di Sergio Bertolami
22 – La Maison de l’Art Nouveau e La Maison Moderne
Nel loro Journal (1851-1870) i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, avevano annotato più volte notizie riguardanti le proprie collezioni di stampe orientali. Vi si legge: «Tutto ciò che [i giapponesi] fanno è prendere da ciò che osservano. Loro rappresentano quanto vedono: l’effetto incredibile del cielo, le strisce su di un fungo, la trasparenza di una medusa». Trentacinque anni più tardi l’idea si conservava ancora intatta. Scriveva Peter Altemberger su Ver Sacrum: «I giapponesi dipingono un ramo fiorito ed è tutta la primavera. Da noi si dipinge tutta la primavera e ne esce appena un ramo fiorito». L’influenza esotica aveva fortemente contrassegnato le creazioni delle industrie artistiche francesi: bronzi, ceramiche, cristalli, mobili, tessuti, carte da parati. Persino le sculture rispecchiavano il nuovo gusto. L’accademico Alexandre Falguière aveva, infatti, rappresentato L’Asia in stile giapponese. Era una delle sei statue realizzate per la serie I sei Continenti all’Esposizione Universale di Parigi del 1878. Tutti i grandi atelier artistici avevano preso in prestito dai giapponesi i motivi esotici: nelle opere di alta oreficeria di Bouilhet o di Christofle, nei gioielli di lusso di Falize, nei raffinati cristalli di Baccarat. Questo esotismo di espandeva anche fuori di Francia: negli Stati Uniti a New York con i gioielli di Tiffany, in Inghilterra a Worcester con la porcellana “bone china ”, in Belgio a La Louvière con le ceramiche Boch Frères.
Bing fece di meglio. Basta riassumere brevemente il suo percorso, per rendersi conto. Aveva preso il controllo degli affari parigini di famiglia subito dopo la guerra franco-prussiana e per rinsaldare la posizione aveva anche ottenuto la cittadinanza francese nel 1876. Il suo primo contatto con l’arte giapponese come collezionista si può datare intorno al 1860; la commercializzazione vera e propria fu avviata negli anni Settanta dell’Ottocento; l’apertura del negozio in rue Chauchut coincise con l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878; il primo viaggio in Giappone nel 1880 gli permise di acquisire arte giapponese, sia antica che contemporanea. Sappiamo bene che alcuni commercianti – come Madame de Soye per La Porte Chinoise – si accontentavano di scegliere la propria merce orientale fra quanto regolarmente era scaricato nei porti francesi. Altri, invece, come i fratelli Sichel (Auguste, Philippe e Otto), ad esempio, passavano diversi mesi nel lontano arcipelago per stringere contratti d’affari ed ottenere prodotti migliori e più vari. Ma nessuno come Siegfried Bing era riuscito a stabilire rapporti commerciali con i collezionisti privati giapponesi di antichità, le cui aziende erano ancora fuori dalla portata degli stranieri. Per questo aprì uffici a Yokohama e Kobe, e ciò gli permise di espandere le proprie vendite d’arte giapponese anche ai musei, in Francia e all’estero. Questi rapporti diretti permisero di pubblicare fra maggio 1888 ed aprile 1891 un elegante mensilmente in tre lingue, Le Japon artistique, sottotitolato Document d’art et d’industrie.
A chi si rivolgeva questo nuovo periodico? È Bing stesso a precisarlo: «Si rivolge in particolare alle tante persone che, a qualsiasi titolo, sono interessate al futuro delle nostre arti industriali, in particolare a voi, modesti lavoratori o grandi manifatturieri, che avete un ruolo attivo in questa parte della nostra forza produttiva. Nelle nuove formule artistiche che ci sono arrivate dalla costa più estrema dell’Estremo Oriente, dobbiamo cercare qualcosa di più di un piacere platonico [che tanto interessa] i nostri dilettanti dall’umore contemplativo. Vi troveremo esempi degni a tutti gli effetti di essere seguiti, non certo per scuotere le basi del nostro vecchio edificio estetico, ma per arrivare ad aggiungere una forza in più a tutte quelle di cui per secoli ci siamo appropriati per sostenere il nostro genio nazionale». Tuttavia, occorreva esprimere una predilezione tra i tanti modelli che si erano fatti strada negli ultimi anni in Europa: «Tra questi modelli, dovremo ora scegliere quelli che, con il sapore della terra, si uniscono anche alla bellezza eclettica che non ha patria; un’attenzione particolare dovrebbe essere data ai soggetti che si adatteranno senza sforzo alle esigenze e ai costumi della nostra cultura occidentale, evitando tutto ciò che servirebbe semplicemente a provocare peccati ciechi o pastiche umilianti […] I nostri produttori sono troppo saggi per lasciare inutilizzata una tale abbondanza di risorse preziose, e tra disegnatori industriali e illustratori di libri, tra architetti e decoratori, produttori di carta da parati o fantasia, tra stampatori di tessuti e tessitori di seta, ceramisti, bronzieri e orafi, come finalmente tra tutta la folla di operai impiegati in un centinaio di piccole industrie, non ce n’è uno che non troverà proficua consultazione da una raccolta di documenti che riassume il lavoro di diverse generazioni di valorosi artisti». Il ragionamento di Bing si innestava sensatamente nell’arte del suo tempo: se l’eclettismo aveva carattere universale, perché «la beauté éclectique n’a pas de patrie», allora anche dalla cultura giapponese si potevano cogliere i frutti giusti.
L’appello di Bing non rimase inascoltato. Molte delle grandi Maison dell’epoca si rivolsero al naturalismo del “filo d’erba” d’ispirazione giapponese, tralasciando le artificiose composizioni floreali di bouquet e ghirlande in Stile secondo Impero. Ecco, dunque, le nuove produzioni in vetro di Gallé o Lalique, i gioielli di Henri Vever, le porcellane di Limoges di Robert Haviland o quelle di Sèvres, i vasi di Tiffany a New York. Ma in quell’appello Bing stava delineando anche il suo futuro impegno personale. Poteva, infatti, spingere al massimo i propri interessi, verso una nuova visione dell’arte, facendo affidamento su di una straordinaria rete di colleghi ed amici, giovani e anziani, francesi, belgi, tedeschi. Il viaggio di Bing a Bruxelles nel 1893, in compagnia dello scrittore e critico Meier-Graefe, per incontrare l’artista van de Velde permise di definire i presupposti per la creazione della nuova galleria Art Nouveau. Il viaggio negli Stati Uniti nel 1894, dove conobbe Louis Comfort Tiffany, confermò che il sogno fino ad allora serbato doveva essere intrapreso. Meier-Graefe apparteneva ad una generazione più giovane della sua, per questo agì come un interprete delle nuove idee, quando insieme decisero che per raggiungere un vasto pubblico occorreva modernizzare gli interni delle case contemporanee, rendendole pratiche, quanto esteticamente gradevoli.
Il progetto si concretizzò nel 1895, allestendo La Maison de l’Art nouveau, al n. 22 di rue de Provence, appena voltato l’angolo di rue Chauchat dove al n.19 riscuoteva successo con la sua arte giapponese. In occasione del primo Salon dell’Art Nouveau, nel 1896, Meier-Graefe pubblicò non meno di tre articoli per la rivista Das Atelier su ciò che visse in prima persona nella nuova galleria d’arte. Bing aveva invitato artisti di tutta Europa a presentare opere, commissionò un manifesto all’artista svizzero Félix Vallotton e chiese all’artista belga Georges Lemmen di realizzare una stampa per la quale lui stesso chiarì quali fossero i suoi obiettivi estetici: «L’Art Nouveau si sforzerà di eliminare ciò che è brutto e pretenzioso in tutte le cose che attualmente ci circondano per donare il gusto perfetto, il fascino e la bellezza naturale, anche agli oggetti utilitari meno importanti».
Henry van de Velde progettò la maggior parte degli interni del negozio, mentre Tiffany & Co. spedì i suoi vetri policromi per le finestre e i pannelli decorativi. La galleria di Bing presentava intere stanze allestite nel nuovo stile Art Nouveau ed esponeva tessuti disegnati da William Morris e mobili di Georges de Feure. Nulla fu lasciato al caso, rinnovando il preesistente edificio e l’azienda. Meier-Graefe su Das Atelier, commentò le varie novità, in particolare l’importanza delle innovazioni che caratterizzavano le stanze. Il negozio esponeva non più singoli oggetti d’arte, ma varie tipologie d’interni, che Bing aveva commissionato all’architetto belga. Sottolineò l’impatto estetico della sala da pranzo e delle stanze più piccole posizionate su entrambi i lati. Un elogio particolare lo riservò ai vetri di Tiffany, che a suo avviso avevano superato il Sol Levante: «Qui, il Giappone è per la prima volta sconfitto, tutte le sue ceramiche non hanno minimamente questa meravigliosa, chiara magia di colore […] qui il colore viene fuori puro e con la massima audacia». Con queste parole Meier-Graefe esaltava il ruolo di Bing quale mecenate delle nuove arti. Questa era ormai la nuova linea d’azione, perché agli inizi del 1898, Bing prese seriamente in considerazione di aprire, a supporto del negozio, anche un suo atelier, come aveva fatto Louis Comfort Tiffany in America e molti altri che lavoravano in Europa. Bing decise di assumere validi progettisti ed artigiani che sapevano realizzare progetti conformi alla sua visione, in modo da discostarsi dal semplice ruolo di importatore, di commerciante, di promotore di opere create da artisti di vari paesi e di varie convinzioni, per arrivare a definire una concezione unitaria, totale, che si accordasse alle proprie idee riguardo al design moderno della casa. Bing lanciò i suoi atelier alla fine del 1898.
La data precisa d’inizio dei laboratori Art Nouveau è difficile da stabilire. Gabriel P. Weisberg (Redesigning The home, Bing’s art nouveau workshops) ci informa che nel 1897 Bing stava predisponendo cornici, specchi e vari altri oggetti utili per la casa, facendo rilevare che i disegni erano in fase di completamento nei propri atelier. In altri documenti comparivano richieste per forniture di tappeti, carta da parati, compresa una serie coordinata di mobili disegnata da Henry van de Velde. Alcuni di questi primi modelli sono documentati in un album fotografico che Marcel Bing (suo figlio) ha donato al Musée des Arts décoratifs di Parigi, nel 1908. Per ospitare i laboratori, Siegfried Bing ottenne di sopraelevare la preesistente costruzione, e una volta conclusi i lavori non perse tempo nel pubblicizzare le manifatture su La Revue Illustrée. Diverse foto e grafici nell’articolo mostrano gruppi di designer, ebanisti e gioiellieri, concentrati nel lavoro. Tuttavia, come indicato dalle planimetrie del terzo piano, nonostante la ristrutturazione, le officine non erano poi così grandi da ospitare troppi artigiani. Quindi, intorno al 1899-1900, per fare fronte alla ricchezza di idee dei giovani progettisti, Bing iniziò ad affidare a sempre più aziende esterne le realizzazioni.
Con i suoi laboratori d’arte bene organizzati e con gli accordi stretti con le principali aziende produttrici di tessuti e ceramiche, Bing e l’amico Meier-Graefe, nel 1899 si resero presto conto di avere aperto un nuovo mercato. Anche il negozio di Meier Graefe, La Maison Moderne, sempre a Parigi, fu aperto nel 1899, a settembre. Rispondeva all’esigenza di soddisfare una clientela più giovane rispetto a quella di Bing. Ambedue erano contrari agli interni tradizionali strapieni di cianfrusaglie. Annotava Meier-Graefe: «Il gusto moderno odia tutto ciò che sembra bric-à-brac, che soffoca in questo interminabile bric-à-brac, che ha caratterizzato le case parigine durante il Secondo Impero […] Il gusto moderno guarda prima di tutto allo spazio; preferisce la luce, l’aria e il colore». Il colore, appunto, era diventato il fattore determinante nella creazione di un senso di unità nella decorazione degli interni. D’altra parte, lo scopo delle case era di viverci, e per questo motivo avrebbero dovevano trasmettere la qualità della presenza artistica. Gli oggetti, utili o decorativi, avrebbero dovuto essere realizzati dalla mano di un artista, non dalla macchina. Né più né meno di quanto avveniva in Giappone, dove l’oggetto più semplice, utilizzato in casa, metteva in mostra qualità artistiche. Era tutto questo una sorta di marketing ante litteram, uno specifico programma propagandistico rivolto alle donne moderne, alla quali era demandata la guida della casa. Ecco perché i manifesti che pubblicizzavano questi due negozi si incentravano su di una nuova figura femminile. Non una donna fatale, ma una donna vestita in modo elegante, moderna, capace di esprimere emancipazione e seduzione nel contempo, una musa ispiratrice delle varie arti innovative come la ceramica, il vetro, i tessuti, i mobili.
Quando nel 1900 Bing si trovò a promuovere in modo influente la Maison de l’Art nouveau all’Exposition Universelle all’Esplanade des Invalides, era giunto il momento ineguagliabile per affermare le nuove idee. «Doveva dimostrare visivamente di aver capito che le donne, specialmente le donne alla moda, erano quelle che avrebbero avuto i mezzi per riempire le loro case con i mobili, gli oggetti d’arte, le sculture e i dipinti, che vendeva nella sua galleria. Natura e Giappone, quegli aspetti che Bing aveva utilizzato nelle precedenti campagne pubblicitarie, si combinavano in queste immagini con la nuova donna che era diventata l’icona dell’epoca della Belle Epoque» (Gabriel P. Weisberg).
IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay