Dove la prima di cinque bizzoche, Elisabeta D’Afannato, si presenta ai giudici del Santo Tribunale dell’Inquisizione e accusa Pellegrina Vitello di essere una magara. Ricorda in particolare quando sciolse l’incantesimo a una ammalata di nome Geronima Danchano. Per Monsignor Bartholomeo Sebastiàn è questa la “notitia criminis”, tuttavia occorrono ulteriori denunce perché si possa aprire un procedimento di eresia.
Giovedì 21 marzo XIIIa indizione 1555 nella città di Messina.
In quel primo giorno di primavera l’aria del mattino alitava pungente e le piante di cappero, abbarbicate alle mura del porto falcato, rilucevano imperlate di rugiada.
Comare Elisabeta, infagottata in un pesante mantello scuro, muoveva ansimante alla volta del Sacro Tribunale. Si voltava per guardarsi le spalle, ansiosa di assicurarsi che nessuno la osservasse. Di tanto in tanto squadrava i sandali nuovi, facendo attenzione a non inzaccherarsi per via delle piogge alterne dei giorni precedenti. Al terriccio umido e argilloso preferiva quello cretoso, essiccato al primo sole della stagione. Contenta come una ragazzina, accortamente saltellava qui o là. Ragazzina non lo era più da un pezzo, ma contenta sì, perché a breve sarebbe stata alla presenza di monsignor Sebastiàn, per deporre in osservanza all’editto e dimostrarsi cristiana coscienziosa e timorata di Dio.
Nelle ultime domeniche le parole dell’omelia di bocca in bocca erano rimbalzate per tutta la città. Da parte sua aveva tentato di scovare nel profondo della memoria un fatto, una persona, e non aveva dovuto faticare molto. Ora sarebbe stata più vicina a guadagnarsi un posto in paradiso. Avrebbe, oltretutto, racimolato qualche onza di ricompensa. Il bando pubblico, che più di una volta s’era fatto leggere dal presbitero, lo decretava espressamente. Frenò il passo e si accomodò il cappuccio del mantello. Parve ripensarci, ma fu un attimo soltanto. Risolse di mettere da parte diffidenze e incertezze, giacché per verità cristiana anche le magare dovevano fare ammenda delle proprie falsità. Mosse ancora qualche passo titubante; poi riprese svelta verso il Palazzo, senza porsi altri pensieri.
Al cospetto dell’illustre e reverendissimo Don Bartholomeo Sebastiàn, vescovo di Patti e inquisitore generale di Sicilia, comare Elisabeta credette di aver perso memoria del discorso che aveva imbastito per tutta la notte e che, mentalmente, aveva ripassato lungo la strada.
Composto nella sua autorevolezza, distante nella sua dignità, interrogativo nella sua silenziosità, il vescovo fece segno al cancelliere di leggere la formula d’apertura, ad alta voce e per esteso:
«Coram Illustre et Reverendissimo domino Don Bartholomeo Sebastiàn episcopo Pactensi et Inquisitore, comparuit quedam muger que medio juramento interrogata dixit…».
Farfugliando, disse di chiamarsi sora Elisabeta Afannato, 35 anni circa, monaca del terzo ordine dei cappuccini – e si segnò religiosamente la fronte – di essere la vedova di Jacobo Afannato che campava di rendita e commercio. Disse altresì di aver deciso di presentarsi al Sant’Officio per scaricare la coscienza e per timore degli editti.
A malapena riusciva ad aprir bocca. In modo confuso e tentennante dichiarò tutto questo nel suo parlare dialettale, ansiosa di farsi comprendere dalle dotte autorità spagnole. Via via, parve però che la lingua si sciogliesse e che non stesse più di fronte ai giudici del Sacro Tribunale, ma insieme alle consorelle, Sebastiana, Antonella, Catarinella, quando sull’uscio di casa intessono trine, merletti e dicerie.
Disse che saranno trascorsi circa otto o nove anni da quando sentì parlare per la prima volta di una certa Pellegrina. Sul periodo in cui si svolsero i fatti parve sicura, perché ricordava che una vicina, di nome Geronima Danchano, moglie di Peri Danchano, mercante lucchese, stava malata.
Era gente benestante, ma una sorte infame affliggeva la povera donna. Peri, suo marito, aveva speso una fortuna per consultare i medici migliori: venivano, scrutavano, auscultavano, prescrivevano, ma la meschina deperiva. Inferma da tempo, alcuni cominciarono a parlare di malocchio, rimarcando che una certa Pellegrina scioglieva magarie. Il cognome, Sora Elisabeta, non lo conosceva; sapeva però che era stata sposata. Il marito l’avevano visto girare in via dei Butari. Col gusto del pettegolezzo, aggiunse che grazie a Dio s’era trovato un lavoro anziché vivacchiare con mezzucci; ma l’affermazione non fu messa a verbale.
Accompagnata da qualcuno a casa dell’ammalata, Pellegrina nella penombra si avvicinò al capezzale. Contrariamente a quanto facevano i medici – che armeggiavano con strumenti d’osso o di legno e pronunciavano parole incomprensibili – Pellegrina solo a vederla disse che la poveretta stava magariata.
Confermato ogni timore, i presenti la trassero in disparte. Pellegrina li rassicurò che lei, quella fattura, l’avrebbe scovata e disfatta a suo piacimento; poi in un baleno si precipitò al piano terra, aprì il portone di casa e uscì. Tardò un attimo. Rientrò. Risalì a rompicollo la scala di legno e tornò dall’ammalata.
Fra lo stupore di tutti, mostrava un cuore di cera, nel quale erano confitti certi spilli, e ripeteva ecco la maya che ho trovato… e, senza che i presenti avessero modo di osservare da vicino, strappava e gettava via gli spilli.
Comare Elisabeta parlava ormai con scioltezza, ma incespicò quando le chiesero se ricordava chi avesse assistito al fatto. Istintivamente rispose di no, poi si corresse e disse di sì, mentre un altro la incalzava se, nell’affaccendarsi sul cuore di cera, la magara pronunciasse orazioni. Sora Elisabeta si giustificò che nel parapiglia non vide, né sentì, Pellegrina proferire alcunché.
Le fu rinnovata la domanda:
«Chi era presente quando si verificarono le sopraddette cose?».
Fu scritto a verbale che, oltre a lei, c’erano l’ammalata e suo marito, entrambi morti. Nominò anche sora Catharina Artes, che al momento le pareva – quasi che non la conoscesse fin troppo bene – fosse monaca di casa nella chiesa di S. Maria di Gesù, figlia di Geronimo Artes sollecitaturi.
Pose l’accento su sollecitaturi, come se si attendesse che qualcuno fra gli inquirenti potesse manifestare apprezzamento. Nessun segno. Le fu invece chiesto se rammentasse altri episodi dell’attività di magara esercitata da Pellegrina.
Sora Elisabeta ci pensò su. Le sovvenne che, per sentito dire, disfece un’altra fattura a una parente sua, moglie di Ioanni Caruso, che è morta anche lei. Glielo aveva riferito una delle figlie; ma non ricordava quale, né quando. Poi, non avendo altro da aggiungere, restò in silenzio.
Il segretario volse lo sguardo all’inquisitore, tacitamente chiedendo se fosse il caso di trascrivere la formula di chiusura:
«Interrogata de odio, dixit: que non. Et fuit ei insinuatum silençium».
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