Natale e Fine anno 2023 con Guy de Maupassant: oggi “Racconto di Natale”

Questo “Conte de Noël” (Racconto di Natale) è stato pubblicato per la prima volta sul quotidiano Le Gaulois lunedì 25 dicembre 1882. In seguito, il testo venne inserito nella raccolta Clair de lune (pp. 55-64). Di nuovo è stato ristampato nelle riviste La Lecture del 25 dicembre 1888 e Le Voleur del 25 dicembre 1890.

Guy de Maupassant (1850–1893) è stato tra gli autori francesi più conosciuti e apprezzati dell’Ottocento. È reputato dall’attuale critica letteraria come l’ideatore del racconto moderno e maestro del romanzo letterario. Aderì alla scuola realista, incentrata sulle vicissitudini umane, i destini e le spinte sociali, con uno sguardo disilluso e spesso pessimistico.

Maupassant fu l’allievo favorito di Flaubert, e le sue storie sono caratterizzate da uno stile scarno e scorrevole. Molti dei soggetti dei suoi racconti fanno riferimento alla guerra franco-prussiana del 1870, dove descrive l’inutilità dei conflitti che colpiscono civili innocenti, coinvolti in eventi estranei al loro controllo, così da trovarsi a mutare improvvisamente la propria esistenza. Maupassant ha scritto circa 300 racconti, sei romanzi, tre racconti di viaggio e un volume di versi. La sua pubblicazione, Boule de Suif (Palla di sego, 1880), è considerata il suo capolavoro. La storia narra di dieci persone in fuga da Rouen, invasa dai prussiani, su una carrozza diretta a Dieppe. Una storia senza tempo, dove emerge la figura morale di Elisabeth Rousset, una prostituta soprannominata “Boule de Suif” a causa del suo sovrappeso, disprezzata inizialmente dai suoi compagni di viaggio.

Il dottor Bonenfant frugò nella sua memoria, ripetendo a bassa voce: «Un ricordo di Natale?… Un ricordo di Natale…»?
E all’improvviso esclamò:
– Ma sì, ne ho uno, e per giunta molto strano; è una storia fantastica. Ho visto un miracolo! Sì, signore, un miracolo la notte di Natale.
Sorprenderà sentirmi parlare così, io che non credo quasi a nulla. Eppure, ho visto un miracolo! L’ho visto, dico, visto, visto con i miei occhi, quello che s’intende esattamente per visto.
Ne sono rimasto molto sorpreso? No; perché se non credo nelle tue convinzioni, credo nella fede, e so che smuove le montagne. Potrei citare molti esempi, ma irriterei e mi esporrei anche a sminuire l’effetto della mia storia.
Prima di tutto confesso che, se non sono stato molto convinto e convertito da ciò che ho visto, sono stato a dir poco molto commosso, e cercherò di raccontare la cosa con ingenuità, come se fossi un credulone dell’Alvernia.
Allora ero un medico di campagna e vivevo nel borgo di Rolleville, nel cuore della Normandia.
L’inverno di quell’anno fu terribile. Già alla fine di novembre, la neve arrivò dopo una settimana di gelate. Si vedevano da lontano le grandi nubi provenienti da nord, e cominciò la bianca discesa dei fiocchi di neve.
In una notte tutta la pianura fu sepolta.
Le fattorie, isolate nei loro cortili quadrati, dietro le cortine di grandi alberi coperti di brina, sembravano addormentarsi sotto l’accumulo di quel muschio spesso e leggero.
Nessun rumore attraversava più la campagna immobile. Solo i corvi, in stormi, descrivevano lunghi festoni nel cielo, cercando invano la propria vita, cadendo tutti insieme sui campi lividi e pizzicando la neve con i grandi becchi.
Non si sentiva altro che il vago e continuo scorrere di quel polviscolo che cadeva continuamente.
Durò otto giorni interi, poi la valanga si fermò. La terra aveva sul dorso uno strato spesso cinque piedi.
E, per tre settimane, un cielo terso come un cristallo azzurro di giorno, e di notte tutto seminato di stelle che si sarebbero potute credere gelate, tanto rigoroso era il vasto spazio, disteso sulla falda unita, dura e lucente di neve.
La pianura, le siepi, gli olmi delle recinzioni, tutto sembrava morto, ucciso dal freddo. Non uscivano più né uomini né animali: solo i camini delle case col tetto di paglia, in camicia bianca, rivelavano la vita nascosta, attraverso sottili fili di fumo che salivano dritti nell’aria gelida.
Di tanto in tanto si sentivano gli alberi scricchiolare, come se i loro rami di legno fossero stati spezzati sotto la corteccia; e talvolta un grosso ramo si staccava e cadeva, mentre il gelo invincibile pietrificava la linfa e rompeva le fibre.
Le abitazioni disseminate qua e là per i campi sembravano distanti l’una dall’altra cento leghe. Vivevamo come meglio potevamo. Da solo, ho tentato di andare a trovare i miei clienti più vicini, esponendomi costantemente a rimanere sepolto in qualche cavità.
Ben presto mi sono reso conto che un misterioso terrore aleggiava sul paese. Si pensava che un simile flagello non fosse naturale. Si sosteneva che di notte si udissero voci, fischi acuti, urla momentanee.
Queste grida e questi fischi provenivano senza dubbio dagli uccelli migratori che viaggiano al tramonto e che fuggivano in massa verso il sud. Ma andate, dunque, a far sì che persone sconvolte ascoltino la ragione. Lo spavento invadeva gli animi e la gente si aspettava un evento straordinario.
La fucina di papà Vatinel si trovava al confine della frazione di Épivent, sulla strada principale, ormai invisibile e deserta. Ora, poiché alla gente mancava il pane, il fabbro decise di andare al villaggio. Rimase qualche ora a chiacchierare nelle sei case che formano il centro del paese, prese il suo pane e qualche notizia, e un po’ di questo timore che si era sparso per la campagna.
E ripartì prima del tramonto.
All’improvviso, mentre camminava lungo una siepe, gli parve di vedere un uovo sulla neve; sì, un uovo depositato lì, tutto bianco come il resto del mondo. Si chinò, era davvero un uovo. Da dove veniva? Quale gallina era potuta uscire dal pollaio per venire a deporre le uova in questo posto? Il fabbro rimase sorpreso, senza capire, ma raccolse l’uovo e lo portò a sua moglie.
— Ehi, padrona di casa, ecco un uovo che ho trovato per strada!
La donna annuì:
— Un uovo sulla strada? Con questo tempo? Sei ubriaco, ovviamente.
— Ma no, signora mia, anche se era ai piedi di una siepe, e ancora caldo, non congelato. Per questo me lo sono messo sulla pancia per non farlo raffreddare. Lo mangerai per cena.
L’uovo fu fatto scivolare nella pentola dove sobbolliva la zuppa, e il fabbro cominciò a raccontare ciò che si diceva nel contado.
La donna ascoltava, tutta pallida.
—L’altra notte ho sicuramente sentito dei fischi, anche se sembravano provenire dal camino.
Si sedettero a tavola, mangiarono prima la zuppa, poi, mentre il marito spalmava il burro sul pane, la moglie prese l’uovo e lo esaminò con occhio diffidente.
– Se ci fosse qualcosa in quest’uovo?
—Cosa vuoi che ci sia?
– Lo sai ti, o me?
— Dai, mangialo, e non fare la stupida.
Lei aprì l’uovo. Era come tutte le uova, e molto fresco.
Cominciò a mangiarlo esitante, ad assaggiarlo, a lasciarlo, a riprenderlo. Il marito disse:
— Ebbene! Che sapore ha questo uovo?
Lei non rispose e finì di inghiottirlo; poi, all’improvviso, piantò sul suo uomo due occhi fissi, smunti, in preda al panico; alzò le braccia, le attorcigliò e, convulsa dalla testa ai piedi, rotolò a terra lanciando grida orribili.
Per tutta la notte si dibatté tra spasmi terribili, scossa da tremori spaventosi, contorta da convulsioni orribili. Il fabbro, incapace di trattenerla, fu costretto a legarla.
E lei urlava esagitata, con voce instancabile:
— Ce l’ho nel corpo! Ce l’ho nel corpo!
Sono stato chiamato il giorno dopo. Ho prescritto tutti i sedativi conosciuti senza ottenere il minimo risultato. Era una pazza.
Poi, con una velocità incredibile, nonostante l’ostacolo della forte nevicata, la notizia, questa strana notizia, si diffuse di fattoria in fattoria: «La moglie del fabbro è posseduta»! E la gente veniva da ogni parte, senza osare entrare in casa; ascoltavano da lontano le sue terribili grida, emesse con una voce così forte che non si potevano credere di una creatura umana.
Il parroco del villaggio fu informato. Era un vecchio prete ingenuo. Egli accorse in cotta come per ungere un moribondo e, tendendo le mani, pronunciò le formule di esorcismo, mentre quattro uomini tenevano su un letto la donna schiumante e contorta.
Ma lo spirito non fu scacciato.
E Natale arrivò senza che il tempo fosse cambiato.
La mattina prima il prete venne a trovarmi:
— Voglio che questa sfortunata, disse lui, partecipi alla funzione di stasera. Forse Dio compirà un miracolo in suo favore, proprio nell’ora in cui è stato partorito da donna.
Risposi al prete:
— Concordo nel modo più assoluto, signor abate. Se la sua mente fosse colpita dalla cerimonia (e nulla avrebbe maggiori probabilità di commuoverla), potrebbe essere salvata senza altro rimedio.
Il vecchio prete mormorò:
— Lei non è credente, dottore, ma mi aiuterà, vero? Lei si occuperà di portarla?
E io gli promisi il mio aiuto.
Venne la sera, poi la notte; e la campana della chiesa cominciò a suonare, gettando la sua voce lamentosa attraverso lo spazio tetro, sopra la distesa bianca e ghiacciata di neve.
Degli esseri neri venivano lentamente, a gruppi, ubbidienti al suono metallico del campanile. La luna piena illuminava l’intero orizzonte con un chiarore luminoso e pallido, rendendo più visibile la cerea desolazione dei campi.
Mi procurai quattro uomini forti e mi diressi alla fucina.
L’indemoniata urlava ancora, legata al pannolino. La vestirono adeguatamente malgrado la sua disperata resistenza e la portarono via.
La chiesa adesso era piena di gente, illuminata e fredda; i cantori emettevano le loro note monotone; il serpente russava; la campanella del chierichetto, regolando i movimenti dei fedeli.
Chiusi la donna e i suoi guardiani nella cucina del presbiterio, e aspettai il momento che credevo fosse favorevole.
Scelsi l’istante che segue la Comunione. Tutti i contadini, uomini e donne, avevano ricevuto il loro Dio per mitigare il suo rigore. Calò un grande silenzio mentre il sacerdote completava il mistero divino.
Al mio ordine la porta fu aperta e i miei quattro assistenti fecero entrare la pazza.
Non appena vide le luci, la folla inginocchiata, il coro in fiamme e il tabernacolo dorato, lottò con tale vigore che quasi ci sfuggiva, ed emise grida così acute che un brivido di terrore percorse la chiesa; tutte le teste si alzarono; alcuni se la filarono.
Non aveva più la forma di una donna, tesa e contorta tra le nostre mani, il viso stravolto, gli occhi furiosi.
La trascinarono fino ai gradini del coro e poi la tennero a forza accovacciata a terra.
Il prete si era alzato; stava aspettando. Appena la vide bloccata, prese fra le mani l’ostensorio circondato da raggi d’oro, con l’ostia bianca al centro, e, fatto qualche passo, lo sollevò sopra la testa con le due braccia tese, presentandolo allo sguardo spaventato dell’indemoniata.
Lei urlava sempre, con l’occhio fiso, teso su quell’oggetto raggiante.
E il prete rimase così immobile che lo si sarebbe preso per una statua.
E questo durò molto, molto a lungo.
La donna sembrava presa da paura, affascinata; guardò fissamente l’ostensorio, ancora scossa da tremori terribili, ma fugaci, e ancora piangendo, ma con voce meno straziante.
E questo continuò per molto tempo.
Si sarebbe detto che non potesse più abbassare gli occhi, che fossero fissi sull’ostia; fon faceva che gemere, e il suo corpo irrigidito, pian piano, s’ammorbidiva e s’affossava.
Tutta la folla era prostrata con la fronte a terra.
La posseduta abbassava rapidamente le palpebre, poi immediatamente le sollevava, come se non potesse sopportare la vista del suo Dio. Si era zittita. E poi all’improvviso ho notato che i suoi occhi restavano chiusi. Dormiva il sonno dei sonnambuli, ipnotizzata, scusa! Vinta dalla persistente contemplazione dell’ostensorio dai raggi dorati, sconfitta dal Cristo vittorioso.
Fu portata via, inerte, mentre il sacerdote risaliva i gradini dell’altare.
I presenti, commossi, intonarono un Te Deum di ringraziamento.
E la moglie del fabbro dormì quaranta ore di fila, poi si svegliò senza alcun ricordo della possessione, né della liberazione.
Questo, signore, è il miracolo che ho visto.
Il dottor Bonenfant rimase in silenzio, poi aggiunse con voce seccata: «Non potevo rifiutarmi di certificarlo per iscritto».
 
 
25 dicembre 1882


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