle numerose correnti del primo Novecento. Poi, sotto il profilo politico, occorrerebbe considerare le ripercussioni della guerra civile spagnola e i lunghi anni di autarchia e di governo franchista. Nel caso specifico di Gaudí, uomo dal carattere riservato, una più ampia conoscenza fu ostacolata dalla sua stessa resistenza ad intervenire agli eventi espositivi e culturali acclamati in Europa. Quando nel 1910 il suo maggiore mecenate, il conte Güell, spendendo una cifra folle per l’occasione, organizzò una sua mostra di fotografie e di progetti all’interno del Salon parigino, Gaudí escluse del tutto l’idea di parteciparvi. Oggi Gaudí – considerato uno dei più grandi architetti del Novecento, precursore di altri grandi artisti catalani come Picasso, Dalì e Buñuel – è diventato un’icona d’integrità artistica e genialità, di pietà religiosa e di amore incondizionato per la sua terra natale, la Catalogna. È assurto a larga fama più per le sue eccentricità piuttosto che per l’effettivo intendimento della sua architettura. «Era un ecologista: riciclava piastrelle rotte, stoviglie, giocattoli per bambini, vecchi aghi di fabbriche tessili, nastri metallici per imballare stoffe di cotone, reti da letto e le sagome dei forni industriali per creare i suoi edifici». Lo racconta Gijs van Hensbergen nella sua biografia critica (Antoni Gaudí, a biography, 2001).

Ritratto fotografico di Antoni Gaudí nel 1878 anno del diploma
alla scuola di Architettura di Barcellona

Eppure, il 7 giugno del 1926, riverso in strada sui binari di un tram nessuno lo riconobbe: «Sembrava un senzatetto ubriaco», dichiarò alle autorità il conducente che lo aveva appena travolto. C’era da credergli: al tempo, gli architetti di Barcellona dovevano essere ben vestiti, la piega del pantalone impeccabile, anche tra la polvere del cantiere. Ma nella vita come nella morte, Antoni Gaudí visse sempre di gesti stravaganti e di una creatività che forse rasentava la follia, di certo era espressione del suo grande misticismo. Tutti lo conoscono per la Sagrada Família, l’edificio al quale dedicò quaranta anni di vita. Dei 18 campanili progettati vide solo quello di san Bernabè. Nondimeno, il plauso non sempre è stato unanime. George Orwell, nel 1938, in Omaggio alla Catalogna, parlando proprio della Sagrada Família, la stroncava così: «Sono andato a vedere la cattedrale, una cattedrale moderna, e uno degli edifici più orribili al mondo. Ha quattro guglie merlate esattamente a forma di una bottiglia di vino del Reno. A differenza della maggior parte delle chiese di Barcellona non è stata danneggiata durante la Rivoluzione: è stata risparmiata a causa del suo “valore artistico”, si diceva. Penso che gli anarchici abbiano mostrato cattivo gusto nel non farla esplodere quando ne hanno avuto la possibilità». Per un attimo, immaginate cosa avrebbe risposto Gaudí ad Orwell. A un giovanotto che criticava la sua opera – sì molto bella e pienamente artistica, ma che a lui comunque non piaceva – Gaudí, ribatté bruscamente: «Non lavoriamo per far piacere a voi». Una delle caratteristiche più conosciute di Gaudí era proprio il carattere impulsivo e scontroso e per questo si giustificava: «Ho dominato tutti i miei vizi, meno il cattivo temperamento». La sua effettiva personalità, la sua figura solitaria, ​​è stata sempre poco accessibile. Rimane ancora un enigma. La sua architettura, viceversa, è un libro aperto. «Il grande libro, sempre aperto e che bisogna sforzarsi di leggere – ripeteva – è quello della natura; gli altri libri derivano da questo e contengono, inoltre, interpretazioni ed equivoci degli uomini. Ci sono due rivelazioni: una, quella dei principi della morale e della religione; l’altra, che guida mediante i fatti, è quella del grande libro della natura […] L’imitazione della natura arriva fino alle membrature architettoniche, dal momento che gli alberi furono le colonne; solo in un secondo momento vediamo i capitelli ornarsi di foglie. Questa è un’ulteriore motivazione della struttura della Sagrada Família».

Gaudì, volta della navata longitudinale della basilica

L’immagine più diffusa della basilica è quella esterna, ma ad entrarci, a guardare le colonne arboriformi che sorreggono la copertura, chiunque comprende che quel bosco di fusti e di rami unisce davvero “la terra al cielo”: «Le colonne della Sagrada Família seguono una linea di forza che costituisce la traiettoria della loro stabilità, ossia il loro equilibrio. Sono generate da una sezione a stella che ruota salendo; il suo movimento è, dunque, anche elicoidale (proprio come nei tronchi degli alberi). Le stelle vanno e vengono, dato che le orbite sono linee chiuse; la colonna va e viene perché ha un doppio movimento elicoidale; essa, infatti, ruota in entrambi i sensi». Ascoltare la voce dell’artista fa tutt’altro effetto. Le sue Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi (a cura di Maria Antonietta Crippa e Isidre Puig Boada, 2011) restituiscono il vero senso dell’architettura di Gaudí. Qualcuno, per assurdo, mette in dubbio persino la profonda fede cristiana, confondendo le sue simbologie con quelle della massoneria. Il compasso e la squadra che comparivano sulle sue fatture. La stella a cinque punte del Parco Güell. Nella Sagrada Família, il pellicano che si squarcia il petto sulla porta della Nascita – simbolo dell’eucarestia, ma anche 18° grado della scala gerarchica massonica – oppure il quadrato magico sulla facciata della Passione, dove righe o colonne sommano sempre 33 – gli anni di Cristo, ma anche il massimo grado del rito scozzese –. Per non parlare del fatto che Eusebi Güell era un riconosciuto massone e che, secondo Apeles Mestres, scrittore suo contemporaneo, Gaudí cominciò ad accettare solo progettazioni dal carattere religioso, riservandosi di assumere altri incarichi se non dopo essersi raccolto in preghiera di fronte alla Moreneta, la Vergine Nera di Montserrat.

Criptograma posto sulla facciata della Passione

La questione, in verità, era strettamente legata alla vita personale dell’artista, che nel corso degli anni maturò una spiritualità sempre più profonda, fino ad abbracciare integralmente la fede cattolica in età matura. Quello che lo cambiò intimamente fu il rapporto di amicizia con l’eccentrico Josep María Bocabella y Verdaguer, proprietario di una libreria/tipografia religiosa a Barcellona. Questo per due motivi – uno viscerale, l’altro razionale – che possono spiegare molte più cose di quanto non appaia. Facciamo un passo indietro. Uno dei primi incarichi di Gaudí, a testimonianza del suo approccio al socialismo utopico in quel periodo, fu il progetto di una fabbrica in un quartiere operaio di Matarò, la Società Cooperativa La Obrera Mataronense (1878-1882). Come spesso accade, il progetto non venne completato e solo la fabbrica, l’edificio di servizio e un magazzino furono costruiti. Il fatto viscerale fu che, a Matarò, Gaudí visse l’unica storia sentimentale della propria vita, che gli procurò una immensa delusione: l’innamorata scelse un altro pretendente e Gaudí si votò al celibato. Per questa ragione entrò, più tardi, nell’associazione religiosa del libraio Bocabella, il quale, reduce da un pellegrinaggio a Roma nel 1861, cinque anni più tardi fondò l’Associació Espiritual de Devots de Sant Josep. Anche Gaudì aderì all’associazione, celebrando la famiglia, in comunione con gli altri membri, nel nome di Maria «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» (Collectio Missarum de Beata Maria Virgine). Lo scopo comune era di promuovere la costruzione di un tempio dedicato alla Sacra Famiglia.

Progetto del 1877 di Francisco de Paula del Villar y Lozano per la Sagrada Familia

Nel 1881 l’associazione acquistò il terreno e diede avvio alla costruzione del primo nucleo della chiesa, laddove ora si trova la cripta (e la tomba dello stesso Gaudí). Il 19 marzo 1882, giorno di San Giuseppe, il vescovo Urquinaona posò la prima pietra del tempio espiatorio neogotico progettato dal diocesano Francisco de Paula del Villar y Lozano. A luglio i primi problemi portarono alle dimissioni del progettista. Bocabella sognò che un architetto dagli occhi azzurri avrebbe assunto i lavori. Nell’autunno del 1883, Bocabella entrò nello studio di Joan Martorell i Montells – designato a sostituire Villar – e si trovò faccia a faccia con Gaudí, suo collaboratore. Era il “prescelto” del Signore. Naturalmente, accettando l’incarico, chiese di apportare modifiche al progetto iniziale. A conti fatti avrebbe dovuto edificare la chiesa in pochi mesi. Sappiamo bene che è ancora in costruzione. Prima del Covid, si programmava il termine dei lavori intorno al 2030, confidando sul mantenimento di un flusso costante di donazioni ed entrate. In verità, i lavori procedono lentamente, a causa delle difficoltà di un progetto i cui disegni e modelli sono stati distrutti nel corso della guerra civile (1936-1939). A tutt’oggi, però, non si è ancora affrontato il vero problema, dal momento che la pianta basilicale a croce latina dovrà essere completata per realizzare l’ingresso con la scalinata. Oggi si usufruisce delle altre due entrate monumentali poste sulle testate del transetto. Vari edifici circostanti, dunque, dovranno essere abbattuti. Espropri multimilionari, nuovo assetto urbano, ricostruzioni. Nessun problema, lo stesso architetto amava dire: «I lavori della Sagrada Família procedono lentamente, perché il suo Padrone non ha fretta».

Progetto piazza stellata per la Sagrada Familia (1916)

È facile comprendere perciò che per Gaudì la forma architettonica non era sicuramente la priorità, essendo completamente subordinata al suo significato religioso. A suo modo anticipava quello che per i razionalisti sarebbe diventato un assioma: la forma segue la funzione; ma per Gaudí la funzione dell’uomo è realizzare «un’opera posta nelle mani di Dio e affidata alla volontà del popolo». Attraverso il suo percorso di vita, col tempo, era andato trasformandosi in un oblato, dedito ad opere grandiose che scaturivano dalla sua estasi mistica. Ecco perché oggigiorno il Vaticano, due mesi e mezzo dopo la richiesta del cardinale di Barcellona Ricard Maria Carles, ha dato via libera alla beatificazione dell’architetto catalano. Il processo religioso è in corso. Non esiste, però, solo il Tempio di Dio, ma ci sono anche le opere per gli umani, giacché Gaudí ha arricchito la sua città pure di una decina di palazzi e varie opere di urbanistica. Ad esempio, le opere realizzate per l’industriale Eusebi Güell i Bacigalupi, di madre genovese, suo grande amico e munifico mecenate. Uomo di una ricchezza assoluta, aveva accumulato fortune smisurate aprendo nuove aziende nei settori più promettenti del momento: una fabbrica di tessuti che diverrà la futura Colonia Güell, una fabbrica per asfalti e cementi Portland, una Compagnia per trasporti marittimi e una Compagnia mineraria in Nord Africa, presidente di una banca.

Gaudì, vetrina per esporre la produzione della Guanteria di Esteve Comella (1878)

Güell conobbe il neolaureato Gaudí nel 1878, colpito dalla Vetrina per la Guanteria Comella, che quell’anno vinse una medaglia d’argento all’Esposizione Universale di Parigi. La prima commessa fu un padiglione di caccia vicino a Sitges, ma rimase solo sulla carta. Lo compensò allora facendogli realizzare il nuovo muro di proprietà, avendo allargato il giardino della propria casa estiva. Per la Finca Güell, Gaudí concepì la famosa Porta del Drago, sulla sinistra la portineria e sulla destra le scuderie e il maneggio. Per realizzare la Porta lavorò personalmente a Reus con suo zio. Il tema del dragone era ossessivo per il giovane architetto. Sin dai primi lavori – anche da collaboratore di Josep Fontseré i Mestres, nel progetto della cascata del Parco della Cittadella (1875-1881) – continuerà ad inserirlo ovunque, quale elemento decorativo. Si richiamava alla venerazione per il santo patrono della sua terra, san Giorgio, che secondo la leggenda avrebbe ucciso il mostro, tanto da comparire per devozione nelle armi nobiliari di Catalogna e d’Aragona (dragón = de Aragón). La lotta di san Giorgio contro il drago, dal medioevo, era sempre stato il simbolo della lotta del bene contro il male. Ancora simboli, in ogni opera.

Gaudì, cancello d’ingresso ai Padiglioni
Gaudì, corte interna di Palau Güell

D’altra parte, Gaudì si muoveva sotto la spinta della Renaixença, il movimento letterario le cui tematiche ricorrenti (tra idealismo, simbolismo, tradizione ed esaltazione patriottica), peroravano la rinascita catalana. Agì da sprone all’inasprirsi del sentimento di rivalsa al centralismo castigliano, favorendo il ripristino dell’uso corrente della lingua catalana, l’approfondimento della storia locale e il rifiorire di forme artigianali. Lo stesso Don Eusebi Güell, persona tanto colta quanto nazionalista, sognava la sua Barcellona come una nuova Delfi. Al centro del mondo lo pone l’architetto, disegnando la sua casa. A Palau Güell (1885-1889) l’interno si declina attorno alla grande sala del primo piano, il classico piano nobile, ma qui organizzato come un iwan, tipico ambiente islamico, una corte chiusa e coperta. Questo spazio a tutta altezza, su cui si affacciano le stanze, è il luogo di rappresentanza sociale della famiglia Güell e culmina con una cupola traforata che fa immaginare un cielo stellato di notte e filtrare i raggi solari di giorno. «Il sole è il grande pittore delle terre mediterranee!». In queste opere paradigmatiche Gaudì consolidava il proprio linguaggio, ponendo sempre in primo piano il riferimento alle forme dettate dalla natura. «Quest’albero vicino al mio studio: questo è mio maestro», così commentava agli amici. Attraverso tali stimoli, sollecitava la sua creatività e innovava forme plastiche e spazialità.

Gaudì, Park Güell

L’opera più legata al paesaggio, è Park Güell (1900-1914), nata come un progetto di urbanizzazione privata richiesto dal suo mecenate, nello stile delle città giardino che stavano sorgendo in Inghilterra, ispirate alle idee di Ebenezer Howard, il quale già dal 1898 aveva illustrato le proprie teorie riformatrici (Garden cities of tomorrow, 1902). Il complesso, suddiviso in 62 lotti edificabili, con vista panoramica sulla città, si sviluppava per 15 ettari nella parte alta del paesino di Gracia, sobborgo di Barcellona, nota come Montaña Pelada perché liscia e brulla. Gaudì progettò l’impianto generale, studiando percorsi che assecondavano l’orografia del sito e attuavano il suo principio di natura “architetturata”. Realizzò una abitazione monofamiliare campione e l’intera rete delle infrastrutture viarie completamente immersa nella vegetazione: passaggi pedonali, sovrappassi, portici e gallerie, le cui colonne in pietra s’inclinano seguendo le forze di carico della collina. «Mi domandarono perché facessi delle colonne inclinate. Risposi loro: “Per la stessa ragione per cui il viandante stanco, quando si ferma, si appoggia sul bastone inclinato, dato che se lo mettesse in senso verticale non riposerebbe”».

Vista aerea della piazza centrale del Park Güell

I due padiglioni d’accesso al Parco, uno destinato alla portineria del complesso, si aprono su di un’ampia scalinata completata da fontane sulle quali spicca un coloratissimo drago, ormai addomesticato. Si può così accedere al mercato coperto pensato come una Sala Ipostila, ritmata da possenti colonne doriche. A copertura della sala è la celebre piazza, che compare su libri e riviste quando si descrive Park Güell, destinata al tempo libero e ai giochi dei bambini, alle giostre, aperta sulla vista di Barcellona, delimitata da una sinuosa balaustra-sedile. Per realizzarla Gaudì si avvalse dell’architetto Josep Maria Jujol, uno dei suoi collaboratori più promettenti, che rivestì la seduta con un trencadís di piastrelle e ceramiche. Si racconta che Gaudí, vedendo nel laboratorio di Lluís Brú, come si provava ad accostare piastrelle di varia provenienza, ne spezzò alcune prorompendo: «Bisogna metterle a manciate, altrimenti non finiremo mai». D’altra parte, Gaudì era stato il primo a utilizzare questo metodo per rivestire superfici curve e irregolari, come i padiglioni della Finca Güell, dal momento che le forme sinuose rendevano necessario rompere le piastrelle di ceramica, riducendole a delle tessere musive e attualizzando la tecnica dell’opus tessellatum romano.  

Gaudì, balaustra-sedile a mosaico, realizzato con un “tritato” (trencadís) di bicotture e porcellane cementate

L’ambizioso progetto non riscosse il favore degli acquirenti, poiché l’urbanizzazione agli inizi del secolo fu considerata distante dalla città e decentrata in un’area troppo isolata. Cosicché la cittadella residenziale non fu mai realizzata per intero. Solo due furono le costruzioni vendute, una all’avvocato Martì Trias i Doménech (i cui eredi sono ancora i proprietari), l’altra allo stesso Gaudì, che vi trasferì il vecchio padre e la giovane nipote, che a breve scomparvero. Rimase a viverci da solo per tredici anni, prima di ritirarsi definitivamente nel tempio della Sagrada Família e continuare a fantasticare e sperimentare come sempre aveva fatto nel corso della vita e delle opere: «La scienza – diceva – è una cesta che diventa sempre più colma di oggetti e che nessuno può maneggiare se non interviene l’arte, la quale fissa dei manici alla cesta e ne estrae il necessario per le sue realizzazioni».

Gaudì, drago con trencadís sulla fontana all’ingresso del Park Güell

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Charles Rennie Mackintosh – Ha combinato una varietà di fonti in uno stile del tutto originale

di Sergio Bertolami

26 – Mackintosh e il Movimento di Glasgow

Charles Rennie Mackintosh è stato a lungo considerato, a torto, un decoratore, un arredatore, un disegnatore di mobili in stile Art Nouveau. Guadagnò popolarità solo nei decenni successivi alla scomparsa. È sufficiente pensare che, fatto l’inventario dei lavori lasciati, volendo porre all’asta i suoi numerosi schizzi, i disegni di architettura e di arredamento, 26 acquerelli e 5 dipinti di fiori, il lotto fu considerato così poco interessante che il banditore stimò il tutto soltanto 88 sterline, 16 scellini e 2 pence. La stessa celebrazione di Mackintosh, come designer e architetto di primo piano, avvenne quando Glasgow, città natale, fu nominata Capitale europea della cultura per l’anno 1990. In virtù di ciò, la costruzione della sua House for an Art Lover nel Bellahouston Park iniziò soltanto nel 1996. Altri lavori da lui progettati non sono mai stati realizzati, per il semplice fatto che non avevano incontrato il gusto della committenza. Una committenza arcigna e tradizionalista. Ma forse la vera ragione è che Mackintosh ha sempre svolto la sua attività senza identificarsi completamente in nessun movimento, e le persone (non solo i critici d’arte) hanno sempre bisogno di collocarti nella “scatola” giusta. Lui, invece, contava che la sola ispirazione personale potesse portarlo alla bellezza. Pertanto, anche a volerlo annoverare fra gli artisti Art Nouveau notiamo immediatamente il suo tratto del tutto originale. La riprova maggiore, a ben pensare, è che questa sua originalità estetica non ha mai lasciato eredi. Neppure fra studenti e professori della sua Glasgow School of Art. Eppure, basta citare il nome di Charles Rennie Mackintosh per pensare proprio a Glasgow, dove in gran parte si trovano le sue architetture.

Charles Rennie Mackintosh nel 1893, in una foto colorata di James Craig Annan

Glasgow, con la Rivoluzione industriale, da piccolo insediamento rurale sulle rive del fiume Clyde, aveva raggiunto l’apice della sua potenza industriale e commerciale, grazie allo sfruttamento delle vicine miniere di carbone e ferro, e allo sviluppo dei prodotti chimici e tessili. Soprattutto grazie al boom della cantieristica impiantata sulle rive del Clyde, sostenuta dall’ingegneria navale che realizzava navi spettacolari. Con questo, nel corso dell’età vittoriana e del periodo edoardiano, Glasgow divenne la sesta metropoli più grande d’Europa e la seconda città dell’Impero britannico. La scuola d’Arte incrementò, perciò, i corsi e gli studenti che istruì trovarono sempre più lavoro nei cantieri navali. Per questo motivo, anche il giovane McIntosh – così si chiamava prima di cambiare cognome in Mackintosh, intorno al 1893 – adottò un piano di studi che preparava più per i mestieri navali e ingegneristici che per i mestieri artistici, anche perché avrebbe voluto fare architettura e la sezione specifica fu istituita dalla scuola solamente a partire dal 1887. All’epoca, da tre anni, Mackintosh aveva già iniziato a prendere lezioni serali, investendo tempo e cure in disegno e pittura. Le prospettive d’impegno nell’arte erano elevate in una città in cui l’esigua aliquota dell’imposta sul reddito e la non tassazione dei profitti industriali incoraggiavano gli investimenti. Lo studente Mackintosh si distinse sin dall’inizio in varie occasioni fino a conseguire il secondo premio della prestigiosissima borsa di studio “Alexander Thompson” del 1890, per un progetto di “Edificio pubblico originale che può ospitare 1000 persone”. Il premio gli permise, l’anno successivo, un lungo viaggio in Italia, transitando per Parigi, Bruxelles, Anversa e Londra. Un viaggio di studio, perché agli scritti teorici degli architetti del suo tempo potesse aggiungere la conoscenza diretta dell’architettura classica, che lui indirizzò alle memorie bizantine, romaniche e gotiche, piuttosto che al Rinascimento italiano. E non poteva essere altrimenti, essendo attratto dalla lezione di Augusto W.N. Pugin e di John Ruskin. Quando a febbraio del 1891, la Glasgow Architectural Association lo invitò a parlare, già dal titolo della sua relazione – Lo stile feudale scozzese in architettura (The Scottish Feudal Style in Architecture) – si poteva capire quali sarebbero stati i presupposti del suo lavoro futuro. Avrebbe voluto recuperare le virtù della tradizione feudale scozzese, purgandole da contaminazioni neoclassiche, per coniugarle con gli insegnamenti del movimento Arts & Crafts. La stessa rosa stilizzata che sempre riproporrà nel corso della sua opera è un simbolo tipicamente medievale, a simboleggiare l’amore come fonte della vita. Un gusto condiviso e dichiarato da molti degli architetti e decoratori “più avanzati” del tempo: «Nel profondo dell’architettura antica – scriveva William Lethaby – troviamo meraviglia, magia e simbolismo; la nostra motivazione moderna è servire l’uomo, creare nuove strutture e sviluppare la scienza concreta».

Non era soltanto il mondo naturale locale ad ispirare Mackintosh, quello che affondava le radici nel panteismo celtico scoperto a scorrere le letture della tradizione, con narrazioni ambientate in foreste di querce per impersonare uomini temprati dalla vita. Era cresciuto avvertendo pure le spinte particolari che giungevano dal lontano Oriente. Ricordava quando la Glasgow Corporation (la municipalità cittadina) aveva organizzato una mostra di arte decorativa giapponese nel 1882, per evidenziare i rapporti economici privilegiati che la città aveva con il Paese del Sol Levante. Non era che un quattordicenne, allora. Sono questi gli anni fecondi della formazione, compiuti, vincendo le resistenze del padre, prima come tirocinante nello studio di John Hutchison, poi come disegnatore nello studio di John Honeyman e John Keppie, appena aperto, di cui diverrà a fatica partner quando la sua fama sarà riconosciuta più fuori che nella sua stessa città. Gli eventi biografici sono sempre il tessuto connettivo di quelli artistici, perché, nello studio Honeyman & Keppie, Mackintosh fece amicizia con James Herbert MacNair e per suo tramite conobbe anche le sorelle Margaret e Frances MacDonald.

Margaret MacDonald, signora Mackintosh

I quattro, meglio conosciuti col termine inglese The Four, tutti studenti d’arte, andarono a costituire una “sezione mista”, per così dire, dei Glasgow Boys e delle Glasgow Girls, gli studenti d’arte i cui lavori migliori distinguevano la scuola nelle gare internazionali. Ecco, dunque, che i nostri Glasgow Four – sembra il nome di un gruppo beatnik anni Sessanta (del ‘900) – balzarono all’attenzione già dalla prima rassegna collettiva a Liegi nel 1895. Il gruppo realizzò diverse mostre a Glasgow e a Londra, ma esporrà via via anche nel continente: manifesti, grafiche, stampe, mobili e oggetti decorativi. Nel giro di qualche anno le creazioni permisero loro di acquisire una reputazione internazionale, con un impatto sorprendente nella definizione dell’Art Nouveau. Il 14 giugno 1899 MacNair sposò Frances Macdonald e il successivo 22 agosto del 1900, Mackintosh si unì in matrimonio con Margaret Macdonald. Eventi che tutti i libri riportano, ma raramente menzionano che Margaret è da considerarsi parte integrante del lavoro creativo di Charles Rennie Mackintosh. Margaret era “geniale”, così la magnificherà l’artista negli ultimi anni della sua vita, mentre a suo dire lui aveva solo talento. Nel 1927, separati per questione di salute, le scriverà da Port Vendres: «Tu sei metà, o anche tre quarti, all’origine della mia opera architettonica».

Margaret era un’eccellente colorista, e questo fa capire meglio quegli eterei ambienti tinti di bianco, scarni di mobili, all’opposto di quelle stanze d’epoca vittoriana, soffocate da sovrabbondanti cortinaggi e imbottiti capitonné. Non sorprende, quindi, se chi trovava sempre da ridire e criticare, insensibile a una nuova visione di modernità, appioppò ai The Four il soprannome di Ecole des Ectoplasmes. I Quattro non avevano affatto intenzione di fare scuola, né come s’è detto la fecero mai. Generarono idee, questo sì. Due fatti positivi vanno evidenziati. Il primo: la partecipazione nell’autunno del 1900 all’Ottava Mostra della Secessione viennese. In verità, dopo i ripetuti riscontri negativi ricevuti in madrepatria, pensavano che all’estero gli sarebbe stato riservato l’ennesimo flop. L’accoglienza al contrario fu entusiasta, soprattutto da parte di Hoffmann, Moser, Olbrich, Klimt. Il secondo fatto positivo fu che l’architetto Hermann Muthesius, nominato dal Kaiser addetto culturale e tecnico dell’ambasciata tedesca a Londra, nel 1904 scrisse un libro di design e storia dell’architettura. Titolo: La casa inglese: sviluppo, condizioni, impianto, struttura, arredamento e interni (Das englische Haus: Entwicklung, Bedingungen, Anlage, Aufbau, Einrichtung und Innenraum). Nel libro non mancò di riservare elogi al Movimento di Glasgow, identificato con Charles Rennie Mackintosh. I Quattro facevano spiccare il design, così come il colore, la forma, l’atmosfera. «Il vero genio alla guida è Rennie Mackintosh; lo affianca il gruppo originario, Herbert McNair e le due ex Miss, Margaret e Francis Macdonald, l’attuale signora Mackintosh e la signora McNair. Tutti parlano lo stesso linguaggio artistico con grande convinzione, tanto che questi stessi, a ben vedere tra loro diversi, dimostrano di poter lavorare insieme alla stessa opera senza che l’unità ne sia minimamente ostacolata». Muthesius faceva altresì riferimento ai legami culturali ed artistici in ambito europeo: «Gli scozzesi, non solo trovarono vivi riconoscimenti nel continente, non appena vi apparvero, ma qui furono il germe da cui nacque un nuovo linguaggio delle forme in divenire, specialmente e durevolmente a Vienna, dove si stabilirono legami indissolubili tra loro e i leader del movimento viennese». Tutto vero. Gustav Klimt fu profondamente influenzato dai Quattro. Per il fregio di Beethoven del 1902 s’ispirò ai pannelli in gesso di Margaret Macdonald-Mackintosh, ammirati due anni prima a Vienna. Alcuni mobili, come il secrétaire e il Rose Boudoir furono all’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino nel 1902.

Margaret Macdonald Mackintosh, The May Queen esposto a Vienna nel novembre 1900 nel padiglione della Secessione. 
Charles Rennie Mackintosh, Wassail della sala da pranzo delle signore in Ingram Street, 1900 di Charles Rennie Mackintosh. 

In questi anni non si può però negare che il maggiore successo di Mackintosh sia legato alle architetture realizzate soprattutto a Glasgow. Vinse il concorso per la Glasgow School of Art (1897-1899), elevò la Queen’s Cross (1897-1899) sua unica chiesa, progettò la casa del Bellahouston Park (costruita, l’ho detto, solo tra il 1989 e il 1996), la Scotland Street School (1903-1906). Così come realizzò il suo primo progetto abitativo a Kilmacolm con la Windy Hill (1899-1901) e insieme a sua moglie l’arredò; a seguire la Hill House a Helensburgh (1902-1904). Progetti che lo fecero considerare un architetto d’avanguardia. Edifici privati e pubblici di cui disegnò strutture ed arredi interni: mobili lineari dalle forme essenziali, ispirati al Giapponismo che tanto lo aveva impressionato. Ad esempio, nella nuova scuola d’arte ideò le suppellettili per le aree comuni dell’edificio (coi sedili incassati nei corridoi ad uso degli studenti) e quelli più raffinati e leggeri per le stanze del corpo docente, la sala consiliare, l’ufficio del preside.

Catherine Cranston

Tra il 1903 e il 1904 Mackintosh si dedicò a realizzare la Willow Tearooms, una delle sale da tè di Miss Cranston. Figlia di un commerciante di tè di Glasgow, Catherine Cranston era un’energica imprenditrice e una entusiasta sostenitrice della temperanza. Da anni si batteva contro l’alcolismo, così pensò bene di proporre un’alternativa ai ruvidi pub, con lo scopo di distrarre uomini e donne dall’ubriacarsi incorreggibilmente di birra e whisky (quello buono scozzese). Soprattutto donne, alle quali propose luoghi di ritrovo, delle sale dove ci si potesse incontrare per il tipico rito inglese del tè nei suoi differenti aromi, con latte o panna, accompagnato da caramel e chocolatte cake, o semplicemente sorbire bevande rigorosamente analcoliche, a tutte le ore del giorno, in ambienti eleganti e confortevoli.

La Room de Luxe nella Tearooms com’era nel 1903

Il successo fu immediato, cosicché l’intraprendente signorina s’inventò il concept – diremmo oggi – di un locale mai sperimentato, aggiungendo alla sala da tè, spazi dedicati alle signore, una sala da pranzo, e per i loro mariti una sala da biliardo e una sala fumatori. Riuscì a concretizzare l’idea nel 1895, quando il maggiore Cochrane, divenuto suo marito, le offrì in dono di nozze l’intero edificio al 114 di Argyle Street, occupato fino a quel momento solo parzialmente. Spinta dal successo riscosso, nel medesimo anno, Kate Cranston acquistò altri due nuovi locali, al 205-209 di Ingram Street e al 91-93 di Buchanan Street. Nel 1903 acquisì anche l’intero stabile di Sauchiehall Street, che presto sarebbe diventato famoso col nome di Willow Tearooms. La storia di Kate Cranston corre parallela a quella dell’architetto Mackintosh, al quale fu affidata una serie di incarichi legati ad una crescente considerazione. Iniziò nel 1896, svolgendo il semplice ruolo di decoratore, realizzando i pannelli della sala di Buchanan Street. Nel 1898 la commissione contemplò i mobili della sala di Argyle Street; nel 1900 allestì un’intera sala in Ingram Street, che da allora fu chiamata White Dining Room. Infine, nel 1903 gli venne affidato l’intero progetto dell’innovativa Willow Tearooms in Sauchiehall Street. Oggi è l’esercizio più famoso di Glasgow. La libertà di ideare portò Mackintosh a dare il meglio di sé: fu per Argyle Street che disegnò la celebre sedia con lo schienale alto con il taglio ovale, fu per la Willow Tearooms che ideò la sua sedia con lo schienale a scala e quella ancor più famosa con lo schienale curvo.

Sedia Argyle per l’omonimo locale
Willow Chair per la Willow Tea Room

In questi anni la vita di Mackintosh è un rincorrersi di successi che s’interromperanno nel 1909 quando l’ampliamento della Glasgow School of Art segnerà l’apice della sua carriera architettonica e l’inizio del suo declino. Come recentemente osservava l’artista scozzese Mary Newbery Sturrock, sua concittadina: «Dopo l’apertura della seconda sezione della School of Art, Mackintosh ricevette pochissime commissioni, senza dubbio perché Glasgow aveva uno spirito molto provinciale. Non prendevano sul serio le sale da tè e trovavamo la School of Art alquanto bizzarra». Così mentre la sua reputazione cresceva in Europa, crollavano gli incarichi grazie ai quali effettivamente viveva. Causa principale l’estrosità dei suoi progetti Art Nouveau, ma anche l’insistenza a riproporre l’architettura scozzese, o quelle sue murature spoglie il cui trattamento anticipava le intonacature bianche del Movimento razionalista. Secondo qualche critico d’arte Mackintosh non ebbe il coraggio di lottare: da un lato contro la sempre dominante azione frenante dei committenti e, allo stesso tempo, contro l’avanguardia europea affascinata dalla tecnica. Ma queste sono questioni che interesseranno la vita di Mackintosh negli anni a venire. Perché quando ogni possibilità sembrò svanire i coniugi scoraggiati, lasciarono Glasgow per trascorrere l’estate del 1914 a Walberswick in compagnia di una piccola comunità artistica, prendendo casa in affitto.

Mackintosh, Walberswick, acquerello

Non sfuggirà la data: la dichiarazione di guerra dell’agosto 1914 pose fine a qualsiasi programma di espatrio. A fine estate, anziché rientrare, rimasero a Walberswick, nel Suffolk, cioè sulla costa orientale. La posizione strategica e le norme restrittive portarono a credere che quel curioso personaggio, dall’accento forestiero, che faceva lunghe passeggiate fuori dall’abitato, fosse sospetto. Venne arrestato, per via degli strani messaggi postali scambiati con la Germania e l’Austria-Ungheria, rinvenuti durante la perquisizione della casa. Anche questa è l’ironia di una sorte avversa. Fu rinviato a giudizio, portato in tribunale e accusato di spionaggio. Alla fine, fu scagionato, ma dovette comunque lasciare la costa. Decise di stabilirsi a Londra, dove abitò per otto anni. Ma non lo conosceva nessuno e gli incarichi languivano. Philip Mairet, un disegnatore che collaborò con lui, lo ricorda crudamente: «Non era molto gentile con me, indubbiamente perché era perennemente imbevuto di alcol […] Mi dava l’impressione di un brillante signore decaduto». Quando le ristrettezze finanziarie cominciarono a diventare pressanti la coppia, sempre unita profondamente per ventotto anni, portò i propri sogni controcorrente in Francia, a Port Vendres, un piccolo porto in prossimità del confine spagnolo, dove le spese erano contenute rispetto a Londra. Per loro, il tempo trascorse a studiare i fiori e a dipingere acquerelli: piante, paesaggi e scorci locali. Questa sarà l’attività prevalente del grande architetto per i successivi cinque anni che gli rimarranno da vivere. Anni di idee non realizzate.

Mackintosh, Un porto del sud, acquerello di un angolo di Port-Vendres

Mackintosh Architecture è un sito web, realizzato all’Università di Glasgow, che fornisce un catalogo riccamente illustrato di tutti i progetti architettonici conosciuti di Charles Rennie Mackintosh. Il sito fornisce altresì voci dedicate ai progetti dello studio John Honeyman & Keppie / Honeyman, Keppie & Mackintosh durante gli anni 1889-1913; immagini e dati dei libretti d’ufficio; un catalogo ragionato di oltre 1200 disegni di Mackintosh; saggi analitici e contestuali; biografie di oltre 400 clienti, colleghi, appaltatori e fornitori; sequenza temporale; glossario; e bibliografia.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Victor Horta – Con steli di fiori esotici animava spazi fluidi e avvolgenti

di Sergio Bertolami

25 – La struttura metallica a vista cambia l’architettura

Bruxelles nel decennio 1980-90 fu un evidente centro propulsore d’arte contemporanea, tanto da essere considerata una delle principali capitali europee dell’Art Nouveau. Qui due facoltosi avvocati come Octave Maus ed Edmond Picard erano stati tra i fondatori, prima del circolo dei Vingt, poi del settimanale L’Art Moderne. Così, oltre che nel campo figurativo col Simbolismo, Bruxelles esercitò la sua influenza anche nei campi della decorazione e dell’architettura. Elogiando proprio l’architettura, sul finire del secolo, il quotidiano austriaco Neue Wiener Tagblatt scriveva che mai prima dall’ora in tutta Europa era stato elevato un edificio così nuovo come Casa Tassel di Victor Horta: «Nessun dettaglio è tratto da qualcosa che esisteva già». Casa Tassel è oggi considerata l’opera fondante dell’architettura Art Nouveau. Jan Romein nel suo libro All’incrocio di due secoli (Op het breukvlak van twee eeuwen, 1976) fa notare che Victor Horta, quando disegnò quell’edificio, aveva appena trent’anni, mentre “suo fratello nella nuova arte”, Henry van de Velde, era di due anni più giovane: «Sebbene forse un po’ meno talentuoso, quest’ultimo sarebbe diventato molto più famoso, possedendo, oltre a tanti altri suoi doni, quello della parola». La sostanziale differenza fra i due, a vantaggio di van de Velde, fu quella di trovare uno spazio di lavoro più ampio in Germania, e soprattutto quella d’interessarsi per tutta la sua vita alla “nuova industria leggera”, ovvero alla produzione di beni di consumo. La fama di Victor Horta, invece, fu tutta legata ai suoi capolavori architettonici in stile Art Nouveau, ma poiché il movimento sfiorì nell’arco di una ventina d’anni il suo successo personale si concluse precocemente e Horta perse la sua notorietà nella quasi completa indifferenza. Tant’è che le opere successive alla Grande Guerra – il Musée des Beaux-Arts di Tournai (1928) può essere un esempio – fecero regredire la sua arte immaginosa agli stilemi classicheggianti e convenzionali del Pavillon des Passions humaines (1890-1897) dei suoi inizi.

Scalone di Casa Tassel, Bruxelles

Tuttavia, poiché l’esercizio preferito di molti critici contemporanei è quello delle graduatorie, Romein ci mette al corrente che non solo Horta, ma anche Mackintosh e Behrens e de Bazel, per non parlare di Wright, furono migliori architetti di van de Velde, il quale persino come teorico fu superato da Hermann Muthesius. Nonostante ciò, l’illustre critico deve ammettere che «van de Velde, a volte sopravvalutato, rimane comunque rappresentativo del rapido cambiamento nel pensiero e nell’agire all’inizio del secolo». Dal canto suo, van de Velde ben conscio che opinioni e rivalità possono essere molteplici, puntualizzando implicitamente ambiti d’interesse professionale differenti, annotava nell’autobiografia: «Lascio agli altri discutere su quale dei quattro primi fuoriclasse belgi tra il 1893 e il 1895 – Georges Serrurier-Bovy e io nel campo dell’arredamento e della decorazione, Paul Hankar e Victor Horta nel campo dell’architettura – viene data la priorità creativa».

Articolo su Victor Horta del gennaio 1897 da Archivi delle arti applicate italiane del XX secolo

In verità, le frizioni si manifestarono soprattutto quando a conclusione del primo conflitto mondiale il re Alberto I considerò che fosse giunto il momento di richiamare il “grande artista” in Belgio. L’interesse verso van de Velde era nato con l’Esposizione universale di Bruxelles del 1910, allorché si era presa in considerazione l’idea di fondare una Scuola di arti e mestieri sul modello del suo Istituto di Weimar. Il progetto prese avvio intorno al 1922, quando Camille Huysmans divenne Ministro dell’Istruzione, delle Arti e delle Scienze nel governo di M. Prosper Poullet. Finalmente nel 1925 fu istituito a Bruxelles l’ISAD (Institut Supérieur d’Architecture et des Arts Décoratifs). «Non appena si resero note le decisioni ministeriali di Camille Huysmans – scrive van de Velde –, contro di lui e contro di me iniziò una faida di stampa di inaudita violenza. Victor Horta sedeva a capo dei gelosi e mediocri architetti belgi, che poteva facilmente aizzare contro di me, perché temevano tutti la mia autorità e superiorità, ma soprattutto il mio rientro nella vita professionale architettonica del Belgio. Lo stesso Horta non aveva motivo per lamentarsi di me. Nel periodo in cui vivevo e lavoravo in Germania o in altri paesi europei, non c’era ragione di inimicizia da parte mia nei suoi confronti, se non la sua avversione e la sua ambizione». La realtà, tutto considerato, è che siamo davanti a due antagonisti di grande ingegno, dei quali apprezziamo le qualità creative, senza tralasciare gli aspetti umani. In tal senso, è facile comprendere che la genialità di Victor Horta consisteva nel sapere unire tutte le qualità in ogni sua opera, rivoluzionando l’architettura eclettica dell’epoca: la libertà compositiva, la fluida suddivisione dello spazio, la robustezza strutturale, la forza creativa che attrae sia negli esterni come negli interni.

Tali qualità le ritroviamo tutte nelle quattro abitazioni private (hôtels) incluse nel 2000 nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. Enumeriamole:
– Hotel Tassel, progettato e costruito per il Prof. Émile Tassel nel 1892 – 1893;
– Hotel Solvay, progettato e costruito nel 1895 – 1900;
– Hotel van Eetvelde, progettato e costruito nel 1895 – 1898;
– Maison e Atelier Horta, progettato nel 1898, che ora ospita il museo Horta, dedicato al suo lavoro.

Hotel Tassel, rue Paul-Emile Janson 6, Ixelles (Bruxelles)
Hotel Solvay, Avenue Louise 224, Bruxelles
Hotel van Eetvelde, Bruxelles
Musée Horta, Casa personale e Studio di Victor Horta, Saint-Gilles (Bruxelles)

Per sintetizzare in poche righe le motivazioni del Comitato UNESCO, le quattro progettazioni di Victor Horta fanno parte delle opere di architettura più innovatrici della fine del XIX secolo. La rivoluzione stilistica che le caratterizza è rappresentata dalla pianta aperta, dalla diffusione della luce e dalla brillante integrazione delle linee curve della decorazione alla struttura dell’edificio. Proprio per evidenziare questa integrazione basterà far notare che l’alternativa alle tradizionali murature autoportanti erano le strutture in ferro o ghisa per consuetudine annegate in setti, tramezzi e tompagni, rendendo il tutto indistinto sotto strati di intonaco. Horta, in modo sorprendente per il tempo, pensò bene di mettere in mostra gli elementi strutturali metallici, ma soprattutto di forgiarli come vere e proprie ramaglie vegetali. Parlando della sua ispirazione floreale Horta amava dire: «Lascio il fiore e la foglia, e prendo lo stelo». L’effetto fu spettacolare. Un materiale tutto sommato nuovo come il ferro fu utilizzato per esprimere un linguaggio formale. Combinato con il vetro lo si era già visto nei grandi Palazzi delle Esposizioni universali, ora lo si ritrovava armonizzato nei palazzi privati con il bronzo, la pietra e il legno. Horta cambiava in questo modo il volto dell’architettura. «Il linguaggio del design unico di Horta – scriveva Frans Boenders sulla rivista Fiandre – è stato descritto come lo stile del “colpo di frusta”. In effetti, il dinamismo estremamente resistente di queste forme, che si ritrova nell’intera concezione spaziale, così come nei minimi dettagli, è l’aspetto più sorprendente dell’arte architettonica e d’interni di Horta. Nessun architetto ha avuto tanto successo nel mettere insieme materiali prima considerati incompatibili; Horta è un vero maestro nell’armonizzare il legno vivo e caldo con la pietra fredda e lucente e il ferro duro ma aggraziato».

Schizzo di progetto della Maison e Atelier Horta

Si potrebbe pensare che requisiti come la solidità dei materiali costruttivi, la luminosità e l’ampiezza degli spazi, la ricchezza decorativa, siano prerogative esclusive delle classi abbienti. Eppure, tra le pieghe del lusso e dell’eleganza, dei consumi e dello sfarzo, con l’Art Nouveau cominciò a farsi strada un’arte sociale che trasformò non solo i palazzi dei facoltosi ma anche i grigi quartieri degli operai. Nel descrivere il progetto della Maison du Peuple, particolarmente toccanti echeggiano le parole di Victor Horta nelle sue Memorie inedite (uscite a stampa solo nel 1985). La Maison du Peuple è il suo capolavoro assoluto, ma evidentemente questo edificio iconico non era considerato altrettanto nel 1964, quando fu smontato e smembrato, per liberare l’area sulla quale edificare un grattacielo.

Cecile Duliére, Victor Horta, Mémoires, Ministère de la Communauté Francaise, 1985.

«Sono stato scelto per costruire la Maison du Peuple, perché si voleva un edificio che esprimesse la mia concezione estetica. Il tema era interessante: costruire un palazzo che non fosse un palazzo, ma una vera “casa” in cui l’aria e la luce divenissero il lusso per tanto tempo negato ai tuguri operai; una casa, sede dell’amministrazione, degli uffici delle cooperative, di locali per riunioni politiche e professionali, di un bar […], sale per conferenze destinate a diffondere l’istruzione, e infine una immensa sala di riunioni per il dibattito politico e i congressi del partito e gli svaghi musicali e teatrali degli iscritti». Tra il 1895 e il 1899, in rue Stevens, Horta costruì La Casa del popolo per il Parti Ouvrier Belge di Camille Huysmans, con le finanze della borghesia industriale e l’entusiastica approvazione dei dirigenti socialisti. Anche lui, simpatizzava per il socialismo, come van de Velde e la maggior parte degli architetti modernisti belgi. Qualcuno oggi commenta, storcendo il naso, che Horta era un socialista da salotto ed anche un massone, iscritto alla loggia Les Amis Philanthropes. Molti eminenti liberali e socialisti belgi erano impegnati, allora, nella Massoneria, essendo per molto tempo l’unico movimento organizzato del Belgio. Qualcuno dice, ancora, che lo stesso Camille Huysmans fece costruire questo “palazzo di cristallo” del proletariato, ma lo fece anche demolire, sottoscrivendo il decreto che stabiliva che la Maison du Peuple dovesse essere smontata e sostituita. Di sicuro sappiamo che per la casa del popolo i socialisti dell’epoca avevano voluto il medesimo architetto che un anno prima aveva costruito il palazzo in Avenue Louise per l’industriale Solvay. Qui ogni operaio avrebbe potuto partecipare alle riunioni, imparare a leggere, scrivere e far di conto. «Par nous Pour nous», questo era il motto: Da noi Per noi.

Restituzione in 3D della Maison du Peuple – Filmato
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Nonostante una trama edilizia fitta e irregolare, formata da palazzi borghesi accuratamente progettati e di buon gusto, costruiti secondo i dettami dell’arte in tutti gli stili ottocenteschi – neogotico, neorinascimentale, neoclassico – con un prospetto che assecondava l’arco di una piazza circolare e in pendenza, Horta riuscì a realizzare uno strepitoso edificio in metallo di quattro piani. Quattro, quasi come gli anni che impiegò per progettarlo e farsi appioppare il soprannome di “ritardatario”. Horta svolgeva il suo lavoro con grande meticolosità: «Ogni cosa – considerava – è una somma di dettagli, ma ogni dettaglio è utilizzabile se è pensato, disegnato e fabbricato». Quando l’opera fu realizzata, il plauso fu unanime. Il Consiglio di Amministrazione del Parti Ouvrier Belge (POB – Partito Operaio Belga) magnificò il lavoro con queste parole: «Ora che la Nouvelle Maison du Peuple è costruita, ora che suscita l’ammirazione sia degli abitanti di Bruxelles che degli stranieri, possiamo essere fieri del nostro palazzo e prima di tutto, noi teniamo a ringraziare Horta e a complimentarci con lui, il nostro architetto che ha così compreso le aspirazioni della Cooperativa socialista e i bisogni del partito operaio di Bruxelles e ha messo al nostro servizio il suo grande talento di architetto e di artista per darci piena e completa soddisfazione. È possibile che il suo modo di lavorare, non apprezzato inizialmente dai sindacati operai abbia talvolta potuto scontentarli, che la generale impazienza di poter disporre di nuovi locali abbia fatto parlare di lentezza nel portare a termine questa costruzione, ma, quando, come nel nostro caso, si è al corrente della attività costante che ha regnato durante questi tre anni e mezzo, delle innumerevoli difficoltà che si sono dovute sormontare, si è obbligati a riconoscere, in tutta sincerità, che l’edificazione della nuova Maison du Peuple è stata in gran parte, un’opera di dedizione di tutti quelli che vi hanno partecipato e in particolare del suo architetto e dei suoi collaboratori».

Restituzione in 3D della Maison du Peuple – Rendering
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L’opera spiccò subito per la sua funzionalità. Il pianoterra destinato a negozi e persino ad un caffè-ristorante; al primo piano, gli uffici e le sale riunioni del Partito, oltre a una biblioteca per studiare; al secondo e terzo piano, diverse sale pluriuso; al quarto piano, un grande auditorium e una sala da concerto con una capienza di oltre 2.000 posti a sedere. Horta vedeva in tutto questo una duplice sfida: costruire un palazzo in stile Art Nouveau su uno spazio impossibile e farne una casa per il popolo in uno stile a prima vista riservato alle élite. Sottolinea Paolo Portoghesi a questo proposito: «La consapevolezza del maestro rispetto al significato politico che la sua architettura aveva assunto è chiaramente espressa nelle Memorie inedite dove afferma esplicitamente, riferendosi ai suoi amici della cerchia di Solvay: “Noi eravamo dei rossi, senza per questo aver pensato a Marx o ad altre teorie”. L’architetto parla esplicitamente di “profanazione” prodotta dall’apparizione del metallo nell’hotel Solvay e, interpretando le reazioni di madame van Eetvelde ai progetti della sua casa dell’avenue Palmerston, scrive: “Lo stile modernista soprattutto con il ferro in vista, elemento principale ma grossolano e miserabile, […] era popolo”». È possibile, riflette Portoghesi, che per gli operai che videro sorgere la loro Casa comune probabilmente quel ferro, tanto “grossolano e miserabile” per la signora van Eetvelde, non avesse «un significato così chiaro ed univoco da dar loro l’impressione di una simbolica identificazione coi loro interessi e le loro aspirazioni». È presumibile. È certo, invece, che la demolizione del 1964 ha fatto perdere un documento storico, un segno consolidato dello spirito del tempo, tanto da far nascere un termine come Brusselizzazione (Brusselization) per identificare un’indiscriminata pianificazione urbana senza idee e senza qualità. 750 persone firmarono per salvare il capolavoro di Victor Horta. Tra loro numerosi architetti come Mies van der Rohe, Walter Gropius, Alvar Aalto, Gio Ponti, Jean Prouvé, Ieoh Ming Pei. La demolizione non venne fermata e la Blaton Tower, un grattacielo di 26 piani, sostituì quell’edificio diventato troppo angusto per le esigenze del Partito dei Lavoratori, quell’edificio innalzato da un architetto ormai dimenticato e in uno stile fuori moda: L’Art Nouveau e i suoi precursori non interessavano se non ai cultori dell’arte moderna. «Ricordo oggi con raccapriccio – racconta ancora Portoghesi – che la notizia della demolizione in corso, con la conseguente dispersione di molte delle parti metalliche della Maison du Peuple, scatenò in molti studenti e architetti il desiderio di procurarsi delle reliquie, corrompendo gli operai addetti allo smontaggio. A Roma circolavano allora maniglie e cerniere conquistate con spedizioni mirate a Bruxelles».

Victor Horta nel 1900

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Art Nouveau – “Il delirio… il delirio della bruttezza!”

di Sergio Bertolami

24 – l’ideale sociale di Henry van de Velde.

Dicono bene i critici, che parlano di Henry van de Velde, l’esposizione fatta nel negozio di Bing il 26 dicembre 1895 e l’esposizione del 1897 a Dresda, «contribuirono fortemente alla diffusione delle sue idee e alla sua fama in Europa tenuta viva anche dalla forza del suo esempio, dalla sua continua preoccupazione didattica e di sollecitazione culturale che egli esercitò con i suoi scritti, con la sua attività di propaganda delle idee, le sue conferenze, le sue lezioni» (Lara Vinca Masini). Eppure, come sappiamo, per van de Velde questo inizio fu alquanto turbolento. Auguste Rodin lo insultò verbalmente fuori del negozio, Edmond de Goncourt lo fece per iscritto sul suo Journal. Tali improperi rendono perfettamente un momento di passaggio come questo, perché siamo dinanzi a personaggi illustri della storia dell’arte, colti però in un flash che ritrae un presente dissociato, tra il passato illustre dell’arte francese che dettava all’Europa le proprie influenze e un futuro internazionale tutto da scrivere. A ben considerare, quanti frenavano l’innovazione non erano soltanto i denigrati conservatori, ma anche gli innovatori di ieri che faticavano a comprendere gli innovatori di oggi. Perciò, prendiamo atto dell’irritazione di Edmond de Goncourte e leggiamo per intero quanto aveva da dire: «Lunedì 30 dicembre. – Exposition Bing. Non sono contrario all’idea della mostra in quanto tale, ma solo all’evento del giorno, l’esposizione di oggi. Cosa? Il nostro paese, che ha prodotto mobili civettuoli e paffuti per il comfort del XVIII secolo, è minacciato da mobili duri e spigolosi che sembrano fatti per abitanti delle caverne e palafitticoli ignoranti. La Francia sarebbe condannata a forme premiate in un concorso di bruttezza. Condannata cioè a coppe dalla forma di bacche, finestre e cassettiere improntate allo stile “oblò di una nave”, a schienali di divani, di poltrone, di sedie, che si richiamano alle rigide piattezze di fogli di lamiera e con rivestimenti tessili dove uccelli, color cacca d’oca, volano sul risciacquo blu di una saponata, condannata a specchiere da bagno e altri mobili imparentati coi lavandini di un dentista, nei dintorni di un obitorio. E un parigino dovrebbe mangiare in questa sala da pranzo, al centro di boiserie finto mogano decorate con questi arabeschi in polvere d’oro, accanto a un siffatto camino che sembra un radiatore per scaldare gli asciugamani di uno stabilimento balneare; e un parigino dovrebbe dormire in questa camera da letto, tra queste due sedie di gusto terrificante, in questo letto che altro non è che un materasso adagiato su di una lastra tombale? Davvero, saremmo snazionalizzati, sottomessi moralmente da una occupazione peggiore della guerra [franco-prussiana], in questo tempo in cui non c’è più posto in Francia che per la letteratura moscovita, scandinava, italiana, e forse presto per quella portoghese, in questo tempo in cui sembra anche non esserci più posto in Francia che per i mobili anglosassoni oppure olandesi. Non quello, il futuro mobile francese, quello no! No! Uscendo da un’esposizione di tal genere, come non potevo fare a meno di ripetere ad alta voce per la strada: «Il delirio… il delirio della bruttezza!». Tanto che, un giovane, avvicinandosi, mi disse: «State parlando con me, signore?».

Volume del Journal di Edmond de Goncourt
nel quale compare il brano su Henry van de Velde

Sul marciapiede di fronte al negozio di Bing, poi sul Journal, Edmond de Goncourt imprecò che il più ridicolo degli espositori, van de Velde, aveva progettato i suoi mobili applicando uno “stile yacht”. «Inconsciamente c’era del vero in questa osservazione – commentò anni dopo, in risposta, lo stesso van de Velde nell’autobiografia – De Goncourt ha riconosciuto l’essenza del “design razionale” che legava i miei mobili alle navi». Una relazione davvero sorprendente, anticipatrice di almeno un quarto di secolo. Henry Van de Velde era a tutti gli effetti un precursore, piuttosto che un innovatore. Al tavolo verde dell’arte, non faceva il suo gioco con singolare maestria, usava direttamente un nuovo mazzo di carte. In breve, il verdetto generale fu devastante, ma l’arte nuova s’impose ugualmente; ma quale arte nuova? Negli articoli apparsi sulle riviste qualche critico imparziale riconobbe l’importanza della mostra, come Gabriel Mourey che su The Studio, il mensile d’arte inglese più vivace dell’epoca, il 3 gennaio 1896, in un saggio intitolato The Big Event of the Present Art Season, scriveva: «Questi uomini sono alla ricerca di un’arte semplice e profonda; usano un buon metodo per farlo: un infaticabile sforzo. Il loro contributo personale può essere riconosciuto da alcuni dettagli. Ad esempio, se si guardano le stanze progettate da Henry van de Velde, vi si noterà l’equilibrio di tutte le linee del mobile, volute in modo consapevole; si riconoscerà la grazia sottile nella cornice di un vetro o di uno specchio, e si vedrà come le incrostazioni di rame intarsiate nel legno, intorno alla stanza, si traducano in una serie di arabeschi di grande fascino».

Mostra ‘Art Nouveau’ nel negozio di S. Bing, Parigi, dicembre 1895. Sala da pranzo
Mostra ‘Art Nouveau’ nel negozio di S. Bing, Parigi, dicembre 1895. Sala fumatori. Lavorazione del legno di mogano, finestra, pannello a mosaico, specchiera e divano. I mosaici e il fregio sono di G. Lemmen da Bruxelles.

Com’era stato concepito il progetto? Lo racconta van de Velde stesso. Un giorno, dopo che la prima pietra della casa Bloemenwerf era stata posta sul terreno in pendenza, si presentarono alla porta due signori sconosciuti. I loro biglietti da visita riportavano il nome di S. Bing e Julius Meier-Graefe. Il primo, lo aveva sentito solo nominare: in quegli anni, nessun “amante del Giappone”, recandosi a Parigi, avrebbe mancato di visitare la galleria di Bing in rue de Provence. Il compagno di viaggio, gli fu presentato come uno scrittore e critico d’arte tedesco. Stavano facendo un giro, oltremanica e in vari paesi del continente, per rintracciare segni di rinascita dell’artigianato: da Bruxelles intendevano recarsi in Inghilterra, poi in Olanda e da lì in Danimarca, Germania e Austria. Quella mattina Bing e Meier-Graefe avevano visitato a lungo la Kunsthaus, una Maison d’Art allestita a Bruxelles nella precedente casa di Edmond Picard. L’idea che ventilavano era che necessitasse fornire agli sforzi individuali degli artisti e degli artigiani un sostegno commerciale, tale da garantire una maggiore risposta del pubblico. Della casa di van de Velde apprezzavano le pareti appena tappezzate con la carta da parati “Dahlia”, l’effetto armonioso del suo rosso amaranto, del verde e del blu indaco, in sintonia con il colore del legno di cedro dei mobili. Conoscevano van de Velde dai suoi articoli e mostrarono una cartella di ritagli sull’argomento, tuttavia, Bing, stava ben attento a non rivelare che il suo tour europeo potesse farlo decidere a realizzare una Maison d’Art del genere. Lo fece qualche settimana più tardi, quando fu van de Velde a raggiungerlo a Parigi nel suo piccolo studio in rue Vézelay. «Senza ulteriori preamboli – commentava van de Velde – mi informò della decisione di convertire la sua galleria in rue de Provence in una casa per L’Art Nouveau. La visita alla Kunsthaus di Bruxelles, gli aveva fatto una grande impressione e credeva nel futuro di tali imprese. Il suo tour lo aveva convinto che fosse imminente una rinascita dell’artigianato e che gli artisti che aveva visitato nei vari Paesi erano decisi a rompere con l’imitazione degli stili un tempo consueta». Decisero di avviare insieme l’iniziativa, ma dai primi incontri operativi emerse la preoccupazione che la mostra avrebbe provocato critiche e ostilità. La stampa a pagamento avrebbe spinto il pubblico a credere in una operazione antipatriottica, condotta da ribelli, per lo più stranieri, determinati a strappare alla Francia una proprietà culturale inalienabile. Non solo idealmente, ma anche materialmente, suscitando timori che sarebbe stata messa in crisi l’indiscutibile superiorità dell’industria artistica francese.

Mostra di arti applicate Dresda, 1897, sala relax

Henry van de Velde cominciò a pensare di avere accettato piuttosto incautamente l’incarico di Bing. Per una serie di ragioni. Anzitutto era chiaro il fatto di trovarsi in prima linea in una battaglia contro «i mobili e le suppellettili delle dimore in cui si nascondeva la società francese». La seconda ragione nasceva dai tempi di consegna molto stretti, dovendo installare a Parigi tanti arredi e complementi in date stabilite. Difficile oltretutto era ottenere specifici materiali dall’estero. Gli veniva richiesto di realizzare un salotto in legno di limone, una grande sala da pranzo in legno di cedro, una sala fumatori in paddock del Congo, una sala più grande rotonda con mobili e pannelli da parete coordinati. A tutto ciò si aggiungevano apparecchi d’illuminazione, carte da parati, tessuti e tappeti, ideati da altri artisti, ma da comporre in modo armonioso. La terza ragione aveva carattere progettuale: «Per quanto mi riguardava direttamente, ho avuto anche qui il mio problema. Quello che avevo creato fino ad allora era sempre stato destinato a stanze esistenti e a clienti di cui conoscevo gusti ed esigenze. In caso di dubbio, avrei potuto discuterne con loro. Lavorare per clienti sconosciuti e per stanze immaginarie mi risultava estraneo. Questa volta, al contrario, avrei dovuto progettare intere stanze basate su vari mobili tutti ideati da me. Alla fine, mi sono abituato a queste condizioni insolite, ma solo lentamente e con difficoltà, temendo sempre di non essere in grado di consegnare ciò che in quel momento si stava chiarendo nella mia mente con insolita fretta». Tali preoccupazioni furono, comunque, tutte superate; ma quando la presentazione ebbe luogo, van de Velde già a sfogliare il catalogo si accorse del problema maggiore: la mancanza di unità e di contesto, rispetto a quanto Bing e Meier-Graefe immaginavano come Art Nouveau. Van de Velde prese a domandarsi come si fosse mai potuta allestire una mostra senza un programma definito, se non quello della novità fine a sé stessa: «In quale altro modo si sarebbero potute presentare sotto lo stesso termine collettivo le mie creazioni e quelle di Carabin, i vetri di Tiffany, Powell e Köpping, i candelieri di Benson ed Eckmann? Per avere un’idea dei principi del tutto oscuri di Bing, basti ricordare che accanto alle mie stanze, i visitatori potevano ammirare una camera da letto progettata da Maurice Denis, i cui mobili erano altrettanto assurdi quanto la poltrona del famoso scultore Carabin […] Se Bing avesse riconosciuto i principi fondamentali e gli obiettivi morali a cui tendevo con tutte le mie forze, avrebbe sicuramente rifiutato il mio lavoro. L’idea di fondere la morale con il design artistico, di fare ritorno a forme semplici e vere non poteva significare nulla per lui». Insomma, quella di Bing era una Maison d’art nouveau ou de nouveautés artistiques? Esponeva i risultati di una creatività innovativa o semplicemente una serie di nuovi pezzi d’arte?

Laboratorio della ‘Société van de Velde’ a Ixelles, nel 1899, sulla destra l’architetto mentre esamina un disegno di progetto

Queste osservazioni non erano peregrine: coglievano quantomeno il desiderio di Bing di scoprire una “nuova eleganza” più orientata al virtuosismo pittorico di Boldini o Gandara, alle fantasie orafe di Lalique. Differente era invece l’impronta di van de Velde e il suo percorso futuro lo dimostrerà compiutamente. Poche settimane dopo l’apertura della scandalosa mostra in rue de Provence, una delegazione guidata dal direttore generale dei musei di Dresda, Woldemar von Seidlitz, visitò la galleria di Bing e chiese di reinstallate nel Palazzo delle Esposizioni di Dresda le quattro stanze realizzate dal designer belga, in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte del 1897. Inoltre, si chiedeva di realizzare una grande “sala relax” per i visitatori. Dopo appena tre settimane dall’inaugurazione dell’Esposizione, van de Velde divenne talmente famoso in tutta la Germania da essere sommerso di incarichi progettuali. Il crescente numero di commesse tedesche superò rapidamente, per importanza e valore monetario, le commesse belghe. Per converso, si profilarono all’orizzonte problemi organizzativi ed economici che avrebbero portato a cambiamenti radicali. Il più importante fu sicuramente la nascita della Société van de Velde, per fare fronte al lavoro esecutivo. Il barone Eberhard von Bodenhausen – del comitato editoriale di Pan, la rivista di cui Meier-Graefe era direttore – e il pittore berlinese Curt Herrmann, decisero di investire i propri capitali, consentendo di allestire nel sobborgo di Ixelles a Bruxelles moderni laboratori per la produzione di mobili, lampadari e altri arredi. La nuova attività e le relazioni strette con varie Maison d’Art di Parigi, Berlino e L’Aia, permisero a van de Velde di esporre e vendere i propri prodotti e di accettare numerose commissioni di arredi, ma anche di tessuti, gioielli e copertine di libri. Prova ne sia che la direzione della Secessione di Monaco gli mise a disposizione due sale da arredare completamente. Questo dette all’osannato artista l’opportunità di avere il suo primo contatto con amici d’arte nel Sud della Germania. Una opportunità eccezionale, perché all’epoca Monaco, come s’è detto, era un centro artistico molto apprezzato in tutta Europa. Né Dresda, né Düsseldorf, per non parlare di Berlino, potevano competere con Monaco.

Annuncio della ‘Société van de Velde’ in ‘Arte decorativa’, 1898

Il segreto di van de Velde era la continua meticolosità: «Per avere un’idea della risposta che aveva generato la mia partecipazione al dipartimento di arti e mestieri della Secessione del 1898, mi sono mescolato alla folla nell’Hofbräuhaus dopo l’apertura. Mi resi conto di aver combattuto una battaglia, un’altra battaglia dopo le battaglie di Parigi e Dresda. Il pubblico aveva ricevuto uno shock». Tuttavia, a Monaco le parole taglienti che aveva usato Edmond de Goncourt non furono affatto pronunciate, non ci fu alcuna rivolta come a Parigi, anzi non ci fu proprio nessuna reazione improvvisa. Ciò che faceva piuttosto impressione era l’apatia dei visitatori, ai quali senz’altro piaceva parlare d’arte, ma senza provare emozioni. Ne discutevano in birreria. «A Monaco la gente amava l’arte come la birra», ironizzava l’architetto. Davanti ad un boccale s’intrattenevano conversazioni piacevoli con rinomati pittori o scultori, con drammaturghi, attori, cantanti o compositori. Letteratura e poesia, invece, erano di casa nei caffè.

Elisabeth Förster-Nietzsche, sulla scrivania copertine di libri di Henry van de Velde

Alla luce dei fatti, si può dire che finalmente van de Velde aveva quadrato il cerchio della sua professione. Se a Parigi l’intellighenzia lo snobbava, in Germania il suo lavoro di designer divenne noto attraverso articoli su periodici d’arredamento come Innen-Dekoration, rivista illustrata di arti e mestieri per la decorazione d’interni. Nel 1899 si lasciò “rapire” dalla Germania e decise di stabilirsi a Weimar, in una casa in Cranachstrasse, nella zona residenziale di Silberblick, a poche centinaia di metri dalla villa di Elisabeth Förster-Nietzsche, sorella del suo filosofo più amato. «Ricordo gli ultimi tre anni del XIX secolo come un periodo di eterna felicità, come una sola primavera o un’estate luminosa, con aiuole meravigliosamente fiorite, che mia moglie accudiva con amore, quando non si dedicava alla nostra piccola Nele o ad altri lavoretti di famiglia. La vedo ancora nei suoi bellissimi vestiti da giardino fatti di rari tessuti esotici, che lei stessa aveva realizzato con i miei disegni ideati per lei».

Maria Sèthe, moglie di Henry van de Velde, con la loro piccola Nele nel giardino della casa Bloemenwerf

Maria arredò anche il nuovo appartamento con i piccoli mobili trasferiti da casa Bloemenwerf. Van de Velde, invece, su mandato del giovane Granduca Wilhelm Ernst, come consulente artistico si dedicò a infondere la “cultura del prodotto” alle imprese artigiane e industriali del Paese. Continuò anche il suo lavoro educativo, alla Scuola di Arti applicate granducale sassone (Grossherzoglich-Sächsische Kunstgewerbeschule Weimar) da lui stesso fondata nel 1908 e inizialmente sostenuta dal Granduca per poi passare allo Stato. «Ho chiamato questo istituto “Seminario di arti e mestieri” perché ero convinto di poter raccogliere e distribuire lì i semi, che poi sarebbero germogliati».

Scuola d’Arte di Weimar, 1904, progettata da Henry van de Velde

Van de Velde fu il direttore della Scuola fino alla chiusura, nel 1915, anno in cui pur in ottimi rapporti dovette lasciare la Germania per via della guerra, in quanto belga. Suggerì che l’architetto Walter Gropius gli succedesse. Torneremo a parlarne, perché dopo il 1919 la Scuola di Arti e Mestieri si fuse con l’Accademia d’Arte di Weimar, per dare vita al celebrato Bauhaus. In qualche modo si concretizzavano le parole con cui si era chiuso il primo numero de L’art décoratif del 1898, interamente dedicato alla sua figura e alla sua opera: «Seguiranno altri atelier di tessitura, ricamo e altre industrie domestiche, dove la macchina prenderà la sua indispensabile parte al lavoro. Il senso meccanico penetra oggi in tutte le opere di Van de Velde e garantisce che nelle sue mani l’arte non rimarrà, come avviene oggi, a beneficio di un piccolo numero di persone di buon gusto, ma che penetrerà fra la moltitudine, diffondendo verità e bellezza. Allora si realizzerà l’ideale sociale di Van de Velde, davanti al quale, secondo le sue stesse parole, un uomo vale tanto di più se il suo lavoro porta frutti o benefici a tanti altri di più».

Henry van de Velde nel 1904

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Henry van de Velde – Ogni teoria che sosteneva diventava per lui una missione

di Sergio Bertolami

23 – Primi passi verso arti applicate ed ornamento.

Chi pensa sinceramente che le grandi opere raffigurate sui libri di storia dell’arte siano state senza contraccolpi o reazioni, non ha idea della realtà dei fatti. Persino l’arte floreale ebbe i suoi sussulti. Bing e il suo Salon dell’Art Nouveau, ad esempio, per quanto si possa pensare il contrario, furono derisi. La mostra di inaugurazione fu considerata uno scandalo. L’apertura avvenne negli ultimi giorni di dicembre del 1895. Fece scalpore, non solo sui giornali che recensirono l’avvenimento, ma anche tra la moltitudine elegante che affollò le sale espositive. Era presente la crema della società parigina: personaggi famosi dell’Académie Française, artisti ed eminenti studiosi, esteti e critici d’arte. Da subito si levò un borbottio generale di ostilità e indignazione. All’esterno del negozio si formarono gruppi di protesta che attorniavano le personalità più famose: Edmond de Goncourt che esprimeva il suo disgusto, Auguste Rodin che lo sosteneva, pronunciando imprecazioni contro Meier-Graefe colpevole di avere convinto il raffinato mercante a rifiutare la tradizione francese per dare spazio ad un orribile internazionalismo. «Il tuo van de Velde – esclamò eccitato fra gli applausi della folla rivolgendosi a Bing – il tuo van de Velde è un barbaro!». Lo abbiamo incontrato di sfuggita parecchie volte, Henry van de Velde, in queste pagine sull’arte del Novecento. All’epoca degli eventi contava 32 anni e fu proprio lui a raccontarli nel libro uscito postumo in cui narra la storia della sua vita (Geschichte meines Lebens, 1962). «Credo che si debba essere autodidatti per produrre forme come un “barbaro”. Bisogna attingere a fonti che non siano state contaminate dagli stili successivi al Rinascimento italiano in Francia, Paesi Bassi e altre nazioni civilizzate, o dall’insegnamento accademico ufficiale». Idee chiarissime, in linea con i tempi, per contrastare le espressioni concitate di Rodin. Barbaro van de Velde? Ma lo conosceva bene, Rodin? Conosceva questo colto pittore che amava leggere libri o romanzi sociologici di tendenza sociale: le opere di Zola, che gli rivelavano la miseria degli operai e dei contadini; le opere di Nietzsche, come Zarathustra che a suo dire lo «nutriva meglio del cibo vero». In quelle pagine stava cercando la sua nuova strada artistica. Da studente, diceva di avere dipinto con la naturalezza di un «uccello che canta», e usava quest’espressione del suo amico Camille Pissarro. Poi sentì di doversi liberare di quanto appreso prima all’Accademia di Anversa, poi nello studio Verlat e con Carolus-Duran. Doveva scoprire il vero significato dell’impressionismo, e delle correnti che da questo sembravano prendere avvio.

Henry van de Velde nel 1897

Al quarto salone dei Vingt (nel 1887), era rimasto profondamente scosso dalla Dimanche de la grande Jatte di Seurat. «Ci è voluto del tempo perché il pubblico e i critici specializzati riconoscessero che il neoimpressionismo era una rottura». La nuova corrente scaturiva dalla Société des Indépendants nel mettere in pratica la Teoria scientifica dei colori di Chevreul e Rood. Paul Signac spiegava la teoria in D’eugène Delacroix au néo-impressionnisme. Van de Velde non dimenticherà mai in vita sua lo “shock” che gli avevano provocato le prime impressioni dell’innovativa tecnica pittorica divisionista. Seurat ci lavorava fino a tarda notte con uno sforzo sovrumano. Fu nell’autunno del 1888 che van de Velde conobbe Rodin e Georges Lemmen, nominati insieme a lui quali nuovi membri dei Vingt. All’epoca, Madeleine Maus, coscienziosa cronista della storia dei Vingt, commentava: «Van de Velde ama essere attivo, scrivere, parlare, convincere. Un tono serio, inquietante e caldo gli torna utile. È un teorico per natura, e questo tratto particolare del suo essere fa sì che ogni teoria che sostiene diventi una missione per lui». Da quando era entrato nel gruppo dei Vingt poteva partecipare alle serate che Edmond Picard teneva nei mesi invernali nella sua casa di Boulevard de la Toison d’Or a Bruxelles. Serate vivaci e brillanti. Qui, come mai prima d’allora, fra gli ospiti si potevano incontrare famosi professionisti, i principali pittori e scultori, gli scrittori più moderni, l’élite dei politici belgi. «James Ensor, il più chiacchierato e il più talentuoso dei Vingt – annotava van de Velde – è stato visto parlare con il ministro delle Belle Arti, Le Jeune».

Lettera di Octave Maus che annuncia la nomina di Van Velde a membro dei Vingt

Leggeva libri e riviste, che si ammucchiavano nella sua stanza. Più che la pittura in senso stretto, van de Velde ricercava una nuova tecnica, un carattere artistico che lo facesse godere delle gioie che solo il colore e la linea gli davano. «La calligrafia e la tecnica delle xilografie giapponesi, rivelazione per noi giovani artisti in quegli anni, mi sembravano offrire i presupposti per ritrarre in modo semplice i più poveri tra i poveri. Ma i pochi tentativi di xilografia che feci all’epoca erano ovviamente molto lontani dai capolavori di Hiroshige o di Utamaro. E anche con la mia esperienza con i colori secchi e “piatti”, posizionati uno accanto all’altro e uno sopra l’altro, non ho raggiunto il mio obiettivo. Con il minimo ritocco, i colori inevitabilmente si sgretolavano. C’era un solo modo per continuare: sostituire il colore con stoffe colorate, cioè con stoffe tagliate di diversi colori». Dopo il 1891 i primi prodotti esotici comparvero nelle vetrine dei negozi della Compagnie Japonaise di Bruxelles, che l’azienda Liberty di Londra aveva esportato dall’Inghilterra nel continente. La folla si accalcava sul marciapiede, davanti alle vetrine, per ammirare mobili ricoperti di lacca verde vivo o rosso, ceramiche smaglianti, vetri iridescenti. «Godevamo di queste cose come una specie di primavera che irrompeva nelle nostre vite, nella noia grigia dei nostri soggiorni con i loro mobili pesanti e logori che soffocavano ogni serenità, con tutti gli stupidi oggetti impolverati che vi si aggiravano furtivamente». Parallelamente, l’associazione dei Vingt presentava al Salon i primi artisti interessati alle arti applicate: il pubblicitario Jules Chéret con i suoi manifesti, l’illustratore Walter Crane con i suoi libri disegnati per i bambini, il ceramista Willy Finch con i suoi piatti decorati. Erano considerati come dei disertori, che voltavano le spalle alle “arti”. Poteva sussistere ancora una distinzione tra belle arti e arte applicata?

Théo van Rysselberghe, Maria Sèthe all’Harmonium, 1891, Museo Reale di Belle Arti di Anversa

Van de Velde trascorse l’inverno del 1892/93 impegnato in un lavoro intenso, quasi monastico. Aveva elaborato un bozzetto e aveva deciso i dettagli dei tessuti e dei fili di seta con i quali realizzarlo. Per la verità era più un arazzo che una broderie (un ricamo). Dall’esperienza comprese di non potere esprimere la sua visione artistica senza ricorrere all’abilità di un artigiano. Trovò in sua zia una ricamatrice esperta, quanto riluttante. L’anziana signora non poteva capire le teorie scientifiche di Chevreul e le leggi dei colori complementari. «Durante le lunghe settimane di lavoro sull’arazzo, la mia mente vagava in lungo e in largo e mi chiedevo dove mi avrebbe condotto il destino». Il lavoro fu presentato al decimo salone dei Vingt del 1893, l’ultimo realizzato da quella famosa associazione. Conclusa l’esposizione, i membri  e i loro amici si riunirono in banchetto prima di sciogliersi. «Era l’unico modo per liberarsi dalle forze frenanti che erano emerse fra loro», commentò van de Velde. Ma un altro evento contribuì alla trasformazione della professione del giovane artista: l’incontro con Maria Sèthe che presto sarebbe diventata sua moglie. A lei, più che ai suoi amici pittori, riusciva a spiegare il dibattito interiore sul suo essere artista controcorrente, a delineare le grandi figure di John Ruskin e William Morris, a parlare delle opere degli anarchici Bakunin, Kropotkin ed Elisée Reclus. Pur di propugnare «il ritorno della bellezza sulla terra e l’alba di un’era di giustizia sociale e dignità umana», si sentiva pronto a sopportare ogni sacrificio, ogni povertà, se la lotta lo avesse richiesto. Avvertì di avere una “Missione Artistica” da perseguire. Sulla rivista di Bruxelles L’Art Moderne esponeva le sue critiche in difesa delle arti e dei mestieri dall’ingiustificato disprezzo. Maria Sèthe, a Londra, dove soggiornò per vari mesi, raccolse per lui una consistente documentazione sulla rinascita dell’artigianato e sui risultati delle attività di Ruskin e Morris. «Ero particolarmente interessato a campioni di tessuti e carte da parati, cataloghi e riproduzioni di ogni genere di oggetti provenienti dal negozio di Liberty, dalla boutique di William Morris, e dalle varie mostre delle Arts and Crafts Guilds». Le letture di riviste d’arte nelle Biblioteca Nazionale di Bruxelles e di Anversa si fecero più frequenti. Col sostegno del presidente della sezione artistica del consiglio comunale di Anversa, de Winter, componente del consiglio dell’Accademia, nell’ottobre 1893 iniziò un corso per una ventina di studenti, sempre più interessati alle sue lezioni. Lui in verità le chiamava “conversazioni”. Spiegò loro le teorie di Ruskin e Morris e le creazioni di quest’ultimo nel campo degli arazzi, delle vetrate, della carta da parati e dei tessuti per tappezzeria. Ma con maggiore empatia rispetto ai maestri inglesi, nel corso delle sue lezioni, evidenziava come fosse «sbagliato incolpare la macchina per le bruttezze. Era giusto, piuttosto, denunciare la bassa avidità di denaro degli industriali, che grazie alla macchina sono stati messi in grado di moltiplicare gli orrori precedentemente fatti a mano e di inondare con questi orrori i mercati mondiali […] Al contrario: eravamo dell’opinione che la creazione dei modelli e la scelta dei materiali, nel processo di fabbricazione industriale, dovesse essere affidata agli artisti». Ma presto si rese conto che, per ottenere risultati fruttuosi, sarebbe stato necessario un lavoro pratico, che permettesse di creare nuove forme sulla base di nuovi motivi.

Carta da parati Dahlia, realizzata da Maria e Henry van de Velde intorno al 1894
e utilizzata nel vestibolo (© Nordenfjeldske Kunstindustrimuseum, Trondheim, NKIM Kat. 9297)

Chi non ha mai svolto un lavoro di ricerca non può comprendere, se non larvatamente, l’emozione che si prova a percorrere sentieri solo intimamente avvertiti e via via materializzati come per incanto. Van de Velde provò un’emozione del genere quando, avendo programmato qualcosa di speciale per la sua luna di miele, a maggio del 1894, riuscì ad avere una lettera di presentazione per la vedova di Théo van Gogh, che viveva nella sua casa di Bussum, nell’Olanda Settentrionale, e dove conservava tutti i quadri e i disegni di Vincent che Théo aveva raccolto. Gentilmente, senza molte parole, la signora fece accomodare la coppia di giovani sposi in soffitta. «Tutti i quadri – quasi tutta l’opera di Vincent – erano senza cornice con il lato dipinto del quadro contro le pareti. Cartelle spesse con centinaia di disegni giacevano sui tavoli […] Un’eccitazione indescrivibile e quasi timida ci ha colto, di trovarci, così all’improvviso e così direttamente, davanti alle opere di uno dei più grandi geni della storia della pittura». Van de Velde restituirà, nei lavori al tratto di quegli anni, l’inquietante incanto provato nell’aprire le cartelle dei disegni «ricoperti da un groviglio di linee di gesso o inchiostro cinese». Immagini che il giovane artista si porterà negli occhi, nella casa dei suoceri a Uccle, dove lavorerà ai suoi primi esperimenti di arti applicate, in due grandi stanze appositamente ammobiliate per lui e la moglie, che lo affiancava nella progettazione. Sulle pareti, la prima carta da parati disegnata insieme, col motivo Dahlia. L’architetto Victor Horta, su indicazione di un amico comune, lo andò a trovare alla ricerca di idee per la carta da parati, le tende e i corpi illuminanti da usare per la casa Tassel in Rue de Turin, desideroso di conoscere i prodotti che soddisfacevano le nuove concezioni decorative.

Henry van de Velde, Casa “Bloemenwerf”, Uccle, 1895/96

In quei giorni, van de Velde era attratto da una idea: si era presentata l’opportunità di acquistare un terreno di fronte a quello di sua suocera e già pensava di costruirci la propria abitazione. «Mi sono seduto al mio grande tavolo da lavoro nel nostro studio e ho iniziato a lavorare ai progetti per la casa Bloemenwerf». All’epoca, per i diplomati nelle Accademie di Belle Arti, le leggi non prevedevano studi tecnici specifici per indirizzarsi all’architettura. «A quel tempo non sapevo molto delle esigenze che mi imponeva la costruzione di una abitazione, e non avevo mai pensato a cosa occorresse per arredarla. Mi trovai improvvisamente di fronte a domande che richiedevano decisioni rapide». Il capomastro, al momento di consegnare i preventivi dei lavori, non mancò di sottolineare che la casa progettata da van de Velde sarebbe stata oggetto di severe critiche, che avrebbero potuto mettere a repentaglio la reputazione della sua stessa impresa di costruzione. Nonostante ciò, l’inesperienza tecnica del giovane, la volontà di rompere con l’imitazione degli stili storici e con le mode architettoniche del XIX secolo, furono la vera fortuna di questa villa, considerata già dal suo esordio quale vera e propria pietra miliare dell’Art Nouveau. «Io stesso ero pieno di una passione irresistibile. Non mi è bastato abbozzare la casa, ho disegnato tutto ciò che apparteneva agli arredi e alle decorazioni, tranne gli impianti idraulici, di riscaldamento e altri componenti industriali». L’ideale della Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale) aveva talmente pervaso l’entusiasta van de Velde da fargli progettare ogni elemento architettonico e ogni pezzo d’arredo. Arrivò a realizzare persino stoviglie e posate, ma dovette aspettare che si trovassero i laboratori per fabbricarli. Gli amici divertiti volevano che disegnasse i gioielli per sua moglie e lui, per tutta risposta, ne ideò persino gli abiti.

Maria Sèthe in cucina (piano terra)
Henry van de Velde davanti al camino della sala da pranzo
Lo studio al primo piano

Nella primavera del 1896 la casa fu terminata e la giovane coppia vi si trasferì. La chiamarono Bloemenwerf (cortile fiorito) in ricordo di una delle belle e umili case di campagna con quel nome che avevano trovato durante la loro luna di miele sui canali tra Utrecht e Amsterdam. Quella casa divenne il paradigma dell’architettura Art Nouveau. È mirabile leggere le parole, espresse con indescrivibile candore, da chi ha ideato questo progetto “rivoluzionario”: «Non ero gravato né da preconcetti né da regole dotte. Ero ingenuo ai problemi e nessuna soluzione mi sembrava troppo audace o troppo sconosciuta. Né il livellamento dei terreni, né le planimetrie, le sezioni o i prospetti, mi hanno mai preoccupato. Quando ho deciso di realizzare i progetti per la nostra casa, non avevo idea dell’architettura. Ero totalmente autodidatta […] Oggi difficilmente sembra credibile che un edificio così semplice, modesto, sensato, come questa casa di campagna, possa suscitare tanto entusiasmo tra il pubblico e tanto stimolo tra gli architetti. Ma forse ciò che era strano era la semplicità, il pudore e la ragione, in un’epoca in cui l’architettura borghese e monumentale rappresentava esattamente il contrario e il nonsenso era diventato il criterio della bellezza. Il compiacimento e l’ostentazione avevano distorto la comprensione delle cose semplici della vita».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Ridisegnare la casa: i negozi di Bing e Meier-Graefe in omaggio alla donna emancipata

di Sergio Bertolami

22 – La Maison de l’Art Nouveau e La Maison Moderne

Nel loro Journal (1851-1870) i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, avevano annotato più volte notizie riguardanti le proprie collezioni di stampe orientali. Vi si legge: «Tutto ciò che [i giapponesi] fanno è prendere da ciò che osservano. Loro rappresentano quanto vedono: l’effetto incredibile del cielo, le strisce su di un fungo, la trasparenza di una medusa». Trentacinque anni più tardi l’idea si conservava ancora intatta. Scriveva Peter Altemberger su Ver Sacrum: «I giapponesi dipingono un ramo fiorito ed è tutta la primavera. Da noi si dipinge tutta la primavera e ne esce appena un ramo fiorito». L’influenza esotica aveva fortemente contrassegnato le creazioni delle industrie artistiche francesi: bronzi, ceramiche, cristalli, mobili, tessuti, carte da parati. Persino le sculture rispecchiavano il nuovo gusto. L’accademico Alexandre Falguière aveva, infatti, rappresentato L’Asia in stile giapponese. Era una delle sei statue realizzate per la serie I sei Continenti all’Esposizione Universale di Parigi del 1878. Tutti i grandi atelier artistici avevano preso in prestito dai giapponesi i motivi esotici: nelle opere di alta oreficeria di Bouilhet o di Christofle, nei gioielli di lusso di Falize, nei raffinati cristalli di Baccarat. Questo esotismo di espandeva anche fuori di Francia: negli Stati Uniti a New York con i gioielli di Tiffany, in Inghilterra a Worcester con la porcellana “bone china ”, in Belgio a La Louvière con le ceramiche Boch Frères.

Panorama dell’esposizione universale del 1878

Bing fece di meglio. Basta riassumere brevemente il suo percorso, per rendersi conto. Aveva preso il controllo degli affari parigini di famiglia subito dopo la guerra franco-prussiana e per rinsaldare la posizione aveva anche ottenuto la cittadinanza francese nel 1876. Il suo primo contatto con l’arte giapponese come collezionista si può datare intorno al 1860; la commercializzazione vera e propria fu avviata negli anni Settanta dell’Ottocento; l’apertura del negozio in rue Chauchut coincise con l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878; il primo viaggio in Giappone nel 1880 gli permise di acquisire arte giapponese, sia antica che contemporanea. Sappiamo bene che alcuni commercianti – come Madame de Soye per La Porte Chinoise – si accontentavano di scegliere la propria merce orientale fra quanto regolarmente era scaricato nei porti francesi. Altri, invece, come i fratelli Sichel (Auguste, Philippe e Otto), ad esempio, passavano diversi mesi nel lontano arcipelago per stringere contratti d’affari ed ottenere prodotti migliori e più vari. Ma nessuno come Siegfried Bing era riuscito a stabilire rapporti commerciali con i collezionisti privati giapponesi di antichità, le cui aziende erano ancora fuori dalla portata degli stranieri. Per questo aprì uffici a Yokohama e Kobe, e ciò gli permise di espandere le proprie vendite d’arte giapponese anche ai musei, in Francia e all’estero. Questi rapporti diretti permisero di pubblicare fra maggio 1888 ed aprile 1891 un elegante mensilmente in tre lingue, Le Japon artistique, sottotitolato Document d’art et d’industrie.

Le Japon artistique

A chi si rivolgeva questo nuovo periodico? È Bing stesso a precisarlo: «Si rivolge in particolare alle tante persone che, a qualsiasi titolo, sono interessate al futuro delle nostre arti industriali, in particolare a voi, modesti lavoratori o grandi manifatturieri, che avete un ruolo attivo in questa parte della nostra forza produttiva. Nelle nuove formule artistiche che ci sono arrivate dalla costa più estrema dell’Estremo Oriente, dobbiamo cercare qualcosa di più di un piacere platonico [che tanto interessa] i nostri dilettanti dall’umore contemplativo. Vi troveremo esempi degni a tutti gli effetti di essere seguiti, non certo per scuotere le basi del nostro vecchio edificio estetico, ma per arrivare ad aggiungere una forza in più a tutte quelle di cui per secoli ci siamo appropriati per sostenere il nostro genio nazionale». Tuttavia, occorreva esprimere una predilezione tra i tanti modelli che si erano fatti strada negli ultimi anni in Europa: «Tra questi modelli, dovremo ora scegliere quelli che, con il sapore della terra, si uniscono anche alla bellezza eclettica che non ha patria; un’attenzione particolare dovrebbe essere data ai soggetti che si adatteranno senza sforzo alle esigenze e ai costumi della nostra cultura occidentale, evitando tutto ciò che servirebbe semplicemente a provocare peccati ciechi o pastiche umilianti […] I nostri produttori sono troppo saggi per lasciare inutilizzata una tale abbondanza di risorse preziose, e tra disegnatori industriali e illustratori di libri, tra architetti e decoratori, produttori di carta da parati o fantasia, tra stampatori di tessuti e tessitori di seta, ceramisti, bronzieri e orafi, come finalmente tra tutta la folla di operai impiegati in un centinaio di piccole industrie, non ce n’è uno che non troverà proficua consultazione da una raccolta di documenti che riassume il lavoro di diverse generazioni di valorosi artisti». Il ragionamento di Bing si innestava sensatamente nell’arte del suo tempo: se l’eclettismo aveva carattere universale, perché «la beauté éclectique n’a pas de patrie», allora anche dalla cultura giapponese si potevano cogliere i frutti giusti.

Manifesto della mostra del 1899 curata da Bing alla Grafton Gallery di Londra

L’appello di Bing non rimase inascoltato. Molte delle grandi Maison dell’epoca si rivolsero al naturalismo del “filo d’erba” d’ispirazione giapponese, tralasciando le artificiose composizioni floreali di bouquet e ghirlande in Stile secondo Impero. Ecco, dunque, le nuove produzioni in vetro di Gallé o Lalique, i gioielli di Henri Vever, le porcellane di Limoges di Robert Haviland o quelle di Sèvres, i vasi di Tiffany a New York. Ma in quell’appello Bing stava delineando anche il suo futuro impegno personale. Poteva, infatti, spingere al massimo i propri interessi, verso una nuova visione dell’arte, facendo affidamento su di una straordinaria rete di colleghi ed amici, giovani e anziani, francesi, belgi, tedeschi. Il viaggio di Bing a Bruxelles nel 1893, in compagnia dello scrittore e critico Meier-Graefe, per incontrare l’artista van de Velde permise di definire i presupposti per la creazione della nuova galleria Art Nouveau. Il viaggio negli Stati Uniti nel 1894, dove conobbe Louis Comfort Tiffany, confermò che il sogno fino ad allora serbato doveva essere intrapreso. Meier-Graefe apparteneva ad una generazione più giovane della sua, per questo agì come un interprete delle nuove idee, quando insieme decisero che per raggiungere un vasto pubblico occorreva modernizzare gli interni delle case contemporanee, rendendole pratiche, quanto esteticamente gradevoli.

Maison Bing, di proprietà di Siegfried Bing, al 22 di rue de Provence, all’angolo di rue Chauchat, costruito nel 1895 da Louis Bonnier e distrutto nel 1922.

Il progetto si concretizzò nel 1895, allestendo La Maison de l’Art nouveau, al n. 22 di rue de Provence, appena voltato l’angolo di rue Chauchat dove al n.19 riscuoteva successo con la sua arte giapponese. In occasione del primo Salon dell’Art Nouveau, nel 1896, Meier-Graefe pubblicò non meno di tre articoli per la rivista Das Atelier su ciò che visse in prima persona nella nuova galleria d’arte. Bing aveva invitato artisti di tutta Europa a presentare opere, commissionò un manifesto all’artista svizzero Félix Vallotton e chiese all’artista belga Georges Lemmen di realizzare una stampa per la quale lui stesso chiarì quali fossero i suoi obiettivi estetici: «L’Art Nouveau si sforzerà di eliminare ciò che è brutto e pretenzioso in tutte le cose che attualmente ci circondano per donare il gusto perfetto, il fascino e la bellezza naturale, anche agli oggetti utilitari meno importanti».

Pubblicità pubblicata nel 1895 sulla rivista d’arte Pan
Ingresso alla Maison Art Nouveau al 22 rue de Provence a Parigi nel 1895.

Henry van de Velde progettò la maggior parte degli interni del negozio, mentre Tiffany & Co. spedì i suoi vetri policromi per le finestre e i pannelli decorativi. La galleria di Bing presentava intere stanze allestite nel nuovo stile Art Nouveau ed esponeva tessuti disegnati da William Morris e mobili di Georges de Feure. Nulla fu lasciato al caso, rinnovando il preesistente edificio e l’azienda. Meier-Graefe su Das Atelier, commentò le varie novità, in particolare l’importanza delle innovazioni che caratterizzavano le stanze. Il negozio esponeva non più singoli oggetti d’arte, ma varie tipologie d’interni, che Bing aveva commissionato all’architetto belga. Sottolineò l’impatto estetico della sala da pranzo e delle stanze più piccole posizionate su entrambi i lati. Un elogio particolare lo riservò ai vetri di Tiffany, che a suo avviso avevano superato il Sol Levante: «Qui, il Giappone è per la prima volta sconfitto, tutte le sue ceramiche non hanno minimamente questa meravigliosa, chiara magia di colore […] qui il colore viene fuori puro e con la massima audacia». Con queste parole Meier-Graefe esaltava il ruolo di Bing quale mecenate delle nuove arti. Questa era ormai la nuova linea d’azione, perché agli inizi del 1898, Bing prese seriamente in considerazione di aprire, a supporto del negozio, anche un suo atelier, come aveva fatto Louis Comfort Tiffany in America e molti altri che lavoravano in Europa. Bing decise di assumere validi progettisti ed artigiani che sapevano realizzare progetti conformi alla sua visione, in modo da discostarsi dal semplice ruolo di importatore, di commerciante, di promotore di opere create da artisti di vari paesi e di varie convinzioni, per arrivare a definire una concezione unitaria, totale, che si accordasse alle proprie idee riguardo al design moderno della casa. Bing lanciò i suoi atelier alla fine del 1898.

Planimetria della Maison Bing con i due ingressi da rue Chauchat e da rue de Provence

La data precisa d’inizio dei laboratori Art Nouveau è difficile da stabilire. Gabriel P. Weisberg (Redesigning The home, Bing’s art nouveau workshops) ci informa che nel 1897 Bing stava predisponendo cornici, specchi e vari altri oggetti utili per la casa, facendo rilevare che i disegni erano in fase di completamento nei propri atelier. In altri documenti comparivano richieste per forniture di tappeti, carta da parati, compresa una serie coordinata di mobili disegnata da Henry van de Velde. Alcuni di questi primi modelli sono documentati in un album fotografico che Marcel Bing (suo figlio) ha donato al Musée des Arts décoratifs di Parigi, nel 1908. Per ospitare i laboratori, Siegfried Bing ottenne di sopraelevare la preesistente costruzione, e una volta conclusi i lavori non perse tempo nel pubblicizzare le manifatture su La Revue Illustrée. Diverse foto e grafici nell’articolo mostrano gruppi di designer, ebanisti e gioiellieri, concentrati nel lavoro. Tuttavia, come indicato dalle planimetrie del terzo piano, nonostante la ristrutturazione, le officine non erano poi così grandi da ospitare troppi artigiani. Quindi, intorno al 1899-1900, per fare fronte alla ricchezza di idee dei giovani progettisti, Bing iniziò ad affidare a sempre più aziende esterne le realizzazioni.

Atelier di progettazione

Con i suoi laboratori d’arte bene organizzati e con gli accordi stretti con le principali aziende produttrici di tessuti e ceramiche, Bing e l’amico Meier-Graefe, nel 1899 si resero presto conto di avere aperto un nuovo mercato. Anche il negozio di Meier Graefe, La Maison Moderne, sempre a Parigi, fu aperto nel 1899, a settembre. Rispondeva all’esigenza di soddisfare una clientela più giovane rispetto a quella di Bing. Ambedue erano contrari agli interni tradizionali strapieni di cianfrusaglie. Annotava Meier-Graefe: «Il gusto moderno odia tutto ciò che sembra bric-à-brac, che soffoca in questo interminabile bric-à-brac, che ha caratterizzato le case parigine durante il Secondo Impero […] Il gusto moderno guarda prima di tutto allo spazio; preferisce la luce, l’aria e il colore». Il colore, appunto, era diventato il fattore determinante nella creazione di un senso di unità nella decorazione degli interni. D’altra parte, lo scopo delle case era di viverci, e per questo motivo avrebbero dovevano trasmettere la qualità della presenza artistica. Gli oggetti, utili o decorativi, avrebbero dovuto essere realizzati dalla mano di un artista, non dalla macchina. Né più né meno di quanto avveniva in Giappone, dove l’oggetto più semplice, utilizzato in casa, metteva in mostra qualità artistiche. Era tutto questo una sorta di marketing ante litteram, uno specifico programma propagandistico rivolto alle donne moderne, alla quali era demandata la guida della casa. Ecco perché i manifesti che pubblicizzavano questi due negozi si incentravano su di una nuova figura femminile. Non una donna fatale, ma una donna vestita in modo elegante, moderna, capace di esprimere emancipazione e seduzione nel contempo, una musa ispiratrice delle varie arti innovative come la ceramica, il vetro, i tessuti, i mobili.

Maurice Biais, La Maison Moderne, ca. 1901-02. Manifesto. Parigi, Musée de la Publicité

Quando nel 1900 Bing si trovò a promuovere in modo influente la Maison de l’Art nouveau all’Exposition Universelle all’Esplanade des Invalides, era giunto il momento ineguagliabile per affermare le nuove idee. «Doveva dimostrare visivamente di aver capito che le donne, specialmente le donne alla moda, erano quelle che avrebbero avuto i mezzi per riempire le loro case con i mobili, gli oggetti d’arte, le sculture e i dipinti, che vendeva nella sua galleria. Natura e Giappone, quegli aspetti che Bing aveva utilizzato nelle precedenti campagne pubblicitarie, si combinavano in queste immagini con la nuova donna che era diventata l’icona dell’epoca della Belle Epoque» (Gabriel P. Weisberg).

Pubblicità del negozio di Bing all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Con le stampe esotiche artisti e pubblico si appassionano per l’arte giapponese

di Sergio Bertolami

21 – Il Giapponismo nella seconda metà dell’Ottocento.

L’Art Nouveau è sostanzialmente legata alle arti dell’Estremo Oriente, che nella seconda metà dell’Ottocento tornarono ad incidere sulle inclinazioni degli artisti e del pubblico più ampio. Non perché dal secolo XVIII – durante il quale avevano profondamente sedotto le élite – erano state poi sprezzate o disconosciute, ma perché in verità erano ormai del tutto cadute nell’oblio. Quello che però sarà chiamato Giapponismo non è mutuato soltanto da un fatto di gusto estetico, ma ha diretti riscontri politici ed economici. La riscoperta prese avvio, infatti, con la Convenzione di Kanagawa, un trattato di amicizia e pace tra Giappone e Stati Uniti, sottoscritto il 31 marzo 1854. Un trattato che mise fine a due secoli di isolazionismo e alla nascita dell’Impero nipponico. Dal 1641, infatti, solo le navi cinesi e quelle olandesi della Compagnia delle Indie orientali avevano diritto di approdare in un unico porto giapponese, Nagasaki. Per la precisione a Dejima (letteralmente isola d’uscita), una piccola piattaforma artificiale a ventaglio, appositamente costruita all’ingresso della città portuale. Fino ad allora solo pochi prodotti, nonostante i divieti di esportazione, riuscivano a filtrare in Europa. I servizi in porcellana o gli opuscoli illustrati e le xilografie giapponesi, per il loro costo eccessivo, erano acquistabili soltanto dalla ristretta cerchia aristocratica. Ora, invece, il trattato rompeva, a tutti gli effetti, le maglie di un ferreo isolamento che durava da duecento anni. Per la verità, il trattato aveva per oggetto il salvataggio marittimo e non il libero scambio commerciale. Era stato imposto al Giappone sotto la minaccia di cannoneggiamenti da parte della Marina statunitense, in seguito ai maltrattamenti subiti dagli equipaggi balenieri americani naufragati al largo della costa nipponica. Vi si specificava chiaramente: «Il porto di Simoda [Yedo], nel principato di Idzu, e il porto di Hakodade, nel principato di Matsmai [Hokkaido], sono concessi dai giapponesi come porti per l’accoglienza delle navi americane, dove potranno essere rifornite con legna, acqua, provviste, carbone e altri articoli di loro necessità, da richiedere secondo le disponibilità giapponesi». Per assolvere ai compiti di accoglienza dei naufraghi – salvati lungo le coste e successivamente trasferiti nei porti di Simoda e di Hakodade – furono nominati, dal Governo degli Stati Uniti, consoli ed agenti. Per quella che fu considerata un’ingerenza esterna, il trattato divenne causa di gravi conflitti politici interni. Ne conseguì una guerra civile, risolta soltanto nel 1869 con la restaurazione del potere imperiale Meiji e la fine dello shogunato Tokugawa. L’accordo fu seguito da analoghe convenzioni, questa volta commerciali, con gli Stati Uniti ed anche con Inghilterra, Francia, Russia e naturalmente Olanda. Volendo richiamare un fatto già detto in precedenza, ecco il motivo per cui nel 1870 Martin Michael Bair, cognato di Siegfried Bing, fu nominato console nella nuova capitale, che da Edo (entrata della baia) trasformò il nome in Tokyo (capitale d’Oriente). La strada della modernizzazione si stava aprendo anche nel lontano arcipelago.

Mappa illustrata di Nagasaki Maruyama Okyo, Nagasaki Museum of History and Culture Collection

Con questo avvio di libero scambio commerciale fra Oriente ed Occidente, manufatti giapponesi cominciarono a circolare in Europa in maniera più cospicua, finendo col comparire persino nelle vetrine e sui banchi dei negozi di curiosità. Le “giapponeserie” si diffusero come nel secolo precedente avevano fatto le “cineserie”. In questo caso la mania per tutto ciò che era insolito e raro, raffinato e suggestivo, iniziò con la raccolta di porcellane, lacche, piccole sculture e bronzi, sete, kimoni, soprattutto stampe Ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante) dei grandi maestri Hokusai, Hiroshige, Utamaro, Kunisada, Eisen. Giunsero anche i Mangwa (immagini casuali), album di schizzi a tema. Si racconta che Félix Bracquemond, interessato più che mai alla tecnica dell’incisione, fu forse il primo artista parigino a prendere spunto dall’arte giapponese, riproponendo quelle esotiche figure su di un servizio di porcellana, decorato nel 1867 per Eugene Rousseau. Fu, infatti, nella bottega del suo stampatore, Auguste Delâtre, al 171 di rue Saint-Jacques, che nel 1856 trovò un Mangwa di Katsushika Hokusai. Le sue pagine erano servite casualmente ad avvolgere la spedizione di fragili porcellane. Riproducevano gli schizzi sparsi che il pittore aveva catturato col suo pennello: paesaggi, uccelli, animali, piante ed alberi, scene di vita quotidiana. Il minuscolo fascicolo, che Delâtre aveva ricomposto da quei fogli, produsse un’impressione vivissima in Bracquemond. Riuscì ad acquisirlo soltanto un paio d’anni dopo, grazie ad uno scambio con delle incisioni di Eugène Lavieille che conservava. Bracquemond ne fece quasi un breviario. Portava quel libretto di schizzi in tasca e lo mostrava a tutti, per giudicare dalla sorpresa degli interlocutori l’ammirazione e la curiosità che suscitava.

Hokusai manga vol.15

A giugno del 1862 il pittore si unì con un gruppo di giovani artisti alla Société des aquafortistes, fondata dall’editore Alfred Cadart con la collaborazione dello stesso tipografo Delâtre. L’associazione voleva rinnovare il modo di produrre le incisioni moderne. Sempre nel 1862, si aprì anche La Porte Chinoise al 220 di rue de Rivoli, vicino al Louvre. Una boutique di paccottiglia orientale condotta da Madame De Soye, che fece crescere l’entusiasmo. Qualche nome dei suoi clienti? Whistler e Fantin-Latour, i Goncourts e Baudelaires, Bracquemond e Millet, Manet, Degas, Monet, Zola, Champfleury, e si potrebbe continuare. Baudelaire scriveva a sua madre: «Ho ricevuto un pacco di giapponeserie, le ho condivise con alcuni amici». Un visitatore dello studio di Whistler riferiva ad un amico: «Qui, sono quasi in paradiso. Crederesti di essere stato a Nagasaki o al Palazzo d’Estate, Cina, Giappone, è splendido». L’inglese Dante Gabriel Rossetti, mentre cercava articoli giapponesi a Parigi, venne a sapere che «tutti i costumi erano acquistati da un artista francese, Tissot, che sembra stia facendo tre quadri giapponesi, descritti a me dalla proprietaria del negozio come le tre meraviglie del mondo».

James Tissot, La Japonaise au bain (c.1865 ), Musée de Dijon, Francia. 
 

Il gusto per l’arte giapponese era inizialmente limitato ai circoli ristretti di intenditori, letterati e artisti. Fu l’Esposizione Universale del 1867 a diffondere davvero questa attrazione, dedicando ampi spazi all’Estremo Oriente. Col prorompere del gusto, nacque anche il termine Japonisme, coniato dall’incisore Philippe Burty nel 1873. All’inaugurazione dell’Esposizione, fra le tante cronache, si poteva leggere di tutto. Ad esempio, un pezzo che rendeva noto di un artista della Maison Christofle che aveva avuto l’idea di applicare lo stile di decorazione giapponese ai gioielli di oreficeria, ai flaconi, alle scatole di caramelle. In un altro articolo si leggeva che il gioielliere Martz aveva ideato degli smalti orientali, traendo ispirazione da alcuni album di Hokusai, Toyokuni e Kuniyoshi che si era procurato. Bracquemond, il quale rivendicava il merito di aver “scoperto” il primo libro illustrato proveniente dal Giappone – e non era chiaramente il primo –, fondò “Jinglar” un’associazione che mensilmente si riuniva a cena chez Solon, ovvero dal direttore della Manifattura di Sèvres. Tra i proseliti del nuovo gusto c’erano Zacharie Astruc, Fantin-Latour, Philippe Burty, l’incisore Jacquemard. In questi incontri mangiavano riso con le bacchette; spegnevano i sigari in posacenere orientali; tutto era ispirato al Giappone, compreso il servizio da tavolo inciso da Bracquemond. Jules de Goncourt terminava una lettera a Philippe Burty inneggiando: «Japonaiserie for ever». Dal canto suo anche Edmond de Goncourt, nei suoi scritti, rivendicava per sé e suo fratello il primato di questo interesse verso il Sol Levante. Dal momento che Edmond non visitò mai l’Estremo Oriente, le sue osservazioni evidentemente si basavano sulle opere d’arte che studiava e che raccoglieva in una interessante collezione privata. Poteva pure contare sui giapponesi che incontrava a Parigi. Fra questi, Hayashi Tadamasa, un commerciante che, stabilitosi a Parigi, è oggi riconosciuto come figura importante per l’importazione e diffusione dell’arte e della cultura giapponese in Europa. Nel 1878, in occasione dell’Esposizione Universale di quell’anno, Tadamasa era giunto a Parigi al seguito del mercante e antiquario Kenzaburô Wakaï, per il quale faceva da venditore e interprete. Presentò porcellane i cui prezzi si quadruplicarono in un batter d’occhio.

The Kiryu Kosho Kaisya Standing Industry and Trading Company (1873-1891)

L’allestimento di una fattoria giapponese sembrava essere una delle “meraviglie della mostra” e la Kiryo Kosho Kaisha, rifornì di merci il padiglione giapponese. Le finalità di quella che rappresentava la prima società di produzione e commercio giapponese erano esplicite: «La nostra azienda, Kiriu Kosho Kuwaisha, è stata fondata con lo scopo di incoraggiare le industrie giapponesi e promuoverne la massima perfezione possibile». Tadamasa rimase a Parigi, dapprima per vendere la merce restante alla chiusura dell’Esposizione, ma finì con aprire un negozio e così diventò, con Siegfried Bing, uno dei migliori mercanti d’arte giapponese a Parigi. Da lui acquistavano i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, le voci più entusiaste verso il Giapponismo. Non furono probabilmente i primi a comprendere le raffinatezze di quest’arte esotica, ma Edmond – Jules era scomparso nel 1870 – espresse in due pubblicazioni la sua passione: nel 1891, pubblicò la prima monografia storica su Kitagawa Utamaro, seguita nel 1896 da un’altra monografia su Katsushika Hokusai.

Ospiti a una cena annuale della London Japan Society, 1900. Fotografia. (Fonte Japan Society, Londra)
Biglietto d’invito che annuncia una conferenza di Siegfried Bing alla Japan Society di Londra (Fonte Japan Society, Londra)

Bing propose Edmond de Goncourt per l’ingresso alla The Japan Society di Londra, il 10 marzo 1893, anche se, in verità, il loro rapporto era spesso teso, a causa dell’idea di Edmond di ritenersi il principale fautore dell’arte giapponese in Francia, quasi l’esperto assoluto. Si accapigliavano in strenui dibattiti riguardo ad alcuni passi del libro su Hokusai. Fin dall’inizio delle attività di Bing come negoziante d’arte, Goncourt era comunque un suo assiduo frequentatore. Dal momento che Bing ne riconosceva la fama di scrittore, con uno schietto impegno di lunga data riguardo al Giappone, pensò bene di candidarlo come socio della prestigiosa Società londinese.

A sinistra: Hiroshige, Cento vedute di Edo, n. 30, Pruneraie à Kameido (1857), a destra: Van Gogh, Japonerie. Plum Blossoms (1887), Museo Van Gogh, Amsterdam.

Qualche anno fa, lo storico Jean Chesneaux – esperto di Asia orientale – si rammaricava che analogamente al Giappone di oggigiorno che ha preso in prestito le nostre arti meccaniche, la nostra arte militare, le nostre scienze, così gli europei dell’Ottocento ghermivano le arti decorative giapponesi. «Non era più una moda, era un’infatuazione, una follia». Chesneaux, in verità, stigmatizzava soprattutto l’imitazione volgare. Questo perché le opere giapponesi conquistavano anche i dilettanti, si allargavano sempre più nel gusto popolare, inquietando il mondo della cultura. Dal 1878 al 1895 l’ossessione continuò ad espandersi. Tuttavia, fra gli specialisti iniziarono le prime ricerche sistematiche: l’inglese W. Anderson nel 1879 e 1886, Théodore Duret nel 1882, Louis Gonse nel 1883, Madsen nel 1885 e naturalmente Edmond de Goncourt negli anni Novanta. Questo per dire delle pubblicazioni e non dilungarsi sulle mostre. Giova però citarne qualcuna. Nel 1887, una piccola vetrina a Parigi fu dedicata alle sole stampe giapponesi. Al caffè Le Tambourin di avenue de Clichy, la organizzò uno sconosciuto olandese, Vincent Van Gogh, che passò inosservato. Era completamente irretito da quelle stampe, che ne comprò centinaia. In una lettera da Arles del 15 Luglio 1888 Vincent esortava il fratello Théo ad acquistare xilografie nella galleria di Siegfried Bing, con la quale aveva un conto aperto: «Ti prego conserva il deposito di Bing, i vantaggi sono troppo grandi».

Exposition de la Gravure Japonaise (Mostra di stampe giapponesi) di Jules Chéret, Chaix et Malherbe 1890. Dalle collezioni dei musei de Young e Legion of Honor di San Francisco, CA.

Nel 1888 Bing stesso offrì all’ammirazione del pubblico, nel suo negozio, centosessanta pezzi della sua “meravigliosa collezione”. Ma le mostre si ripeterono ancora, perché due anni dopo, una superba retrospettiva storica ebbe luogo addirittura nella sede ufficiale della cultura accademica francese. In tale circostanza, Mary Cassatt, statunitense, scriveva a Berthe Morisot, ambedue pittrici impressioniste: «Devi vedere le stampe giapponesi. Vieni appena puoi all’École des Beaux-Arts». L’ampia presentazione era stata organizzata proprio da Siegfried Bing, e fu particolarmente significativa sia per il numero degli esemplari – vi erano presentate più di 700 stampe – che per la qualità degli espositori. Georges Clemenceau, futuro primo ministro, era tra questi. Nonostante l’impegno culturale, le Japoneries si trovavano ormai dappertutto. Anche nei bazar. La merce scadente aveva invaso i banchi dei grandi magazzini: il Petit Saint-Thomas aveva preso a diffonderla in provincia. Siegfried Bing, da quell’abile uomo di affari qual era, vide il pericolo in tempo. Trasformando La Maison Bing, mise a segno il suo ennesimo successo. La rinnovata galleria d’arte si chiamò L’Art Nouveau.

Il padiglione giapponese Midori no Sato

Poco si sa del primissimo padiglione giapponese fondato in Francia (1886), quello del giardino di Hugues Krafft chiamato Midori no Sato, scomparso pochi decenni fa. Gli scavi effettuati nel sito ci hanno permesso di trovare le fondamenta del padiglione e di tentarne la ricostruzione.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Siegfried Bing, il mercante d’arte che sapeva fare rete fra Oriente ed Occidente

di Sergio Bertolami

20 – Il ruolo di Bing a sostegno delle arti applicate

Ho parlato di Arthur Lasenby Liberty e non posso trascurare Siegfried Bing. A cercare due notizie su di lui, troverete che era un mercante di nascita tedesca, un editore ed anche un mecenate. Proveniva da una ricca famiglia ebrea di Amburgo. Suo padre era da principio un decoratore di ceramiche, poi divenne anche produttore. Suo figlio, Marcel Bing, un talentuoso disegnatore di gioielli in stile Art Nouveau. Troverete anche che il grande successo di Bing fu aprire un negozio di artigianato orientale a Parigi alla fine degli anni Settanta del XIX secolo, che trasformò nel 1895, battezzandolo Art Nouveau. Con questo nome identificò una corrente artistica che oggi tutti conoscono. Pochi sanno, però, che dal momento della sua morte, a settembre del 1905, un velo oscurò ciò che era noto a molti fino a quel momento. Si tornò a parlare di lui solo quando negli anni Sessanta del Novecento un rinnovato interesse portò di nuovo all’attenzione le arti decorative e, con queste, soprattutto l’Art Nouveau. Questo protagonista eccellente era talmente uscito di scena, che qualcuno, leggendo “S. Bing”, confuse persino il suo nome di battesimo Siegfried con Samuel. Mi piacerebbe soffermarmi a lungo sulla sua figura; come, ad esempio, avrei preferito non essermi limitato a qualche accenno su Paul Cassirer e suo cugino Bruno Cassirer, i quali come ricorderete promossero, con la propria galleria d’arte e la propria casa editrice, la Secessione di Berlino. Bing, tedesco come loro, mercante come loro, s’interessò a diffondere, invece, la sensibilità per un Oriente fino ad allora sconosciuto nella sua vera essenza. Dette vita alla fine del 1880 a un periodico mensile, Le Japon artistique, e organizzò una serie di mostre sull’arte giapponese, con ceramiche e stampe ukiyo-e. Chi, al suo tempo, parlava di Siegfried Bing lo descriveva come un apprezzato esteta; il suo atteggiamento rifletteva eleganza, cultura, capacità di appassionare ad esotici oggetti di qualità.

Manifesto per la Maison de l’Art Nouveau (museo delle arti decorative, Parigi)

Julius Meier-Graefe, il noto critico tedesco – che quale amichevole concorrente tentò la strada del commercio, aprendo anche lui a Parigi La Maison Moderne, una galleria che esponeva opere Art Nouveau – scriveva di Bing: «Tutti pensavano alla sua figura delicata, con una mente da intellettuale parigino. Parlava e scriveva un francese classico, evitando tutte quelle frasi fiorite da boulevard. Aveva i modi educati di un marchese dei vecchi tempi, che trascorreva i momenti di libertà a caccia di bon mot nella sua biblioteca. Difficilmente gli si sarebbe attribuita l’eccezionale energia di un ricercatore, né tanto meno quella di un commerciante. Eppure, Bing era entrambe le cose. Ecco perché una parte sostanziale dell’inizio della conquista intellettuale del Giappone è dovuta a lui». Bing in verità era un uomo d’affari, ma colto e raffinato come pochi, soave e persuasivo verso i suoi clienti. Aveva compreso come per avere successo occorresse, anziché seguire l’opinione pubblica, allontanarsene quanto più possibile. L’arte giapponese fu lo stimolo creativo, oltre che commerciale, per Bing, ma anche per lo stesso Julius Meier-Graefe oppure – giusto per citarne uno solo – per Henri Vever, il più famoso gioielliere degli inizi del Novecento, che aveva un negozio proprio di fronte a quello di Bing. Utilizzando volantini che invitavano alle mostre, allestendo ambientazioni in stile che esponevano le preziose collezioni, diffondendo cataloghi ricchi di immagini, e tanti altri mezzi promozionali, come le pubbliche conferenze alla Japan Society di Londra di cui era socio, Siegfried Bing rese tangibile ai suoi contemporanei il nuovo gusto estetico che si stava diffondendo in Occidente. All’epoca in cui tutto questo si materializzò Bing aveva pochi concorrenti disposti ad investire la propria reputazione e una considerevole fortuna nella ricerca pioneristica di nuove forme d’arte. A Londra abbiamo seguito le “avventure” commerciali di William Morris o di Arthur Lasenby Liberty, ma fu il negozio di Bing a fare sprizzare il movimento Art Nouveau in ambito internazionale.

Siegfried Bing

Naturalmente – come vale sempre per i visionari e i precursori – l’attività di Bing fu derisa dalla stampa francese, che chiedeva il motivo per cui non esibisse la produzione artistica europea anziché proporre l’arte esotica. Ma Bing era convinto, sapeva cosa fare, giacché nel commercio era cresciuto. Suo padre Jacob era comproprietario, con Samuel Joseph Renner, della Bing Gebrüder, un’azienda fondata ad Amburgo per importare porcellana e vetro francesi e che rimarrà attiva fino al 1888. I soci si erano divise le responsabilità: Renner operava ad Amburgo e Jacob a Parigi, a partire pressappoco dal 1850; per cui ben presto, finiti gli studi, i figli Siegfried, Michael e più tardi Auguste, raggiunsero la famiglia a Parigi ed entrarono in azienda. Nel 1854, Jacob acquistò una modesta manifattura a St. Genou, un piccolo centro della Valle della Loira, per la produzione di oggetti in porcellana, spinto dal rapido aumento del commercio import-export di articoli pregiati. Con l’acquisizione, arrivò anche un brevetto per la cottura della porcellana dura in un forno a carbone, innovazione particolarmente efficiente per i tempi, aumentando la produzione dell’azienda. Quando però nel 1863 le spese superarono le entrate, la manifattura fu venduta. Il venticinquenne Siegfried Bing rilevò gli interessi di famiglia e acquisì azioni della Leullier fils una nuova manifattura di porcellana operante nel mercato locale. Avrebbe rifornito il negozio di famiglia in rue Martel a Parigi, fiorente nella vendita di porcellane e vetri artistici ad una clientela benestante. Padre e fratelli continuarono a gestire il punto vendita, mentre Siegfried, con questo suo ingresso nella manifattura Leullier, intraprese la sua ascesa. La produzione industriale incrementò e si distinse, così da essere premiata alle Esposizioni per l’eccellenza artistica di alcune delle sue creazioni. Erano quelli gli anni del regime bonapartista di Napoleone III, la Francia competeva con altre nazioni europee, in particolar modo con l’Inghilterra, nella fabbricazione di articoli di lusso, rinomati per le qualità estetiche e l’alto valore commerciale. Leullier fils produceva e decorava servizi in porcellana, ma realizzava anche lampadari e altri complementi d’arredamento per impreziosire le abitazioni di una borghesia rampante. Un set da tavola vinse persino una medaglia all’Esposizione Universale di Parigi del 1867. A maggio 1868 Jacob Bing morì, ma come da calendario a luglio Siegfried sposò Johanna Baer, una cugina di terzo grado, di famiglia ricca, colta e ben consolidata ad Amburgo. La coppia si trasferì a Parigi, al 31 di rue de Dunkerque, in prossimità degli uffici Leullier.

Exposition Universelle Paris, Porcellane Leullier Fils & Bing Incisione del 1867. 

Tuttavia, la stagione propizia era al volgere. Le nubi avverse delle crisi finanziarie del Secondo Impero e soprattutto la guerra franco-prussiana (1870-1871) avrebbero potuto rovesciare le fortune di Bing, per via della sua origine tedesca e degli stretti legami familiari con la Germania. Tuttavia, grazie all’abilità d’imprenditore, nonostante le avversità riuscì a rafforzare la propria immagine. Dopo avere trascorso a Bruxelles il periodo del pesante assedio prussiano di Parigi, Bing rientrando nella capitale dopo la resa trovò la Leullier in scompiglio. La maggior parte dei suoi dipendenti arruolati nell’esercito e il commercio delle arti decorative completamente crollato. Con una città prostrata dai lutti e dalla fame, caseggiati distrutti dai cannoneggiamenti, le persone erano preoccupate della sussistenza piuttosto che del lusso. Come se non bastasse la tragedia colpì la famiglia Bing. Il fratello di Siegfried, Michael, morì a febbraio del 1873 e il terzogenito della coppia, nato a maggio, morì due mesi dopo. Come può accadere nei momenti di crisi, c’è chi si lascia abbattere e chi invece trova la forza morale di affrontare e capovolgere la realtà. Bing, per primo, s’impegnò a mantenere attiva la manifattura di porcellana, evitando licenziamenti e stabilendo relazioni con diversi importatori stranieri. Quindi, richiese ed ottenne la cittadinanza francese. Era un passo dovuto. Non doveva essere facile per un imprenditore tedesco riavviare l’attività commerciale in una città straziata dalla guerra contro i prussiani. Nella sua domanda di naturalizzazione del 1876 si presentava come un candidato devoto alla Francia quale paese di adozione; di nascita tedesca, ma residente in terra francese da ventidue anni ininterrotti; senza alcun coinvolgimento in politica, ma interessato soltanto agli affari e alla famiglia, senza interessi diretti nel suo paese d’origine. Nonostante tutto, la Bing Gebrüder era ancora attiva e alla morte di Michael l’intera gestione ricadde su Siegfried, l’unico della famiglia Bing a trovarsi stabilmente in Francia.

Da sinistra: Siegfried Bing, Louis Gonse, Mme Roujon, Emmanuel Gonse e Mme Gonse a Midori-no-sato, 1899. Fotografia. Reims, Musée Le Vergeur, Société des Amis du Vieux Reims, Archivi Hugues Krafft

È precisamente in questi anni che Siegfried Bing cominciò ad interessarsi di arte orientale e a collezionare oggetti ceramici di raffinata fattura. Dal momento che era pur sempre un uomo d’affari, con una forte propensione per le arti decorative, si può dire che seppe fiutare il mercato che lo indirizzava quasi naturalmente a soddisfare la mania dei parigini per le curiosità giapponesi. Questo, almeno, è quanto si legge riguardo ad un uomo particolarmente riservato. Scrive Gabriel P. Weisberg, il suo maggiore biografo: «Sempre discreto, Bing era piuttosto ossessivo riguardo alla decisione di nascondere la propria identità; solo poche persone conoscevano le sue collezioni private, e ancor meno sapevano qualcosa della sua vita personale. Per lui, l’opera d’arte che difendeva – fosse giapponese o, più tardi, una sua versione Art Nouveau – era la sola cosa più importante; il suo ego, e la vita, dovevano essere sublimati, addirittura eliminati». Ci sono, tuttavia, alcuni fatti particolari che vanno presi in considerazione. A partire dal 1870 il cognato di Bing, Martin Michael Bair, ricoprì per due mandati (1870-74 e 1877-81) l’incarico di console a Tokyo. La sua posizione gli permetteva di intrattenere rapporti con l’alta società giapponese e apprezzare le migliori raccolte d’arte private. Da buon collezionista, acquistò articoli selezionati, non solo per sé stesso, ma anche per Bing.  Nella sua qualità favorì lo sviluppo di relazioni commerciali, come nel caso della Ahrens and Company, società di import-export, che aveva uffici a Yokohama, Tokyo e Londra. Fatto sta che nel 1874 Siegfried Bing era già diventato un collezionista abbastanza conosciuto da essere invitato a unirsi alla Società dell’Asia orientale di Tokyo. Nel marzo del 1876 organizzò, inoltre, la sua prima esposizione pubblica all’Hotel Drouot, la più grande casa d’aste parigina, nota per le belle arti, l’antiquariato e le antichità. La vendita gli fruttò oltre 11.000 franchi, e questo suggerisce che all’epoca avesse già raccolto una buona collezione di oggetti esotici da proporre alla sua platea di acquirenti. «Questa vendita – annota Gabriel P. Weisberg – presentò anche il primo record del suo pubblico coinvolgimento in questo mercato».

Henry Somm, Fantaisies Japonaises, S. Bing, Rue Chauchat, incisione del 1879 circa

La mania viscerale dei parigini per l’arte giapponese trovò ampio sfogo due anni dopo, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1878. L’enorme padiglione giapponese ospitò, nel corso dell’evento, campioni e dimostrazioni pratiche riguardanti l’arte e l’industria. I numerosi visitatori furono avvinti dagli aspetti della vita e della cultura del Sol Levante, resi espliciti da una dovizia di notizie su ogni luogo specifico e su ogni tecnica adottata dagli artisti e dagli artigiani, che fosse ceramica o bronzo. Siegfried Bing, naturalmente, non si lasciò sfuggire l’occasione, perché programmò l’apertura del suo nuovo negozio, al 19 di rue Chauchat, in coincidenza con l’apertura dell’Esposizione e del suo ricercatissimo padiglione giapponese. Non è necessario rimarcare che ebbe un grande successo, tanto da ripagare l’investimento iniziale e permettergli nel giro di quattro anni di acquistare definitivamente i locali. Era giunto ormai il tempo per Siegfried Bing di stabilire legami diretti con i giapponesi e organizzare il suo primo viaggio in Estremo Oriente, che immancabilmente ebbe luogo nel 1880.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Storia del negozio che ha identificato l’Art Nouveau in Italia

di Sergio Bertolami

19 – Arthur Lasenby Liberty seguace di William Morris

Le trasformazioni artistiche o letterarie sono quasi sempre lente, mai lineari, né assolute. Neppure sotto il profilo temporale, per cui leggere su qualche testo che lo Stile Liberty ebbe inizio nel 1890 dovrebbe far sorgere qualche comprensibile dubbio. Questo perché, se il termine Liberty fu usato in Italia in riferimento ai magazzini londinesi di Arthur Lasenby Liberty, occorrerebbe considerare anche che tali magazzini furono aperti nel 1875. Ancora prima di Liberty, fu William Morris a ideare the Firm nel 1861, influenzato dalle idee di Augustus Pugin e John Ruskin che occorresse contrastare il pressappochismo dell’industria nascente e tornare all’artigianato e al lavoro manuale degli artisti medievali. Non erano che influssi di un radicato romanticismo. Riflettiamo, però, che erano anche gli anni in cui si cominciavano a brevettare le prime “carrozze a vapore”, quelle che noi chiamiamo automobili, per farle circolare sulle strade comuni e non solo su strade ferrate. Al contrario William Morris avrebbe voluto piantare una bella frenata all’industria nascente. Fondò la confraternita dei Preraffaelliti e con alcuni di questi – Burne-Jones, Rossetti, Webb, Ford Madox Brown, Charles Faulkner e Peter Paul Marshall ­– aprì la sua impresa per produrre artigianalmente carte da parati, tessuti chintz (quelli che in Francia s’imporranno col nome di toile de Jouy), tappeti, piuttosto che mobili, vetri o metalli. Il tutto con la speranza di ripristinare la decorazione, quale una delle belle arti. Nondimeno, a ben riflettere, l’opera di Morris non si identificò in tutto e per tutto con la storia della sua ditta commerciale. Più che da imprenditore, in quanto critico d’arte, pubblicista, pittore, decoratore e grafico, fu il tenace assertore di alcune idee che ritroveremo sempre più mature nel corso della prima metà del Novecento. Fra tutte: la diffusione di manufatti semplici e corretti in un mercato in evoluzione soggetto invece alla routine meccanicistica del tempo, la distinzione degli elementi strutturali e dei materiali, una produzione che premiasse le competenze tecniche ed estetiche degli artigiani manifatturieri. Sono questi alcuni dei principi ideali, che ritroveremo nella coscienza critica della moderna rivoluzione artistica, della quale sto provando ad accennare sommariamente il percorso.

Uno dei cataloghi della società di William Morris
The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra

Arthur Lasenby Liberty non era lontano dalle idee di William Morris e dal suo movimento delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri); ma, differentemente da lui, non demonizzava affatto la meccanizzazione in ascesa. Questo fu l’elemento che lo portò al successo, perché non aveva soltanto gusto, ma anche il fiuto negli affari. Non appena i porti giapponesi ripresero a commerciare con l’Occidente, dal 1853, in Europa si diffuse una considerevole varietà di prodotti fino ad allora conosciuti da pochi estimatori. Tra questi, sete, porcellane, ventagli e kimono, stampe da blocchi di legno in stile Ukiyo-e. «Il desiderio di possedere oggetti giapponesi – scriveva Christopher Dresser, tra i maggiori interpreti del movimento di Morris – si diffuse con l’apertura dell’Esposizione Internazionale del 1862, e di lì a breve i nostri commercianti iniziarono ad interessarsi alla produzione di questi strani oggetti come articoli commerciali». Nel 1874, dopo oltre una decina d’anni di servizio presso la Farmer & Rogers, al rifiuto di essere nominato partner della fiorente attività alla quale aveva contribuito, Arthur Lasenby Liberty decise di aprire un esercizio commerciale in proprio. Si fece prestare poco più di 2.000 sterline dal futuro suocero e affittò solo mezzo negozio al n° 218 di Regent Street, nel nascente West End di Londra. Il negozietto del trentaduenne Liberty mostrava già dall’insegna East India House (Casa dell’India orientale) che vi si vendevano articoli d’importazione, come sete d’arredamento, tappezzerie, oggetti decorativi e d’arte, provenienti dalle Indie, dal Giappone e dall’Estremo Oriente. Non passarono che diciotto mesi, per essere in grado di rimborsare il prestito e acquisire pure la seconda metà del magazzino di Regent Street. Fu così anche per gli anni successivi, perché man mano che l’attività cresceva, continuò ad acquistate e aggiungere, di proprietà in proprietà, anche i locali attigui. Le idee non mancavano. Sostenitore di un design conveniente in quanto a prezzo, ma distintivo per la qualità, non solo importava articoli, ma si rivolgeva anche a piccoli industriali per produrre mobili, articoli per la casa e tessuti pregiati. Strinse accordi per commercializzare tessuti prodotti in serie limitate, abbattendo i prezzi di vendita rispetto a quelli tradizionalmente fatti a mano. Per questo motivo, Liberty prese a pubblicare, dal 1881, cataloghi che presentavano sete pregevoli per varietà di colore, stampa e peso. I Liberty Art Fabrics divennero largamente ricercati ed imitati. I coloranti all’anilina, usati nella filiera industriale, in questi tessuti d’arte artigianali furono scartati a favore dei coloranti naturali; furono, inoltre, enfatizzate la classicità dei disegni e l’irregolarità della tessitura, che evidenziavano la produzione artigianale. Le sete Mysore di Liberty, per esempio, erano tessute a mano in India, prima di essere tinte e stampate a mano in Inghilterra, e infine promosse come «riproduzioni esatte di antiche stampe indiane».

Arthur Lasenby Liberty ritratto da Arthur Hacker (1913)

Nel 1884 Liberty introdusse il reparto “costume”, diretto da Edward William Godwin, rinomato architetto e fondatore della The Costume Society. Insieme crearono capi di abbigliamento per sfidare la concorrenziale moda parigina. L’anno successivo acquisì anche i locali di Regent Street al n°142-144 per soddisfare la crescente domanda di tappeti e mobili. Il seminterrato fu riorganizzato per dare vita al Bazar Orientale, con ampia esposizione di oggetti d’arredo decorativi. Il negozio divenne il ritrovo di Londra dove incontrarsi per fare gli acquisti alla moda, il luogo in cui vedere ed essere visti, dove s’incontravano uomini e donne dal gusto raffinato ed anche personaggi importanti. Qualificavano il negozio, all’attenzione del pubblico, scrittori di grido come Oscar Wilde o artisti ammirati come il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, alla ricerca di sete per drappeggiare le modelle dei suoi dipinti. A novembre del 1885, Liberty – con l’evidente obiettivo di promuovere il suo settore di oggetti d’antiquariato e curiosità orientali – mise in scena un “villaggio vivente” con quarantacinque abitanti fatti venire da un vero villaggio indiano. «Saranno impegnati solo per quattro ore di lavoro al giorno, e dovranno esibirsi in tutte le attrazioni di Londra» precisava The Times of India. Agli uomini erano offerte 75 rupie al mese, 25 alle donne, per sei mesi di presentazioni nel villaggio allestito da Liberty, con la possibilità di un rinnovo dei contratti, un pubblico di alta qualità – persino la regina Vittoria – e l’aspettativa di ricevere mance da parte degli spettatori. Fu il primo dei bellissimi set giapponesi, francesi, inglesi, messi in scena nel corso degli anni. l’Illustrated London News elogiava: «Presenta in un piccolo spazio una varietà di industrie indù tipiche, ed è popolata da quarantacinque indigeni provenienti da diversi distretti dell’India, di diverse caste e credo. Entrando nel villaggio, le cui case sono rappresentazioni accurate dell’architettura indiana, lo sguardo viene catturato dai colori variegati e brillanti dei tessuti e dei costumi orientali». Una mescolanza di culture indiane che lasciavano le pagine dei periodici illustrati per comparire, grazie a personaggi in carne e ossa, nel negozio del signor Liberty: ballerini, acrobati, musicisti, lottatori, prestigiatori, soprattutto filatori di seta, tessitori, intagliatori di legno di sandalo, ricamatori, orafi e argentieri. Un artigiano costruiva davanti agli spettatori il suo sitar, un grande liuto indiano da suonarsi con un plettro. «Una delle occupazioni più interessanti – descriveva ancora l’Illustrated London News – è quella del vasaio, che, con la sua ruota di tipo antico e le sue dita, plasma una varietà di articoli di bella simmetria, anche se di semplice carattere».

East India House, negozio di Arthur Lasenby Liberty su Regent Street

A partire dagli anni Novanta, Liberty incentivò il lavoro di artisti e artigiani come Christopher Dresser, Rex Silver, Frederickl James Patridge, Richard Lethaby. Fra questi, Birmingham William Hassler e il famoso Archibald Knox erano specializzati argentieri. Le influenze degli stili suscitati dalle Arts and Crafts non tardarono ad imporsi e a svilupparsi. È, infatti, tra le fila di questo movimento che troviamo i primi artisti Art Nouveau. Fra di loro si svilupperà quell’interesse per la natura, quel gusto floreale, che contraddistinse ovunque gli artisti dell’Art Nouveau. Non meraviglia, dunque, se persino oltre Oceano il New York Mail decantava: «Vaghi per le numerose stanze del loro grande magazzino come in un sogno incantato». Un sogno che si riverberò in Italia quando nel 1902 aprì i battenti la grande Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna di Torino. La Mostra «antesignana sempre di ogni idea di Libertà e Progresso» fu espressamente progettata in chiave moderna. Il suo scopo era esplicito sin dalle notifiche iniziali: «Saranno ammessi solo prodotti originali che mostrano una decisa tendenza al rinnovamento estetico della forma. Non saranno accettate mere imitazioni di stili passati, né prodotti industriali non ispirati da un senso artistico». Alla Esposizione d’Arte Decorativa si aggiunsero altre mostre particolari. Una Esposizione Internazionale di Automobili: la FIAT era stata fondata tre anni prima ed esponeva, fra l’altro, un’automobile che percorse i 847 chilometri della linea Torino-Firenze-Roma in un tempo eccezionale: 21,30 ore consecutive. Una Mostra di Fotografie artistiche e l’Esposizione Quadriennale di Belle Arti. Tutte queste Esposizioni, come specificava il catalogo, trovarono posto nello stesso recinto situato nel vastissimo Parco del Valentino, sulla sponda sinistra del Po.

Manifesto dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902), di Leonardo Bistolfi

Nella stessa pagina di apertura del catalogo è possibile leggere: «Spiriti rivoluzionari, menti di poeti, male si adattano gli Artisti alle viete forme che li obbligano a copiare, mentre in essi innato è l’istinto del creare. E non mancava certo ragione alla loro aspirazione. Ogni età ebbe il suo stile, manifestazione e prova della civiltà che rappresenta, così abbiamo lo stile Egiziano, il Greco, il Cristianesimo, il Rinascimento, il Barocco ed il Napoleonico, rappresentanti tutti una evoluzione del pensiero adatto a civiltà dei tempi in cui si esplicava e veniva creato. A ragione dunque essi anelavano dare un’impronta propria allo stile dell’età presente. Spontaneamente, dalle più variate regioni, innumeri Artisti esplicavano il loro pensiero rappresentandolo con lavori che diedero certo segno che i tempi erano maturi per una ardita innovazione». Per incoraggiare questa grande rivoluzione moderna, il compito di allestire una Esposizione unitaria fu affidato al «bravissimo D’Aronco, architetto del Sultano di Turchia». Raimondo D’Aronco, che aveva sempre alternato la progettazione con l’insegnamento – prima all’Accademia di Carrara, poi a Cuneo, a Palermo, e infine all’Università di Messina – dal 1893 lavorava in Turchia, dove, in seguito al terremoto di Istanbul del 1894, fu architetto-capo per la ricostruzione della città. Con i padiglioni per l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, contribuì alla diffusione della popolarità dell’Art Nouveau in Italia. Del suo lavoro, scrive Pieter van Wesemael (in Architecture of Instruction and Delight) che nella storia delle Esposizioni universali, l’unica mostra dedicata esclusivamente a un solo stile artistico fu proprio quella di Torino, segnando il successo dell’Art Nouveau in Italia. O meglio dell’arte Liberty come da noi fu chiamata quest’Arte Nuova.

Guida dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
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Naturalmente nel catalogo della Mostra torinese non si parla di un’arte la cui risonanza deve ancora esplodere fra il largo pubblico. Né si fa il nome di Arthur Lasenby Liberty, giacché non si elencano gli espositori commerciali, ma soltanto i padiglioni nazionali e la rassegna delle opere d’arte ufficiali. Proviamo a dare un’occhiata, scoprendo quali erano gli interessi del tempo, i personaggi in vista, le opere poste all’attenzione. Comprenderemo che ogni epoca ha i propri miti, allora come oggi: «A sinistra l’ingresso alle altre sale della Mostra inglese. Esaminiamo in questa prima sala i disegni, libri, giornali illustrati, caricature, ecc., di Walter Crane.
La seconda sala, intitolata alla The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra, è divisa in dieci ambienti, cinque per parte.
Notiamo nel primo ambiente a destra una lampada da parete per elettricità. Il pavone che vi vediamo è in argento smaltato, e due scrivanie di Ashbee e di Guild. I quadri sono di Southalt.
Nel primo ambiente di sinistra osserviamo un paravento sul quale R. Moton-Nance dipinse le tre caravelle di Cristoforo Colombo. Vi si trova pure una vetrina con gioielli smaltati, bottiglie e coppe di cristallo inciso di Jaïmes Powel.
Nel terzo ambiente, a sinistra, sta esposto un arazzo, le Quattro Stagioni, di William Morris; questo lavoro venne incominciato nel 1834 e terminato nel 1896. Nel terzo ambiente, a destra, la Essec and C. Y. di Westminster espone tappezzerie. Vi è pure il disegno per grande arazzo, dipinto da Brangwyn.
Nel quarto ambiente a sinistra troviamo vetrine con lavori in cuoio (rilegature di libri) e con la mostra di composizioni tipografiche della Libreria Hacou e Richelts di Londra.
Nella corsia della sala osserviamo una vetrina con Lavori decorativi in metallo della ditta W. A. S. Benson e C. di Londra.
Una statua in bronzo di W. R. Colton, rappresentante un trovatore di mummie.
Nella terza sala, a sinistra, esaminiamo due quadri: La nascita di Venere ed I conquistatori del mondo, entrambi di Walter Grane; a destra esamineremo vari progetti-disegni per vetrate a colori e tappezzerie. Nell’ultima sala Walter Grane espone Studi di fiori, acquerelli e disegni».

Tavole fotografiche sull’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay