Dove Pellegrina si decide a confessare. Fa il nome di quella che un tempo era la sua complice, una greca di nome Catharina, che confezionava amuleti e li nascondeva nelle case. Parla anche di un venditore di ceste che insisteva perché guardasse dentro uno strano disegno che chiamava “gruppo di Salomone”. Ma i giudici non sono soddisfatti e intimano a Pellegrina di dire tutta la verità, essendo informati su ben altre cose. Lei nega. Alla fine, le fanno la seconda ammonizione ed è condotta di nuovo in carcere.
Mercoledì 17 aprile 1555.
Dopo il buio della notte venne la luce tenue del mattino.
Pellegrina era rimasta sveglia a fissare il soffitto. Schiacciata sul tavolaccio fra le compagne e raggomitolata su sé stessa. Al buio, riusciva appena a distinguere le quattro vele bianche della volta, che s’incrociavano al centro. Più ore passavano, più l’ambiente schiariva; quando vide distintamente la cella era giorno e fu allora che cominciò la paura.
Per tutto il tempo si era tormentata, pensando al suo destino. Cos’altro avrebbe potuto fare se non la magara? La prostituta, oppure la serva in un convento, come Sebastiana de Romeo? Da sola, con la disperazione e un bambino di sei anni, in una città che non era la sua città.
Nardo insisteva di volere aprire una bottega e niente gli toglieva dalla testa il proposito di riuscirci. Era solo questione di tempo. Giurava e spergiurava che non era una sbandata per donna Paula, ma lo sentiva canticchiare, a mezza voce, una filastrocca appresa chissà dove:
«La gallina cantatura, né si vinni, né si duna. Si la mancia la patruna».
Quella gallina, che si poteva tutt’al più condividere, era il modo per riacciuffare la fortuna perduta. Così ripeteva Nardo. Macché fortuna, ribatteva lei, era l’espediente di donna Paula per acciuffargli il marito.
E fu l’inferno.
La gente come lei l’inferno l’aveva nel cuore e nella testa, per la disperazione. Che potevano sapere mai, ministri di Dio e inquisitori, cosa fosse davvero l’inferno? L’avevano raffigurato sui codici miniati e lo descrivevano dal pulpito quando giudicavano, sì giudicavano, la folla dei fedeli.
Dall’inferno, però, lei si poteva salvare, facendo dell’inferno un mestiere per sbarcare il lunario. Come certi religiosi che pur vestendo l’abito talare predicavano parole senza fede.
In uno dei suoi giorni più neri s’insinuò l’idea di mettere a frutto facoltà che aveva visto praticare nella sua Napoli incantata e prodigiosa. Fu Catharina a suggerirlo. Faceva parte dei profughi greci, approdati in città ventidue anni prima, rifuggendo dai Turchi.
Ventidue anni: le accumunava la stessa età. Condividevano la risolutezza a superare la miseria. Con Catharina strinse amicizia e affari. Quanto durò il sodalizio? Due anni o poco meno. Andò avanti fino a quando non rispuntò Leonardo.
Era la vigilia dell’Ascensione. Con una frotta festosa di devoti aveva raggiunto la spiaggia. Anche lei, come gli altri, s’inginocchiò sulla riva mentre il flusso della risacca lambiva la sabbia e spumeggiando si ritirava.
Col suo goffo accento, ripeteva in coro:
«Ti salutu fonti di mari, cca mi manna lu Signori: tu m’ha dari lu to beni, io ti lassu lu me mali».
In un capannello di persone chiassose, scorse il volto sorridente di Nardo che la fissava. S’impuntò perché lo accompagnasse, portando con sé un pugno di sabbia benedetta per gettarla contro i battenti di un portone sprangato. Di quel magazzino aveva le chiavi. Nel suo interno, buio e vuoto, le annunciò orgoglioso che proprio lì avrebbe impiantato la sua bottega di setaiolo.
Interruppe i ricordi quando fu condotta in catene nella sala delle udienze. Senza preamboli le chiesero se avesse deciso di ammettere la verità. Si sarebbe usata misericordia. Nel caso contrario, si sarebbe usata giustizia.
Spiegò impacciata che, nella prima udienza, sua signoria reverendissima le domandò se avesse fatto magarie e invocato i demoni. Lei rispose di no. Nelle due settimane in cella aveva avuto tempo per ricordare alcuni episodi.
Confessò di aver sanato il figlio di un bottegaio, di casa all’Uccellatore, ma non sapeva come si chiamasse. Gli curò una mano e la bocca, che teneva torta per un’ombra mala che lo aveva toccato di notte. Gli scacciò il maleficio, lasciando cadere nove gocce d’olio in una scodella d’acqua, mentre recitava nove pater nostri et nove avemarie. Lo aveva fatto ungere con olio d’incenso e olio di martoriato. Esattamente in questo modo lo aveva sanato. Sperava che confessarlo potesse rendere indulgente il Tribunale.
Il segretario, che fino allora aveva registrato l’interrogatorio con la sua penna cricchiante, alzò il capo dal foglio e lesse:
«Incipit confiteri».
Pellegrina aveva deciso di rivelare la verità, senza remore, con la speranza di abbreviare ogni sua tribolazione.
Affermò di avere conosciuto, quattro o cinque anni prima, una greca di nome Catharina, moglie di un tale Joanne, anche lui greco, che faceva il pescatore. Catharina abitava nelle vicinanze di Montevergine e con lei aveva stretto una grande amicizia. Non era informata dove fosse andata a finire. L’aveva persa di vista dal momento che ora, con la sua famiglia, abitava a San Giovanni. Tacque sui motivi che avevano fatto rompere la dichiarata amicizia e il loro reciproco interesse.
La detta greca confezionava fatture e le nascondeva in casa di persone con cui era in confidenza. Poi andava dicendo di avere notizia di una tale che sapeva trovare e sciogliere magarie. Per il solo fatto che Pellegrina veniva da Napoli, le davano subito credito, così spremevano denari a questo e a quello e poi se li spartivano.
Cominciarono a fare quattro o cinque magarie, in diverse occasioni. Catharina sostava in casa di alcuni conoscenti e, suggerendo di aver sentito dire che contro la famiglia era stata gettata una iattura, raccontava che Pellegrina avrebbe saputo come toglierla.
Così andavano i fatti. Le persone la mandavano a chiamare e lei, avvisata dalla greca dove aveva nascosto il maleficio, con una messa in scena lo trovava senza esitazione. Per questo si facevano pagare denari e se li dividevano, tanto l’una tanto l’altra.
Le riusciva difficile ricordarsi distintamente in quali case o a chi fecero e disfecero quelle magarie.
Le sovvenne che una volta nascosero una bambola di pezza davanti alla casa di un tal capitano Mòllica, di nome Francesco. Catharina andò e decantò ai famigliari come Pellegrina, da poco tempo venuta da Napoli, fosse in grado di scovare e rompere il sortilegio.
Non passò un giorno: la moglie del detto Mòllica, di nome Nocella, la mandò a chiamare per chiederle se suo marito tenesse davvero una magaria. Rispose di sì, che l’aveva, e che lo capiva semplicemente ad occhio nudo, dato il pessimo stato in cui s’era ridotto.
Nocella la scongiurò di sciogliere il maleficio. Così Pellegrina, frugando fuori della porta di casa scovò una papattola fatta con mani e piedi. La mostrò, tra lo stupore dei presenti, e mentre la mostrava la faceva a pezzi. Dava a intendere alla povera donna che suo marito, liberato dal malocchio, sarebbe tornato sano.
Per sdebitarsi, Nocella le diede un anello d’oro che montava un turchese, scelto in un cofanetto fra le gioie che le aveva mostrato. Altre volte, qualcuno le dette due tarì, qualche altro tre, che spartiva con la comare Catharina.
Catharina era un’esperta davvero, perché le insegnò anche i trucchi per riconoscere se uno sarebbe diventato povero o ricco, oppure se avesse avuto vita lunga o al contrario fosse morto nel corso dell’anno. Le bastava utilizzare una caraffa, oppure un orinale, che accanto al letto di un ammalato non mancavano mai. Le spiegava di versarvi dell’acqua e lasciarci cadere dentro un bianco d’uovo sbattuto, mentre recitava un pater nostro et una ave Maria, a reverenza di San Giovanni.
Se fosse destinato a rimanere povero, il bianco dell’uovo, che galleggiava a filo d’acqua, si sarebbe smontato piano piano. Se invece fosse destinato a diventare ricco, il bianco d’uovo si sarebbe raggrumato, prendendo l’aspetto di castelli castelli. Se, disgraziatamente, fosse destinato a morire in quell’anno, avrebbe preso forma di campanelle campanelle.
Imparato questo, nient’altro, Pellegrina cominciò a predire il futuro. Diverse volte lo fece, ma non si ricordava a chi: sia perché non domandava mai come si chiamassero quelli che la consultavano, sia perché, appena si smontavano le chiare d’uovo, quelli pagavano e se ne andavano. Chi s’è visto s’è visto. Le versavano chi cinque, chi dieci grani. Qualcheduno le dava uova. Poi non li rivedeva più.
Aveva perso nozione del tempo. In maniera insistente, le domande si moltiplicavano. Le chiedevano di ricordare con precisione eventi e particolari, col proposito di metterla in confusione e farle confessare colpe gravi. Così fu.
Senza accorgersi rivelò che circa cinque anni prima, prese a frequentare casa sua un tale di nome Chimento che ai banchi intrecciava ceste e le rivendeva. Dell’escofiaro non sapeva il cognome, ma solo che era zoppo da una gamba.
Chimento insisteva perché lei facesse certe pratiche strane. Pigliava una caraffa senz’acqua e metteva dentro un anello d’oro attaccato a un filo. Le chiedeva di guardare, ma lei ribatteva di non vedere niente. Allora Chimento tracciava con l’unghia, sopra un pezzo di carta, un certo carattere e diceva che era il gruppo di Salomone e le chiedeva se a guardarci dentro vedeva qualcosa, ma lei non vedeva niente lo stesso.
Chimento, allora, si spazientiva e diceva che, per leggere in quel segno, avrebbe voluto essere lui stesso una donna vergine o gravida, perché, cazzo, lui vedeva un re con gente che gli veniva dietro, ma non li sentiva parlare. Non li sentiva parlare! Questo era il problema: perché lui voleva sapere cosa dicevano.
Il pallore ormai le segnava il volto. Esitante, cuore in gola, incapace di fingere o mentire, continuava a raccontare che saranno trascorsi non più di due anni che venne da lei un panettiere, accompagnato dalla moglie Chatarinella di cui non conosceva il cognome, e neppure il nome del marito. Sapeva però che stavano di casa a S. Maria La Porta.
Le dissero di avere una creatura così malata da non poterla portare da lei e le chiedevano di venire a vederla. Pellegrina rispose che sarebbe bastato portarsi via un certo oggetto e glielo diede. Avrebbero dovuto poggiarlo sulla testa della piccolina. Raccomandò di metterci su anche una scodella d’acqua, con tre pizzichi di sale, non uno di meno, e di recitare tre pater nostri e tre ave Marie.
Quando tornarono, una seconda volta, perché la cura non aveva ottenuto effetto, li convinse a ripetere quanto aveva già detto, ma di aggiungere nella scodella d’acqua nove gocce d’olio. Neppure questa volta giovò a niente. Provò ancora con certe sbattutine di mani e di piedi, ma a giorni la piccola morì.
In questo caso il rimedio non portò beneficio; ma c’era anche quando funzionava, perché lo proponeva spesso a diverse persone. Non sapeva chi fossero: non aveva l’abitudine di domandare il nome a nessuno.
Si arrese sfinita. Ma gli inquirenti sembravano insoddisfatti. Le fu ripetuto di pensare a dire la verità, perché avevano informazioni di cose ben gravi. Se avesse confessato si sarebbe usata misericordia.
Rispose di non ricordare altro e fu condotta di nuovo in carcere.
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