La riflessione riguarda la società delle competenze

 

Qualche lettore ha notato in questi miei ultimi articoli una sorta di filo conduttore che in verità non mi ero prefissato, ma è scaturito spontaneamente come riflessione su questa nostra “società delle competenze”, nella realtà dei fatti spesso inadeguate. Una riflessione sulle procedure che permettono di eseguire un lavoro con arte, con maestria: suole parlare di lavori fatti “a regola d’arte”. Gli inglesi usano indifferentemente i due termini “art & craft”, arte e artigianato. Per loro l’artigianalità è arte, intesa come abilità nel realizzare bene un lavoro. La bottega medievale era il luogo di un’arte manuale, ma anche intellettuale. Nelle vetrate delle cattedrali, la figura dell’artista coincideva con quella dell’esecutore. La separazione tra arte e artigianato si realizzò col Rinascimento. L’arte si contraddistinse per originalità, mentre l’idea di artigianato fu legata a pratiche comuni, ripetitive, trasmissibili in quanto tecniche. Questa idea è radicata ancora oggi. Tuttavia, considerare la tecnica come routine, priva cioè di creatività, è un grande errore. Precisarne il giudizio porterebbe a migliorare i processi di formazione delle competenze. Basti pensare, all’interno di un processo storico di lunga durata, la relazione dei concetti di “progresso e miglioramento”, evidenziati dagli illuministi riguardo alla possibilità di accrescere il controllo sulle condizioni materiali. L’Encyclopédie di Diderot pose di nuovo, sullo stesso piano di dignità, arti liberali e arti meccaniche. Nei suoi trentacinque volumi, pubblicati tra il 1751 e il 1772, contenuti e tavole grafiche misero in luce come fosse possibile un ragionamento combinato sulle scienze, le arti e i mestieri. Ci torneremo su; ma lo prometto: non sarà un discorso a puntate.

Fonte dell’immagine:FILOSOFIA E STORIA

 

Imparare a superare la soglia dello specchio

 

Il dialogo intessuto questa mattina, a colazione, con mia moglie mi ha portato a rammentare il tempo in cui molte cose si riparavano. Da bambino, mia madre mi chiedeva di andare dalla merciaia a far rammagliare le sue calze da donna, perché aveva una macchina speciale. E così era con l’orologiaio, l’elettricista e con il tecnico che armeggiava con le grosse valvole del televisore. Quanta pazienza avevano questi signori. Non è così ora. Appena qualcosa si guasta si getta. Vale anche per il desiderio o l’amicizia, il legame con la comunità o con la sua memoria. Come la roba vecchia, finiscono nel cumolo d’immondizia, che è l’unico a permanere ai bordi del cassonetto. Così nel discorso è affiorato l’insegnamento di Zygmunt Bauman. A differenza della miriade di persone specializzate nell’arte di complicare le cose semplici, era un chiarificatore convincente di concetti complessi. Ci ha spiegato il non senso di questa modernità liquida, dove nulla ha il tempo di attecchire. Instabilità, precarietà, fragilità, sono il denominatore comune, col quale imparare a convivere se, in quest’epoca di individualità, non riprendiamo a dialogare. Ma il dialogo è pazienza, perseveranza, profondità, non il risultato di un contatto dall’effetto immediato. «Il vero dialogo non è parlare con gente che la pensa come te. Entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare a imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro». Non specchiarsi in sé stessi, dunque, ma come Alice varcare il limite. Bauman ha indicato la strada di una vera rivoluzione culturale, per ripensare un modello di vita, una cultura che non permette ricette o facili scappatoie, «esige e passa attraverso l’educazione che richiede investimenti a lungo termine». Ce la faremo?

Fonte immagine: www.novaradio.info

Una mente lucida quanto il marmo

 

La Maniera moderna di cui parla Vasari si riferisce a maestri come Leonardo, Michelangelo, Raffaello, che seppero esprimere il vertice di un’arte iniziata con Cimabue e Giotto. Quando quest’arte sfociò nel Manierismo, si prese a modello unicamente lo stile dei tre grandi maestri, tralasciando i canoni classici e guardando alla modernità. Questa sintesi solo per riflettere su quale fosse la maniera di dipingere o scolpire di Michelangelo, che tanto influenzò il tempo. L’attestano i libri, ma se le prove giungono da rilievi diretti è come trovarsi a contatto con l’artista. Antonio Forcellino lo ha dimostrato col recente restauro della Tomba di Giulio II scolpita da Michelangelo nella basilica romana di San Pietro in Vincoli. Forcellino ha reso tangibili le tracce del maestro, la sua maniera: «Si vede chiaramente che Michelangelo dava dei colpi trascinandoli per 10-11 centimetri». Con precisione imprimeva su martello e scalpello il suo controllo assoluto. «È lo stesso effetto che si ha osservando la Cappella Sistina con le sue pennellate perfettamente parallele e sempre alla stessa distanza». Se il marmo deve assorbire luce usa la gradina o il calcagnuolo, due tipi di scalpello, dentato l’uno, corto l’altro. Per una maggiore luminosità usa la pomice; se vuole lucentezza adopera il piombo. Per chi si occupa d’arte il senso della scoperta sta nell’applicazione di una tecnica i cui rilievi la evidenziano da stili diversi, come quei segni di raspa che Michelangelo, a differenza degli aiuti, non avrebbe mai usato. Persino un artista segue una maniera di operare, un metodo di lavoro. Per chi non si occupa d’arte il senso del discorso è: abbandonate ogni creatività istintiva. Non crediate di raggiungere obiettivi per come viene viene.

Per attivare identità e partecipazione


Antonello da Messina
. Che questa Città, alla ricerca di una identità sopita, veda finalmente in uno dei suoi figli più prestigiosi un punto di riferimento? Si può ben sperare. A Palazzo dei Leoni è presentata la Fondazione di Partecipazione “Antonello da Messina”, per lo studio e la promozione del grande artista rinascimentale. Nell’Aula Magna dell’Università vede luce il volume curato da Grazia Musolino “Testimonianze della cultura figurativa messinese dal XV al XVI secolo”, catalogo della mostra di opere e manufatti sui seguaci di Antonello, ospitata nel 2016 a Palazzo Ciampoli di Taormina. Fra studi e schede di catalogo, una riflessione è incentrata sulla tavoletta bifronte opera giovanile di Antonello, dall’attribuzione alquanto discussa. Ma è l’humus attivo delle botteghe d’arte ad emergere, da quella principale ereditata da Jacobello dopo la morte del padre, a quelle di Antonello de Saliba, di Salvo d’Antonio, fino a Girolamo Alibrandi. Il progetto che si prefigge la Fondazione è ben più arduo e ambizioso. S’intende infatti sviluppare, con i musei ove sono custodite le opere di Antonello, accordi e gemellaggi per divulgarne la conoscenza. A Messina non si mancherà di dare impulso ai luoghi della sua esistenza e al sito archeologico di S. Maria di Gesù Superiore, scelta per volontà testamentaria del pittore come luogo di sepoltura. Giuseppe Previti e Nino Principato sono fra i principali promotori, che hanno nominato presidente del comitato scientifico Silvano Vinceti. La Fondazione si basa sul principio della compartecipazione, prendendo esempio da Livorno dove La Caprillina ha raccolto settemila aderenti per sviluppare progetti sul recupero e la fruizione di opere d’arte. I messinesi si dimostreranno altrettanto splendidi?

Agri Gentium: Iandscape regeneration

 

Un progetto articolato, non architettato per partecipare alla selezione operata dal MiBACT al fine di individuare la Candidatura italiana alla quinta edizione del “Premio del paesaggio del Consiglio d’Europa”. Il progetto riguardante la Valle dei Templi, che rappresenterà l’Italia, è in realtà logica conseguenza di un modello di gestione eccellente. Un’azione esemplare instaurata da anni, la quale rispecchia una straordinaria tutela del paesaggio, coinvolgendo istituzioni e collettività nel recupero attivo del paesaggio: perché i beni locali devono essere patrimonio condiviso delle comunità. Il processo di tutela, salvaguardia, valorizzazione, promozione, fruizione, è garantito, se il senso di appartenenza è fondato. Parole? Certo che no, se rappresentano la realtà dei fatti e non soltanto il testo di una relazione scaturita da una buona penna, per impacchettare un plico da spedire al Ministero. Certo che no, se sono in grado di comprovare l’impegno assunto dall’Italia a Firenze nel 2000, all’atto della sottoscrizione della Convenzione Europea del Paesaggio. Cosa c’è di speciale in “Agri Gentium: Iandscape regeneration”? La capacità di coniugare le testimonianze archeologiche con il recupero di antiche pratiche produttive da riproporre e sviluppare. L’abilità di recuperare la tratta dismessa delle Ferrovie Kaos o di realizzare il giardino di specie storiche nella Kolymbethra. Sviluppare la cooperazione pubblico-privato per una rigenerazione ambientale. Realizzare un Laboratorio per la conservazione del germoplasma di coltivazioni tipiche. Valorizzare il Parco Archeologico e Paesaggistico della valle dei Templi quale sito Unesco. Creare nuove forme di conoscenza didattica e turismo. Agendo, senza far chiacchiere. Vivaddio!

Passo dopo passo, il futuro che si desidera


Evviva Palermo
capitale italiana della cultura per il 2018. Evviva perché «questa competizione virtuosa consente di lavorare molto in termini di progettazione e promozione», ha dichiarato il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini. Il sindaco Leoluca Orlando ha parimenti evidenziato come il valore più significativo sia stato incentrato sulla cultura dell’accoglienza, all’insegna delle identità e delle alterità: «Dobbiamo avere autostima, ma non sentirci ombelico del mondo, perché il fatto di sentirci ombelico del mondo nel passato ci ha lasciati fuori dal mondo». Non è, però, marginale considerare che la buona progettazione praticata ha messo insieme i Beni del patrimonio palermitano, proposto Attività inerenti alla cultura, in modo tale da attivare il Turismo. Sono esattamente i compiti fondamentali del Ministero, istituito nel 1974 «al fine di assicurare l’organica tutela di interessi di estrema rilevanza sul piano interno e internazionale». Nel 2018 verrà designata la capitale italiana del 2020. Tutte le altre città potranno così puntare su nuove idee per esaltare le bellezze del proprio territorio. Due anni a disposizione per proporre il migliore progetto. Messina potrebbe una volta di più esaltare lo Stretto, senza rimanere ferma alla proposta presentata all’Unesco. Nel 2015 Palermo aveva ottenuto il riconoscimento del suo percorso arabo-normanno quale patrimonio dell’umanità. Ma era stata bocciata nella selezione per diventare capitale europea della cultura 2019. Si imbocca una strada, si cade sbucciandosi un ginocchio, ci si rialza e si continua. Il cammino si fa camminando, guardando avanti e trascurando il percorso compiuto, che, lieve o gravoso, non torneremo a percorrere.

Kiwi, un uccello per leoni ed agnelli

 

Quei lustrascarpe con la laurea, di cui parlava l’editoriale di Centonove la scorsa settimana, non conoscono la storia di William Ramsey e del suo lucido “Kiwi”. Perché la racconto? Perché se un giovane fa un corso di formazione dovrebbe incontrare un professore come Malley che gli dicesse: «Sai, i professori non sono insegnanti, sono venditori. Io vendo te a te stesso». Prima del 1906 le scarpe si pulivano con una mistura di cera d’api fatta in casa: inconsistente per durata e inefficace alla pioggia. William aprì a Melbourne una fabbrichetta di disinfettanti e detergenti, lucidi e creme. Ma voleva migliorare; così mise insieme una miscela di nafta, lanolina, cera, gomma arabica e un colorante. La nafta, insolubile, evapora mentre il lucido asciuga e indurisce, conservandone però la brillantezza. La lanolina invece resiste all’acqua, lasciando al lucido la sua consistenza oleosa; fino alla stesura completa del prodotto rallenta l’evaporazione della nafta, rendendo l’aspetto della pelle perfettamente uniforme. Quando milioni di stivali dei soldati europei stipati in trincea necessitarono, nel fango, di un lucido in scatola, veloce da applicare e funzionale, il lucido “Kiwi” riuscì a donare colore e lucentezza alla pelle, proteggendo, se non altro, le scarpe. Ramsey, obietterebbe qualcuno, era un imprenditore! Occorre mettersi in testa che ognuno è sempre l’imprenditore di sé stesso, anche se vuole aprire un negozio di pasta fresca o fare l’avvocato. Invece, dice ancora il professor Malley, «voi studenti volete stare il più lontano possibile dal mondo reale. E gli stronzi ci campano sulla vostra apatia. Ci elaborano le strategie, valutano quante volte riusciranno a farla franca» (dal film “Leoni per agnelli”, 2007).

HERITAGE – 100NOVE n.05 del 2 febbraio 2017

Bis! Bene, bravi, bis!

 

Roberto Metro ed Elvira Foti, hanno felicemente sorpreso. Al Palacultura, per la stagione concertistica della Filarmonica Laudamo di Messina, hanno presentato un’antologia di celebri Bis, mettendo “In programma… i fuori programma”. I più attraenti che possano venire in mente, trascritti per pianoforte a quattro mani. Qui è la prima delle sorprese, perché le trascrizioni sono opera del maestro Metro: brani musicali da orchestra eseguiti, non solo su strumento solista, ma da ambedue concertisti sul medesimo pianoforte. Per cui, “Sul bel Danubio blu” o la “Marcia di Radetzky”, ascoltati sin da bambino ogni capodanno in diretta da Vienna, sono stati per me come riaprire la scatola dei ricordi occultata in un cassetto. Metro dice di aver provato per gioco, quanto per passione, ad adattare le note di Strauss scritte per un’intera orchestra al virtuosismo delle mani che si muovono su di una tastiera. Ha continuato con altre partiture da interpretare brillantemente in coppia con sua moglie. Tutte sue quelle presentate, ad eccezione di Brahms e Liszt. Ecco la seconda sorpresa. Metro, ha raccontato come, cercando a Milano fino ad approdare a Budapest, abbia ritrovato gli spartiti del famoso ciclo delle sei Rapsodie ungheresi di Liszt, trascritte dallo stesso autore per pianoforte a quattro mani. Manoscritto ritenuto perso. Senza la sua perseveranza quelle note sarebbero rimaste inespressive negli scaffali di una biblioteca. Come Achille Papin, oggi i due artisti messinesi incantano la platea: «Quando facevo del mio meglio riuscivo a renderla perfettamente felice – diceva il personaggio di Karen Blixen – Per tutto il mondo risuona un solo, lungo, grido che esce dal cuore dell’artista: consentitemi di dare il meglio di me!».

 

Uscire dal sentiero battuto della logica comune

 

Il pensare differente, ricordato la scorsa settimana, si richiama alla tag-line «Think different» inventata per “oggettivare”, nei prodotti Apple, un insolito approccio creativo. È bene, infatti, evidenziare che si può riuscire a risolvere una molteplicità di interrogativi, osservando le questioni da angolazioni diverse. Ciò significa prescindere da logiche sequenziali, che spesso portano ad individuare percorsi ideali irrealizzabili di fronte ad infiniti ostacoli. Molte volte l’alternativa è intuire soluzioni fuori dalla rigida consequenzialità logica. Ad esempio, fare recuperare a questa città un amor proprio, progressivamente smarrito, continuando a parlare di identità nei pubblici dibattiti o su libri e giornali, si finisce col rivolgersi solo a quanti sono già sensibilizzati sul tema. Collateralmente esiste una moltitudine che non frequenta dibattiti e non legge. Come attrarre il loro interesse? “Oggettivando” la realtà, ovverosia restituendo l’astrazione di un pensiero attraverso una evidenza materiale. Come può essere la maglietta “Free Tibet” del nostro sindaco Accorinti – osteggiata da alcuni o al contrario amata da altri – che non simboleggia solo un Tibet oppresso, bensì una Messina realmente libera di cercare e ritrovare sé stessa. “Oggettivare” l’attenzione sulla Galleria Vittorio Emanuele e recuperarla con una gara di solidarietà, come è riuscita a fare l’assessore Ursino, ha rivitalizzato la percezione dei beni monumentali da valorizzare. Tale oggettivazione rende, quindi, espliciti concetti comunemente inafferrabili. Supera gli elementi materiali per estendersi a quelli immateriali, come sono le idee. E con queste idee animare quel processo di costruzione sociale di una realtà che vorremmo migliore.

Un sistema nuovo d’interagire col mondo

 

Dieci anni fa, il 9 gennaio 2007, Steve Jobs ha presentato al pubblico iPhone e la maniera di approcciare il presente è cambiata. Con il mondo in tasca, s’è trasformata in modo radicale l’esistenza. Ti informi su Wikipedia, posti su Facebook, spedisci messaggi con WhatsApp, condividi selfie e video, controlli e-mail, utilizzi mappe, ascolti musica, sfogli giornali e libri, chiami un taxi. Tutto questo in mobilità e con interfaccia multi-touch. All’inizio del 2005, senza clamori, in Apple si prese a tradurre i gesti delle dita – come tap, scroll, pizzichi e strisciate – in comandi di funzione. IPhone era il prodotto più importante dai tempi del primo Macintosh. Comprensibile il timore iniziale di Jony Ive: «Io credo che le idee siano fragili e che si debba essere delicati con le idee ancora abbozzate». Era il futuro, ma anche il momento in cui «scommetti l’azienda». Grandi rischi; per converso, grandi ricompense se hai successo. Il rischio maggiore era eliminare la tastiera. L’interfaccia diventava, così, fluida e flessibile. Un portatile sottile, leggero. Design essenziale, minimale. Il nuovo aspetto amichevole invitava a toccare lo schermo. Sensazioni magnetiche. «È la cosa migliore che abbia fatto», anticipò Jobs a Time. Quel 9 gennaio presentò tre rivoluzionari prodotti. Un iPod a grande schermo con comandi tattili. Un telefono portatile rivoluzionario. Un “device” innovativo per la comunicazione internet. «Non tre dispositivi distinti ma un unico dispositivo chiamato iPhone». Da allora non siamo più gli stessi. Jobs non ha inventato nuove funzionalità, ma le ha rese davvero fruibili. Aveva ragione: per cambiare il mondo basta pensarlo differente. Sembra facile, ma è la cosa più complicata che ci sia.