16 – Rasi, damaschi, velluti, terzarelli, baratti, spichetti, taffettà

Dove professore ed allieva finiscono la conversazione in un ristorante. Parlano dell’alimentazione dell’epoca, di cosa mangiava l’apprendista Escamare e che lavoro svolgeva nella bottega di Vitello. Discutono dei Capitoli dell’Arte della seta concessi a Messina da Carlo V e giungono alla conclusione che Vitello, entrando a far parte del Consolato dell’Arte, abbia acquisito i diritti di libero cittadino così da avviare una bottega per esercitare la tessitura e la mercatura. Nonostante le difficoltà iniziali, due anni dopo il suo arrivo a Messina, lo troviamo di nuovo al lavoro. Alcune domande nascono spontanee: cosa è avvenuto in quest’intervallo di tempo e, soprattutto, chi lo ha aiutato?

Ritrovava in quell’allieva l’entusiasmo della propria giovinezza. Non che fosse anziano; anzi si poteva dire il contrario, ammirato e forse un po’ invidiato per quel suo bell’aspetto, proprio di chi ha l’apparenza di tornare giovane, nonostante gli anni verdi si allontanino sempre più. A ben pensare con quell’allieva sentiva di condividere predilezioni radicate, che valicavano il semplice rapporto accademico. Con lei poteva discutere intensamente di quegli argomenti che contribuivano a dare un valore alla sua vita. Per questo le aveva suggerito di continuare la conversazione a tavola. Non il solito fast food, perché il professore passava per un raffinato gourmand che amava condividere la sua passione con rare persone. Per lui il cibo, in porzioni moderate e di eccellente qualità, esprimeva la gioia dei sapori e dei saperi. Sarà stato, quindi, per il nome del ristorante, Arte della seta, o per la spontaneità della proposta, fatto sta che ora sedevano uno di fronte all’altra e analizzavano scrupolosamente il menù.
«Ha notato come sia impossibile trovare del pollo in un ristorante, se non da Mc Donald’s?».
«Potremmo rivolgerci a donna Paula», ribatté la ragazza confidenzialmente.
«Fuori di battuta, posso dire che nei documenti siciliani troviamo la prima menzione di polli verso la fine del quindicesimo secolo. Uno di questi riguardava il pasto degli ufficiali di una galea. Altri due, intorno al 1570, a Palermo, si riferivano alla casa di un ricco mercante genovese e a un ospedale…».
«Cosa possiamo dedurre?», gli fece il verso la ragazza.
Il professore sorrise, perché immancabilmente, anche scegliendo un piatto, prima che il cameriere si avvicinasse a prendere l’ordinazione, era riuscito a divagare, richiamandosi ai propri interessi di studioso.
«Se ne deduce… che i polli d’allevamento erano rari, pertanto destinati a una cerchia ristretta. Persino quando si confezionavano le imbottiture di cuscini e coperte, difficilmente si adoperavano le piume dei polli. E questo è comprensibile, se consideriamo l’uso più frequente di cacciagione».
«Il nostro Messer Minicu, quindi, vendeva in città e in provincia una carne più delicata della selvaggina?».
«Era acquistata non soltanto dai signori; ma in circostanze particolari un po’ da tutti: per l’alimentazione dei piccoli, degli anziani, degli ammalati…».
«Quale piatto avrei ordinato all’epoca, in cambio del pollo?», domandò divertita la ragazza.
«Nelle locande, nelle taverne, di cui ho consultato qualche contratto, è possibile riscontrare alimenti semplici: pane, olive, formaggio, tonno salato, sardine in salamoia. Era possibile trovarli anche negli spacci, dove si commerciavano quasi esclusivamente sementi e foraggi. Difficilmente avremmo potuto richiedere, viceversa, questi ottimi maccheroni, già noti in epoca normanna. Naturalmente intendo parlare della pasta secca, utilizzata specialmente come articolo d’esportazione di lusso e che viaggiava per nave confezionata in barili…
Gli atti notarili non parlano invece delle tagliatelle, oppure della lagana citata già da Orazio, fogli sottili di pasta solitamente fritta o bollita, da cui derivano le nostre lasagne. Il motivo è semplice: la pasta fresca era preparata esclusivamente in casa e non poteva essere esportata senza che andasse a male.
Oggigiorno si sente discutere frequentemente di cultura del cibo, ma spesso si fa riferimento al Settecento o all’Ottocento: tempi ben più recenti che non quelli di Pellegrina».

La ragazza si guardò intorno. Dal terrazzo fiorito, dove intravvedeva macchie di glicini, penetrava nella sala in penombra il profumo dei gelsomini. Fece notare che quanto espresso poteva valere anche per quell’ambiente intimo ed elegante, arredato come una confortevole sala da pranzo in stile secondo impero: pareti rosso antico, pavimenti colorati in graniglia di marmo, ricche tende con mantovane, pendenti, voiles. Gli stessi tovagliati deliziosi, in rasatello damascato di differenti colorazioni, i pizzi e i merletti che ricoprivano ripiani e vetrine illuminate, si richiamavano nell’intenzione più all’eleganza di fine Ottocento che non alla cultura rustica e primitiva dei tempi di Pellegrina.
«Questo ristorante, pur essendo denominato Arte della seta, piuttosto che alla corporazione dei tessitori, è legato alla memoria dei luoghi», commentò il professore. «Si trova, infatti, poco distante dall’antico piano di San Giovanni. Per molto tempo le sete furono spurgate nell’acqua dell’abbeveratoio per gli animali, posto proprio nella piazza prospiciente l’omonima chiesa. Per evitare che i tintori meno accorti recassero danno alla qualità dei loro tessuti, depurandoli nell’acqua salata del porto, fu eretta a spese pubbliche una fontana artistica, sulla quale fu murato un epitaffio in latino che, senza giri di parole, diceva: per pubblica utilità, nel 1578, ci siamo presi cura di costruire la fontana in questo luogo, da usarsi per spurgare la seta».
«Escamare conferma indirettamente che nella bottega di Vitello si praticava non solo la tessitura, ma anche la tintura».
«Cosa glielo fa pensare?».
«Dice di avere sorpreso Pellegrina a bruciare allume. Sappiamo, per altri versi, che i tintori usavano assicurare la presa delle sostanze coloranti immergendo i tessuti in un bagno di acqua alluminosa. L’allume, infatti, era notoriamente un mordente per il fissaggio dei colori. Quando si volevano creare disegni variopinti, si coloravano i filati di seta prima di lavorarli al telaio; al contrario, per ottenere tinte unite, s’impregnavano interi drappi dopo averli tessuti.
Sono rimasta sorpresa dalla quantità di tonalità: color zaffiro, acquamarina, bronzino, color di perla, cremisino, paonazzo, avvinato, color muschio chiaro o scuro, color piombo, incarnato, cerasa, color ponzò, color melanzana…».
«A proposito di melanzane…», fece notare il professore, mostrando il piatto dei contorni, dai toni ricchi di sfumature propri delle verdure di stagione, «…sappiamo che erano conosciute almeno per indicare un colore, ma non le ho mai incontrate nelle descrizioni di orti o giardini. La vita quotidiana in quel tempo, come può osservare, era ben differente dalla nostra. Il garzone Escamare, benché ricevesse vitto e bevande da Nardo Vitello, doveva accontentarsi di pancotto condito con un po’ d’olio, di un minestrone di cavoli oppure di fave e ceci, nel quale ammorbidire del pane raffermo».
«Minestre calde, di fagioli e lenticchie…».
«Le lenticchie non compaiono ancora… Quanto ai fagioli li ho trovati nominati una sola volta, in un orto di Palermo nel 1517. Credo piuttosto che altri alimenti, ormai desueti, come le lumache, avessero una funzione predominante. La selvaggina era invece molto diffusa nelle campagne, così il pesce nelle zone costiere. D’altra parte, cacciare e pescare era liberamente consentito dagli usi civici, e questo permetteva di arricchire la razione quotidiana di verdure. Non dimentichiamo poi i frutti che bastava raccogliere nel bosco, dalle castagne alle pere selvatiche…
Fra i pesci conservati per essiccazione, in primo piano c’è il merluzzo salato dei marinai del Nord, cioè lo stoccafisso… chiamato da noi pescestocco. Anche le sue interiora erano prelibate. Mai mangiati i ventri di pescestocco?
A tutto questo, aggiungiamo i prodotti della pastorizia o quelli dei latifondi cerealicoli… Mi viene in mente Mariano Bonincontro da Palermo, un poeta burlesco vissuto all’inizio del Cinquecento, che fa l’elogio dell’intelligenza di un contadino arricchito, cresciuto a tumi e cuccia. La tuma è quel formaggio fresco non salato, che ancora oggi gustiamo; la cuccìa è una zuppa meno usuale, fatta di frumento, farro… un piatto d’origine pastorale. Mia madre la cucina ancora nella ricorrenza di Santa Lucia».

«Professore, la prego, non mi confonda. Sono tentata di chiederle un nuovo tema di ricerca… questa volta sull’alimentazione nel Cinquecento».
«Potrebbe essere un’idea, ma non ne vedo il motivo, dal momento che ha imboccato la strada giusta per portare a buon fine il lavoro assegnato. Pur essendo tentato di chiederle cosa mangiasse di meno usuale Escamare, a casa di Pellegrina, mi atterrò alla tesi: che lavoro svolgeva nella bottega di Nardo?».
La domanda, pronunciata con fare cortese, spigliato, sembrò quasi una provocazione. La ragazza stette al gioco e non mancò di fornire la giusta risposta, amabilmente, come suo solito:
«Lo dichiara Escamare stesso, quando dice li servia di acatari robba et ayutari ad atacari li fila. In altre parole, aiutava Vitello negli acquisti e faceva esperienza al suo fianco».
Il professore, con un sorriso stampato sulle labbra, pretendeva qualcosa di più. La ragazza non si scoraggiò:
«Per spiegare il lavoro dell’apprendista, occorre chiarire prima quello del maestro. Il tessitore agiva al telaio, intrecciando la serie dei fili d’ordito con la serie dei fili di trama, mantenuti in tensione. Questa operazione, chiamata passata, era seguita dalla battitura con un pettine o un bastone per pressare con uniformità il tessuto.
Nella bottega di Nardo si usava sicuramente un telaio orizzontale. Proprio nel Cinquecento l’introduzione di un pedale permise di alzare meccanicamente i fili dell’ordito e facilitare la passata. Il telaio era fornito di licci, che servivano per le bordure o per la lavorazione di tessuti semplici. C’era anche un secondo apparato per il disegno, grazie al quale si riproduceva lo schema tracciato su di un cartone preparatorio.
Ebbene, stando di fianco al telaio, il garzone Escamare – impegnato come tiralicci – attivava l’apparato per il disegno. Intanto Nardo con i pedali manovrava i licci, mentre con mano agile gettava la spola e batteva la trama».
Aveva parlato senza prendere fiato, intimamente contrariata, per essersi fatta sorprendere da quella domanda inattesa. Il professore, invece, si era divertito ad ascoltarla, comprendendo francamente la sua reazione, che una volta di più comprovava l’ottima opinione che aveva di lei.

Sorseggiava pacatamente un bianco profumato, ottenuto da uve Insolia e Chardonnay. Per ristabilire il clima disteso e gioviale, che involontariamente aveva intaccato, riprese serenamente a disquisire:
«Nell’attività serica era coinvolta la maggior parte delle maestranze locali. La corporazione dei setaioli, dicono le cronache, era la più grande e più numerosa della città e assicurava lavoro a filatori, tessitori, tintori, drappieri. Più l’attività progrediva, maggiore era la richiesta di manodopera, cosicché numerosi erano i maestri e lavoranti che si stabilivano a Messina. Quanti non si sa… ma si può intuire. Dalle 300.000 libbre di seta esportata agli inizi del Cinquecento – attenzione, non in balle, ma filata – nella seconda metà del secolo la produzione era esattamente raddoppiata…».
«È comprensibile», rispose espansiva la giovane. «Dagli inizi del secolo si diffuse l’abitudine di indossare abiti sfarzosi. Vasco de Prada ne parla nella sua Historia economica».
Prese dalla cartella, lasciata ai piedi della sedia, le sue schede e lesse:
«I calzoni, solevano essere di raso e taffettà; al tempo di Filippo II viene introdotto l’uso delle calze di seta; i gilet, di ricchi tessuti, d’oro e argento, di raso o velluto di seta; le giacche interamente di velluto, sia pure senza maniche per valorizzare il gilet; i mantelli allo stesso modo di raso e velluto. I galloni e la passamaneria di seta erano assai usati. Così gli arredi di broccato o damasco, di raso o taffettà, con frange, guarnizione frequente nelle abitazioni nobili e nelle chiese, così come i letti con baldacchini e tendaggi di seta. Adorabile descrizione non le pare?».
L’entusiasmo della ragazza si trasfondeva nell’aspetto smagliante.

«Un discreto lavoro, senza dubbio. Ritengo opportuno, comunque…», rilevò con improvviso tono cattedratico, «che prenda in considerazione anche le norme che nel primo Cinquecento regolavano, a Messina, l’attività della tessitura. Esaminare i Capitoli dell’arte della seta è basilare per comprendere non solo l’organizzazione produttiva, ma anche per quale motivo Vitello preferì proprio Messina ad altre città».
Il professore, senza dubbio, dava l’impressione di essere incontentabile; non per presunzione, ma perché intimamente ormai sapeva che la sua allieva avrebbe risposto in modo pertinente a qualsiasi domanda le avesse rivolto, come effettivamente fece:
«I primi Capitoli dell’arte risalivano al 1493. In una petizione rivolta al viceré si prospettava l’idea d’importare venti telai per tessere velluti, sete nere e sete colorate, e si chiedeva la concessione di una privativa di dieci anni. Fatto importante è che la materia prima, per fare lavorare i venti telai, doveva essere acquistata sul mercato calabrese…».
«Perfetto», commentò il professore. «Ciò si riferisce alla situazione in atto alla fine del Quattrocento, quando le coltivazioni locali non fornivano ancora la quantità di seta necessaria e anche le tecnologie opportune dovevano essere importate. Nel giro di una ventina d’anni, però, queste limitazioni furono superate…».
«Ventisette, per la precisione», rispose la ragazza prontamente. «La produzione serica si sviluppò a tal punto che mercanti e tessitori si riunirono il 2 gennaio 1520 e nominarono tre procuratori con il compito di presentare una nuova petizione. Il viceré Ettore Pignatelli, duca di Monteleone, istituì il Consolato dell’arte della seta e dieci anni dopo i Capitoli furono ratificati da Carlo V».

Tra il professore e la ragazza si era stabilito un ottimo affiatamento, concentrati in un ragionamento fitto e vivace.
«A Messina è conservata l’importante pergamena ufficiale dei Capitoli, firmati in calce dall’imperatore».
«Lo so bene. Ecco qua professore… la trascrizione del testo». Estrasse dalla sua inseparabile cartella un mazzetto di fotocopie, che mostrò con orgoglio. «L’atto risale a cinque anni prima della venuta di Carlo V in Sicilia».
Il professore, ormai non si sorprendeva più di niente. Prese i fogli e cominciò a scorrerli lentamente, con grande interesse.
«Il documento stabiliva che l’arte della seta, come altre corporazioni dell’epoca, avesse un’impronta espressamente religiosa», puntualizzò la ragazza. «Fissava, infatti, che gli organi direttivi fossero eletti alla vigilia del Mezz’agosto, festa dell’Assunzione di Maria Vergine.
Durante la fastosa processione della Vara, dedicata alla Madonna della lettera, patrona della città, tutte le maestranze esponevano solennemente simboli e stendardi. La congregazione della seta si riuniva nel Convento di Sant’Agostino, dove si venerava l’immagine del Santissimo Crocefisso, chiamato anche Volto Santo di Lucca. Fra i mercanti di seta, i lucchesi erano quelli presenti in città da più antica data…».
Quella dissertazione storica avrebbe potuto spingersi fino al pomeriggio. Il cameriere fece cenno, però, che si apprestava la chiusura pomeridiana del ristorante. Il professore preferì sintetizzare i concetti di sostanziale importanza.
«Fra mercanti e maestri erano stabiliti diritti reciproci. I Capitoli prevedevano sanzioni per chi esercitava abusivamente il mestiere: al maestro tessitore era applicata una multa, ma al mercante veniva requisito il drappo…».
«È quello che, con probabilità, accadde a Vitello. A Napoli, non possedendo la qualifica di maestro, fu considerato un mercante abusivo…».
«Di conseguenza non riuscì a vendere i suoi tessuti pregiati, che gli furono requisiti, lasciandolo in un mare di debiti».
Con un cenno della mano, il professore chiese al cameriere il conto; ma non smise di parlare:
«Fondamentale è che ai maestri o ai lavoranti forestieri era permesso iscriversi all’arte della seta di Messina, anche nel caso in cui avessero avuto pene pendenti da scontare nelle terre di provenienza. È scritto esplicitamente nei Capitoli dell’arte» e sottolineò il passo con l’indice: «Vi si dice che, in virtù delle loro competenze, se fossero stati perseguiti nelle Terre di partenza, una volta giunti a Messina, sarebbero stati protetti da qualsivoglia reato, sia civile che penale».
«Una immunità che si presentava a Vitello come una provvidenziale soluzione ai suoi problemi», commentò la ragazza nell’avviarsi all’uscita.
Fuori del locale, il professore, certo di non essere garbatamente interrotto prima di avere espresso il ragionamento per intero, proseguì:
«Alla luce dei fatti, proviamo a sintetizzare. Vitello, durante il periodo trascorso con Donna Paula, si era informato come orientarsi per acquistare materia prima e telai. Pensava d’impiegare lavoranti locali e di istruire garzoni. La presenza a bottega di Escamare lo dimostra. Gli occorreva trovare una sistemazione stabile nel quartiere di San Giovanni, dove si concentravano le botteghe degli appartenenti all’arte. Sappiamo che era stato visto girare in via dei Butari, dove aveva adocchiato un locale… esattamente tra il piano di San Giovanni e l’imbocco della strada dei banchi, cioè dei bancari, nelle vicinanze del porto.
Ciononostante, sebbene avesse capacità ed esperienza lavorativa per ottenere una licenza di maestro tessitore, mancava di sufficiente denaro per l’iscrizione ai Capitoli, e neppure poteva contare sulle protezioni adeguate a superare l’esame selettivo dei consoli dell’arte.
Più di ogni altra cosa, non disponeva di risorse finanziarie da investire per l’avviamento dell’impresa e il proseguimento dell’attività. Nonostante le difficoltà iniziali, due anni dopo il suo arrivo a Messina, lo troviamo di nuovo all’opera. Nasce spontaneo chiedersi: cosa è avvenuto in questo intervallo di tempo e, soprattutto, chi lo ha aiutato?».

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About the author: Sergio Bertolami